di Gabriele PANDOLFELLI
Stranieri ovunque. Non è un grido d’allarme, ma è piuttosto un invito a riflettere sulle torsioni di significato che può assumere questa combinazione di parole che rappresenta il tema centrale della Biennale d’Arte del 2024 (fig.1).
L’espressione deriva dal nome dell’omonimo collettivo torinese che nei primi del 2000 combatteva il razzismo e la xenofobia in Italia, in mostra è presente sotto forma di sculture al neon con tale formula ripetuta in più di cinquanta lingue ad opera di Claire Fontaine.
Il pensiero non va soltanto alla costatazione dell’esistenza di un’alterità culturale nella propria comunità, ma si apre in più direzioni: essere straniero in quanto colonizzatore o turista, essere straniero in patria (come il caso delle minoranze o degli artisti indigeni), oppure ancora, in senso psicologico, sentirsi straniero dentro di sé (probabile allusione alla massima freudiana “l’Io non è padrone in casa propria”). Si potrebbe continuare a lungo con la decifrazione dell’argomento che si presta alle più varie interpretazioni, ma è bene lasciare aperta la questione evidenziando la grande fertilità del tema.
Di certo Adriano Pedrosa, brasiliano, Direttore Artistico del MASP in Brasile, curatore dell’esposizione di questa Biennale, ha voluto non soltanto privilegiare artisti che per la prima volta hanno esposto alla Biennale, ma anche far conoscere in Europa le tendenze dell’Arte di diversi stati sudamericani, africani e asiatici mai indagate e accolte in un tale contesto. In generale si nota nei lavori esposti, sia nei padiglioni nazionali dei Giardini, sia negli ambienti dell’Arsenale, un grande ritorno delle tecniche artistiche tradizionali, da quelle ben note, alle meno conosciute ma altrettanto sofisticate tecniche artigianali dei diversi paesi. In questo caso l’artigianato, proprio grazie al recupero e alla rivalutazione di pratiche popolari, si eleva al rango di Arte in virtù dei nuovi significati che gli artisti di volta in volta scelgono di conferirgli.
Un vero ristoro per chi trova invece l’Arte contemporanea ostica, incorporea e sfuggente. In un certo senso l’artigianato è il grande straniero ovunque, soprattutto nel contesto della Biennale d’Arte. Quest’anno, inoltre, la manifestazione esce dai suoi confini e luoghi storici frammentandosi in tanti altri ambienti disseminati per tutta Venezia suggerendo una fruizione itinerante e diffusa.
Per quanto riguarda le esposizioni e il loro rapporto con il tema centrale, si ha un bilancio piuttosto positivo ma bisogna tuttavia segnalare alcuni aspetti negativi che rischiano di intaccare la rilevanza del tema e il prestigio della manifestazione. Come era forse prevedibile la tematica è stata spesso affrontata nei termini di una critica del colonialismo, fisico e culturale, agito o subito. Una postura più che legittima e comprensibile soprattutto da parte degli artisti di quei paesi che ne sono vittime storiche. Pertanto, nel rispetto del lavoro necessario all’elaborazione del filo conduttore ci si sarebbe aspettato quantomeno una menzione autocritica, né eccessivamente autolesionistica né negazionista, da parte dei progetti artistici dei paesi storicamente colonialisti, che non sempre hanno raccolto questa sfida.
È apparsa come un’occasione parzialmente mancata di elaborazione di una parte ingombrante ma importante del senso di “Stranieri ovunque”. In particolare, si fa riferimento al padiglione del Belgio che con il progetto “Petticoat Government” si interroga sull’origine di mitologie contemporanee e storie secolari, mentre nel padiglione olandese di fianco viene invece ospitato un collettivo di artisti congolesi che lavorano nelle piantagioni (CATPC) con un progetto artistico “The international celebration of blasphemy and the sacred” dal forte valore politico ed estetico (fig.2). Un caso di amnesia coloniale belga? Ai fruitori la sentenza.
Un caso eccentrico invece è rappresentato dal progetto artistico della Germania “Thresholds” dove da un presente catastrofico e disgregato si immagina un futuro incerto, con quel che resta dell’umanità in viaggio su un’astronave per mete sconosciute. Un linguaggio efficacemente simbolico e una narrazione ben strutturata rendono il messaggio degli artisti tedeschi di grande impatto. Se c’è un padiglione che affronta con intelligenza e senza mediazioni gli aspetti deteriori del colonialismo e del suo sistema economico è certamente quello della Serbia, dove l’artista Aleksandar Denić con il progetto “Exposition Coloniale” costruisce un palcoscenico esperienziale che racconta le illusioni consumistiche.
Forse una delle proposte che nel complesso è risultata più sofisticata e raffinata è quella fornita dal padiglione della Spagna. Qui L’artista peruviana-spagnola Sandra Gamarra Heshiki ha condotto un’ampia ricerca che impiega le tecniche artistiche tradizionali (pittura a olio, doratura, disegno scientifico-botanico) e i modelli tassonomici della cultura europea per decostruire e reinterpretare la storia di quella cultura, facendo emergere, sotto i pigmenti, coloro che ne sono stati lesi (figg.3-4).
Tra i 331 artisti rappresentati in mostra se ne citano solo alcuni: Louis Fratino, pittore di New York, nei suoi dipinti ha catturato attimi di intimità e di vita quotidiana esplorando l’universo relazionale LGBTQ+ (fig.5).
Nedda Guidi, scultrice ceramista di Gubbio, con le sue produzioni astratte e rarefatte, dai colori pastello quasi morandiani, ha sottolineato problemi sociali molto concreti come il patriarcato (fig.6).
Omar Mismar, artista libanese, realizza quadri con la tecnica del mosaico tagliato per raccontare brani di storia recente, come il salvataggio di antichi mosaici in Siria (fig.7).
Non si può dar conto pienamente dell’incredibile varietà, qualità e grandezza dell’Esposizione Internazionale d’Arte che va vissuta in prima persona, non si coglierebbero altrimenti l’aspetto sensoriale della fruizione (su cui si punta molto) e il piacevole contrasto tra i vertici dell’Arte Contemporanea e l’antico tessuto urbano di Venezia.
Gabriele PANDOLFELLI Venezia 24 Novembre 2024