Borgianni e non solo; una esposizione che mantiene più di quanto non promette.

di Sergio ROSSI

Borgianni dalla Spagna a Roma

La mostra Orazio Borgianni. Un genio inquieto nella Roma di Caravaggio (Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini Roma (prorogata fino al 1° novembre 2020) e il relativo Catalogo (Skira Milano 2020) entrambi a cura di Gianni Papi, sono un raro esempio di eventi che mantengono più di quanto non promettono nel titolo stesso della manifestazione.

In questo caso, infatti, non si tratta solo di una pur preziosa (la prima) ricostruzione dell’intera attività artistica romana di uno dei più grandi e forse sottovalutati artisti italiani di inizio Seicento, ma costituisce anche un’importante rassegna della pittura prodotta non solo a Roma ma anche nel resto d’Italia nel medesimo periodo e questo grazie ad una serie di confronti sempre precisi e stimolanti con Maestri del calibro di Carlo Saraceni, Giovan Francesco Guerrieri, Giovanni Serodine, Simon Vouet, tanto per fare dei nomi.

Come è noto Borgianni è tornato nell’Urbe, dove era nato nel 1574, tra il 1605 e l’anno successivo, dopo un soggiorno di poco meno di un decennio in una Spagna ancora dominata dall’Inquisizione e dall’impronta di Filippo II, il sovrano che praticamente all’Escorial dormiva sulla sua tomba; si tratta dello stesso Filippo immortalato nel Don Carlos di Verdi in una delle più struggenti arie di tutta la nostra opera lirica Ella giammai m’amò che recita:

«Dormirò sol nel manto mio regal/quando la mia giornata è giunta a sera/ dormirò sol sotto la volta nera/là nell’avello dell’Escorial».

E sempre all’Escorial Borgianni aveva potuto ammirare varie opere di Luca Cambiaso, Michel Coxcie, Juan Fernández de Navarrete, oltre naturalmente ad El Greco, la cui fondamentale importanza per il nostro non è stata finora adeguatamente considerata dalla storiografia artistica.

Ma l’influenza spagnola non può essere ridotta ad un dato puramente stilistico o formale e solo chi ha assistito anche in tempi moderni alle lugubri ma insieme mistiche e sensuali processioni della “Semana Santa” di Granada o Siviglia, alle feroci e insieme gioiose “Fiestas de toros” non solo a Toledo o Pamplona ma anche in una cittadina sperduta come Benavente, può farsi un’idea di come la Spagna non sia solo un dato geografico ma anche una condizione esistenziale, un’impronta dell’anima, e se lo è oggi figuriamoci ai tempi di Borgianni che, per quanto italianissimo, senza questa “impronta” non può essere assolutamente compreso.

E qui si salda un altro ragionamento riguardante il suo cromatismo torbido e crepuscolare che poco ha a che spartire col luminismo “filosofico” del Caravaggio e del resto definire “caravaggeschi” Borgianni o Gentileschi ha lo stesso valore scientifico che avrebbe definire il Merisi “borgiannista” o “gentileschiano”; con questo non si vuole certo negare che i due Orazi abbiano ad un certo punto del loro iter incrociato il messaggio caravaggesco e ne siano stati profondamente, ma solo temporaneamente, influenzati. Al pittore lombardo il Borgianni, come del resto la maggior parte degli artisti di quel periodo, somiglia invece molto nella sua rissosità fino alla violenza, nel suo maneggiare la spada tanto frequentemente quanto il pennello, nella sua continua e per certi versi autolesionistica aspirazione ad essere un “uomo libero”, come ben sottolineano Papi e Yuri Primarosa nel Catalogo della mostra.

Come è noto a riprova di ciò vi è la testimonianza di Giovanni Baglione che, come ricorda Papi, nel 1606 «aveva denunciato Orazio Borgianni e Carlo Saraceni per essere i mandanti di un sicario (Carlo detto il Bodello, di cui niente più conosciamo) che, intorno alla fine di ottobre lo aveva aggredito con la spada e ferito, sui gradini di Trinità dei Monti…

e questo l’hanno fatto loro, perché erano et sono miei malevoli et aderenti al Caravaggio quale è mio inimico».

Secondo un’ipotesi dello Spezzaferro, a dire il vero del tutto infondata, tali contrasti avrebbero avuto come sfondo presunti contrasti e lotte intestine per determinare nuovi equilibri di potere all’interno dell’Accademia di S. Luca.

A smentire queste “elucubrazioni” vi sono però molti altri dati di fatto; innanzi tutto, come nota sempre Papi,

«come spiegare che il Borgianni tra il 1606 ed il 1607 svolgesse la carica di revisore dei conti all’interno dell’istituzione e che nel novembre 1607 fosse addirittura primo rettore?»;

in secondo luogo mai contrasti di questo genere sarebbero potuti sfociare niente di meno che in un omicidio; ma soprattutto inimicizie spietate e lotte di fazioni erano all’ordine del giorno nell’Accademia e mutavano all’improvviso nel volgere di pochissimo tempo se è vero, come è vero, che perfino due acerrimi nemici come Federico Zuccari e Scipione Pulzone già nell’ottobre del 1594 o forse nell’anno successivo avevano poi partecipato l’uno accanto all’altro alla “Cerimonia delle 24 Ore” in onore di S. Luca tanto cara a Clemente VIII, determinando improvvisi e impensabili mutamenti di potere all’interno dell’istituzione.[1]

Orazio Borgianni, Democrito, Olio su tela, cm 71 × 54,
Firenze, Musei del Bargello – Museo di Casa Martelli,
inv. 169-168

Particolarmente illuminanti per comprendere appieno la personalità estrosa del nostro pittore sono i tre autoritratti presenti in mostra: quello nelle vesti di Democrito, quello conservato a Palazzo Barberini e quello dell’Accademia di S. Luca. Ma sulla loro cronologia concordo pienamente con Marco Gallo, che ritiene, contrariamente al Papi che in quest’ultimo «in effetti il Borgianni sembra più giovane rispetto a come appare nell’Autoritratto ora nella Galleria Nazionale di Palazzo Barberini a Roma; quest’ultimo è da riferirsi al 1614 ca., per l’identica età mostrata dal pittore nel ritratto disegnato da Ottavio Leoni, che reca appunto la data 1614.

Orazio Borgianni, Autoritratto, Olio su tela, cm 63 × 47, Roma, Accademia Nazionale di San Luca, inv. 558

Nell’ Autoritratto accademico la chioma, benché rada è più folta che in quella di Palazzo Barberini; capelli e barba sono più lunghi, mentre elemento comune è la pelliccia indossata entrambe le volte. Ciò che ha tratto in inganno la critica è sicuramente la fronte increspata di rughe che il pittore ostenta in S. Luca, ma bisogna considerare che qui Borgianni non sta dichiarando una patologia che lo affligge, bensì un carattere, o meglio un “humore” di tipo tutto particolare»[2]; si tratta appunto di quello “melanconico” o “saturnino”, di quell’eroico furore considerato da tanti artisti del tempo come loro precipua nota caratteriale: e del resto il nostro si era già autoritratto come un Democrito humorista ghignante sulle vanità del mondo nel dipinto ora in casa Martelli a Firenze.

Venendo ad una rapida analisi di alcuni capolavori presenti in mostra, come non iniziare dallo splendido lacerto della Visione di S. Francesco di Sezze,

Orazio Borgianni, Visione di san Francesco (o La Vergine che consegna il Bambino a san Francesco), Olio su tela, cm 170 × 130 Sezze (Latina), Antiquarium Comunale
Ministero dell’Interno – Fondo Edifici di Culto

su cui la critica, come al solito si è accapigliata nella capziosa ricerca di fonti e referenti, da Correggio a Caravaggio (ma ancora una volta perché tacere di El Greco) piuttosto che concentrarsi sulle straordinarie novità del dipinto dato che, come sottolinea Papi

«quello che è più importante sottolineare è che tutti questi temi e radici culturali si fondono in un linguaggio che non trova paralleli sulla scena romana contemporanea, creando un evento iconografico e stilistico che sbalordisce».

E così nel Cristo fra i dottori ora ad Amsterdam io trovo poco di Caravaggio o dei veneti ma molto, se non tutto, di Borgianni.

Orazio Borgianni, Cristo tra i Dottori, Olio su tela, cm 78,1 × 108, Amsterdam, Rijksmuseum, prestito da

 

Orazio Borgianni, Scara Famiglia, santa Elisabetta, San Giovannino e un angelo, Olio su tela, cm 257 × 202
Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica –
Palazzo Barberini, inv. 5005

Mentre è innegabile che il Merisi sia un referente d’obbligo per il quadro forse più famoso di Orazio, quella Sacra famiglia di Palazzo Barberini nella cui cesta in primo piano giustamente Roberto Longhi ravvisava “la più bella natura morta del 600 italiano e una delle più belle del 600 europeo. Si tratta però a mio avviso di un caravaggismo più di apparenza che di sostanza: innanzi tutto i contrasti luministici derivano piuttosto da Tintoretto o dall’ultimo Tiziano, con quell’uso sfrangiato della pennellata e con la luce che proviene piuttosto dal basso e da una fonte del tutto artificiale ed estranea alla tela con modalità assolutamente estranee a quelle del Merisi. In secondo luogo il richiamo “pauperistico” della scena è mitigato dalla ricchezza degli abiti dei protagonisti, tutt’altro che derelitti; e infine gli splendidi rosa, avana, ocra assemblati con trapassi graduali e controllati rimandano piuttosto a Gentileschi.

Orazio Borgianni, Natività della Vergine, Olio su tela, cm 250 × 150 Savona, Santuario di Nostra Signora della Misericordia, Azienda Pubblica Opere
Sociali di N.S. di Misericordia

 

Un discorso più o meno analogo si può fare per la Natività della Vergine di Savona. Qui abbiamo, a parte il vecchio Gioacchino sulla destra, tutto un pullulare di giovani donne (e un solo uomo al centro) che si affannano a procurare panni freschi e bacili di acqua ad una S. Anna non anziana ma decrepita, che pare più in procinto di morire che non aver appena partorito e che è posta nel fondo di una stanza resa con una prospettiva ad imbuto che mai Caravaggio (citato invece alla lettera nella splendida tenda rossa in alto a sinistra) avrebbe concepito.

 Si tratta in definitiva di una scena più lugubre che gioiosa, che rimanda ancora una volta alle atmosfere macabre della religiosità spagnola contemporanea, quasi un memento mori associato alla nascita della Vergine sul cui significato profondo la critica borgianniana farebbe bene a riflettere. Forse tutti prevedono già il destino di morte e resurrezione cui Maria è in qualche modo votata? Vi sono precedenti iconografici o teologici che lo possono confermare? I dipinti non sono solo colori, date, influenze, ma anche contenuti, messaggi, trasmissione di valori e su quest’ultimo versante la storiografia sul nostro pittore mi sembra che abbia ancora molto da dire.

Altro capolavoro poco noto e che il curatore della mostra ha fatto molto bene a valorizzare è il San Carlo Borromeo tra gli appestati, già in Sant’Adriano in Campo Vaccino ed ora presso la casa generalizia dell’ordine Mercedario a Roma, presentata per la prima volta al grande pubblico nel 1998 nella mostra Scienza e miracoli da me ideata e diretta.[3]

Orazio Borgianni, San Carlo Borromeo visita gli appestati, Olio su tela, cm 300 × 141 Roma, Curia Generalizia dell’Ordine della Mercede

Commissionata da Francisco Ruiz de Castro, ambasciatore del Regno di Spagna a Roma e databile tra il 1614 ed 1616, si tratta di una sorta di geniale pastiche, se leviamo a questo termine ogni connotazione negativa, con una Milano dove ovviamente operava San Carlo che in realtà è una Roma umbratile e dai toni tra il bruno e il rosato con ben in evidenza Castel Sant’Angelo, nel fondo, e la chiesa di sant’Adriano ed alcune generiche rovine antiche più in primo piano.

San Carlo, con la sua inconfondibile immagine allampanata e dal grande naso adunco, reca in braccio un neonato appena sottratto da un cumulo di appestati e affidato ad un giovane pastore caratterizzato dalle due capre al fianco e che allude al Signore, Pastore per eccellenza; le capre erano del resto usate nei lazzaretti per l’allattamento agli orfani, come si evince dal trattatello De Pestilentia che Federico Borromeo scrisse nel 1630 e capre che allattano gli orfani si vedono anche nel San Carlo Borromeo che intercede per gli appestati di Marcantonio Franceschini in San Carlo a Modena e nel San Carlo Borromeo che battezza un bimbo appestato di Ludovico Carracci nell’abbazia di Nonantola e di un analogo dipinto del Cavedone nella Parrocchiale di Appiano Gentile.

Assai sapiente è comunque l’equilibrio che il Borgianni riesce a mantenere tra i toni drammatici delle scene di pestilenza e quelli fideistici e rassicuranti dell’intervento consolatorio del santo, con un trapasso cromatico graduale fino al rosso squillante della veste di Carlo, che incendia mirabilmente la parte centrale della scena.

Ho lasciato per ultimo quello che io considero il sommo dei capolavori, I martiri cristiani della Biblioteca Ambrosiana di Milano, un drammatico roteare di figure rese con toni notturni e apocalittici che si attorcigliano intorno ad una meravigliosa e allucinata esplosione di giallo e arancione che incendia letteralmente la scena.

Orazio Borgianni, I martiri cristiani, Olio su tela, cm 177 × 132 Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Pinacoteca, inv. 215

E l’ho fatto perché voglio prima citare l’ottimo saggio in Catalogo di Daniela Brogi Davanti a un “povero cristo” morto. Borgianni tra Longhi e Pasolini, dedicato a quello che considero (insieme a La ricotta) uno dei massimi capolavori della cinematografia europea, Mamma Roma ed alla sua famosissima scena finale del povero ragazzo morente in una spoglia stanza, resa con un bianco nero di particolare forza non solo simbolica ma anche cromatica.

Tutta la critica ha naturalmente pensato al Cristo morto del Mantegna, facendo indignare Pasolini stesso:

«Ah Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore è disteso sul letto di contenzione richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima di Mantegna? O che si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?».

Quella appunto che opera Borgianni nei suoi strepitosi Cristi morti.

Ma cosa c’entra tutto questo con I martiri Cristiani dell’Abrosiana?

C’entra perché questo dipinto mi ricorda un altro capolavoro cinematografico, certo lontano anni luce da Pasolini e cioè il Mississipi Burning di Alan parker 1988, con un immenso Gene Hackman.

Si tratta di uno dei più potenti film antirazzisti girati negli Stati Uniti e le cui atmosfere lugubri degli incappucciati del Ku Klux Klan mi hanno riportato alla memoria le processioni della Semana Santa e la caccia ai negri da parte dei razzisti mississipiani la caccia alle streghe e agli eretici della Spagna della Controriforma. Ebbene, anche se suppongo che Alan Parker o il direttore della fotografia Peter Biziou, che con questo film ha vinto un Oscar, non conoscessero Borgianni (ma ovviamente non posso giurarci) sono proprio certe scene apocalittiche di quel film che il dipinto di Borgianni mi ha riportato alla memoria.  

Sergio ROSSI   Roma 28 giugno 2020

NOTE

[1] Al proposito si veda il mio Federico Zuccari e Scipione Pulzone fanno pace, in Scritti e immagini in onore di Corrado Maltese, Roma, Edizioni Quasar, 1997, pp. 315-318.
[2]  M. Gallo, in Scienza e miracoli nell’arte del ‘600, catalogo della mostra a cura di chi scrive, Roma, palazzo Venezia, 30 marzo-30 giugno 1998, (Milano Electa pp. 333-334).
[3] ibidem e si veda l’ampia scheda sempre di M. Gallo, pp. 336-339.