di Francesco PETRUCCI*
Un “trittico romano” alla Biennale di Firenze
La Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze (21-29 settembre 2019), efficacemente coordinata dal Segretario Generale Fabrizio Moretti e allestita nella prestigiosa sede di Palazzo Corsini, è giunta alla trentunesima edizione, potendo vantare ben sessant’anni di storia.
Si tratta probabilmente della più importante esposizione antiquariale al mondo dedicata all’arte antica,
dato che anche la famosa fiera di Maastricht è sempre più indirizzata verso il contemporaneo ed altri eventi analoghi appaiano progressivamente in tono minore. Per non parlare di Roma, che sembra essersi completamente eclissata nel settore.
I numerosi espositori italiani e stranieri hanno presentato quest’anno molte opere d’arte di pregevole livello, compresi alcuni capolavori che hanno destato l’interesse di collezionisti e critici d’arte.
Tra questi mi sono sembrati particolarmente rilevanti, anche in ragione del mio ambito di conoscenze, tre pezzi, due sculture e un dipinto: il Busto di Pio V della galleria Walter Padovani, il Busto di Urbano VIII presentato dalla galleria Carlo Orsi e il Ritratto di cardinale, identificato con Giulio Mazzarino, esposto come unica opera dalla Moretti Fine Art.
Il magnifico Busto di Pio V in bronzo della galleria Walter Padovani di Milano (fig. 1, cm. 110 x 65 x 32)
è stato esposto come opera di “scuola romana” attorno al 1570, data la oggettiva difficoltà di individuare una paternità certa, nonostante la notevole qualità della lavorazione e l’estrema rarità della scultura, un vero unicum nella ritrattistica del pontificato Ghislieri (1566-72).
Sono infatti ancora lacunose, nonostante i più recenti avanzamenti, le conoscenze sulla scultura a Roma nella seconda metà del ‘500, soprattutto in ambito ritrattistico, tanto da rendere auspicabili ulteriori approfondimenti da supportare con ricerche documentarie e archivistiche.[1]
Il papa è raffigurato in abito cerimoniale con tiara e piviale, mentre sulla base, recante agli angoli teste di cherubini, è visibile al centro lo stemma Ghislieri sovrastato da triregno e sotto l’iscrizione “PIVS. V P.O.M.”. Ad una certa fissità del volto, la cui fisionomia ascetica fu forse desunta da ritratti dipinti o da una maschera mortuaria, si contrappone l’esecuzione magistrale delle parti figurate e dei decori di gusto manierista.
Sul piviale è presente a sinistra la Madonna annunciata e sulla destra l’Angelo annunciante, in relazione al culto mariano diffuso da Pio V, che introdusse l’Ave Maria come antifona del Breviario Romano per la festa dell’Annunciazione del 1568 e inaugurò il culto della “Madonna del Rosario” dopo la vittoria della lega cristiana alla Battaglia di Lepanto, ottenuta su suo impulso nel 1571.[2]
Dato il carattere schivo di Antonio Ghislieri, che rifiutò in vita monumenti pubblici e qualsiasi sfarzo, indossando persino lo stesso abito durante tutto il pontificato, è plausibile che il ritratto sia stato commissionato per celebrare il successo di Lepanto dopo la sua morte, tra il 1572 e il 1575.
L’immagine ufficiale di Pio V, fissata attraverso ritratti dipinti da Bartolomeo Passerotti, Giulio Clovio e Scipione Pulzone, divulgata in numerose copie e derivazioni, è celebrata in scultura dalla sola statua postuma in marmo di Leonardo Sormani nella cappella Sistina a Santa Maria Maggiore (1588), mentre risale al 1692 (fig. 2), dopo la beatificazione, la statua in bronzo del papa benedicente di Francesco Nuvolone collocata di fronte al Collegio Ghislieri di Pavia. Questo a testimoniare una certa ritrosia del pontefice santo a farsi ritrarre.[3]
Il busto segue la solenne tipologia ufficiale del ritratto papale elaborata da Guglielmo Della Porta (Porlezza 1510 ca. – Roma 1577), a partire dai magnifici busti di Paolo III Farnese (fig. 3, Napoli, Museo di Capodimonte), che lo scultore ritrasse anche nella statua in bronzo del suo monumento funerario nella Basilica Vaticana.[4]
Tradizionalmente è stato riferito all’artista lombardo il notevole ritratto bronzeo di Paolo IV Carafa (1555-59) nella Sagrestia della Basilica Vaticana: un’attribuzione oggi eccezionalmente confermata dal ritrovamento della sua sigla sulla parte retrostante dell’opera, come mi segnala Pietro Zander (fig. 4). Tale iscrizione si è resa ben visibile nel calco dell’opera approntato in occasione della mostra Papi in Posa. 500 years of papal portraiture, che curai a Washington nel 2005.[5]
Miglior allievo del Della Porta fu Sebastiano (Bastiano) Torregiani detto “il Bologna” (Bologna 1542 ca. – Roma 1596), che fu eccellente bronzista e responsabile della Fonderia della Camera Apostolica. Gettò in metallo, tra l’altro, le statue di san Pietro e san Paolo rispettivamente sulle due Colonne Traiana (1587) e Antonina (1589), i quattro angeli del Tabernacolo della cappella Sistina a Santa Maria Maggiore (1590), mentre Baglione ricorda un suo busto in bronzo di Sisto V, a documentare un’attitudine rivolta anche alla ritrattistica. “Bastiano” fu peraltro il vero erede spirituale di Guglielmo Della Porta, essendo stato anche tutore del figlio Teodoro, dato che sposò la moglie del maestro dopo la sua morte nel 1577.[6]
Naturalmente Torregiani era scultore e fonditore, come ben dimostrano i conti per il Tabernacolo della cappella Sistina, dai quali risulta che l’artista sovraintese all’intero processo, eseguendo i modelli in creta per gli angeli e occupandosi delle riduzioni in cera per la fusione. Gli vengono attribuiti alcuni busti in bronzo di Sisto V (Treia, Duomo; Londra, Victoria & Albert Museum; Berlino, Staatliche Museen), mentre gli è stato riferito il busto in bronzo di Gregorio XIII di Berlino, Staatliche Museen, talora ascritto anche a Taddeo Landini (figg. 5, 6), e un piccolo busto in bronzo di Gregorio XIV transitato sul mercato antiquario.[7]
Taddeo Landini (Firenze 1550 ca. – Roma 1596), documentato dal 1575 a Roma, ove secondo Baglione venne durante il pontificato di Gregorio XIII, eseguì tre busti in bronzo di Clemente VIII, di cui è noto quello presso Villa Aldobrandini a Frascati. Altro ritrattista fu Giovan Battista Della Porta (1542-1597), stabilitosi definitivamente a Roma nel 1574, che tuttavia è noto per busti in marmo, tutti abbastanza rigidi ed essenziali.[8]
Sembra quindi che Torregiani possa essere un buon candidato all’esecuzione del ritratto della galleria Padovani, dato l’arrivo successivo a Roma di Landini e Della Porta, e il carattere schematico e rarefatto di Leonardo Sormani, scultore in marmo ed esecutore della ricordata statua del 1588.
Peraltro se confrontiamo l’angelo sul piviale con quelli modellati da Torregiani per il Tabernacolo sistino, si colgono analogie formali e di modellato non trascurabili, che sembrerebbero avvalorare questa proposta attributiva (figg. 7, 8). L’ascesa dello scultore sotto il pontificato di Gregorio XIII (1565-85), successore di Pio V, che protesse artisti di origine bolognese come lui, ne sarebbe una conferma anche per la datazione qui proposta.
Si conserva a Firenze presso la collezione Corsini, ove confluì con provenienza dalla collezione Barberini a seguito del matrimonio celebrato nel 1858 tra Anna Barberini e Tommaso Corsini, il Busto di Urbano VIII del Bernini esposto da Carlo Orsi (fig. 9, bronzo, cm. 101,5 x 78).
L’opera è illustrata da un esauriente catalogo curato da Andrea Bacchi, che ne ripercorre i passaggi sulla scorta di documenti e inventari.[9]
Si tratta di un ritratto postumo, eseguito attorno al 1656-58, di cui esiste un’ulteriore identica versione presso il Museo del Louvre, entrambe commissionate a Bernini dal cardinale Antonio Barberini, la seconda per farne dono a Luigi XIV nelle cui raccolte confluì tuttavia solo nel 1672. A due fusioni della “testa della Serenissima Memoria di Urbano” fanno riferimento in effetti due lettere del cardinale a Bernini, rispettivamente l’11 novembre 1655 e il 10 marzo 1656, mentre risale al luglio 1658 un pagamento ordinato dall’artista all’ebanista Giacomo Erman per la base di uno dei due bronzi. Il modello, come ritiene Bacchi, potrebbe essere uno dei due busti in terracotta raffiguranti il papa presenti nell’inventario ereditario del Bernini. [10]
Una terza versione in bronzo, che sembrerebbe priva dell’ape sotto la stola e sicuramente con un diverso peduccio fuso con il busto, più levigata e diversificata nel trattamento della superficie, si trova a Blenheim Palace, collezione Duke of Marlborough (fig. 10), ed è forse derivata indirettamente dallo stesso bronzo Corsini.[11]
Il ritratto si colloca al tempo del busto in marmo di Alessandro VII (luglio-settembre 1657), che inaugura una nuova fase della ritrattistica papale berniniana, caratterizzata da ampie pieghe della mozzetta, allusive al moto delle braccia, con una sua maggiore estensione in proporzione alla testa.[12]
Riferimento per il volto in questi ritratti postumi del papa è la testa in bronzo del busto con mozzetta in porfido, databile al 1630-31, ancora presso gli eredi Barberini (fig. 11), molto simile anche nella modellazione delle pieghe della barba e nel camauro, più piccolo rispetto a quello del bronzo già nella biblioteca di palazzo Barberini (fig. 12,Biblioteca Apostolica Vaticana, 1632-33).[13]
A tale fase estrema appartiene anche il simile busto in marmo di Palazzo Barberini, Galleria Nazionale d’Arte Antica, stretto parente dei bronzi Corsini e del Louvre, da cui si differenzia per l’espansione verticale della mozzetta e varianti in molti dettagli (fig. 13).
Riferito alla bottega con una datazione agli anni ’40 da Rudolf Wittkower, Valentino Martinelli, Oreste Ferrari e Sebastian Schütze, è ritenuto autografo da Andrea Bacchi con datazione al 1632 circa, mentre Tomaso Montanari, che lo conferma prodotto di atelier, propone una datazione attorno al 1655-56, in relazione all’esecuzione dei due bronzi citati.[14]
Concordo su questa datazione tarda del marmo, incompatibile con i ritratti degli inizi degli anni ’30 per il movimento artificioso del panneggio, segnato da larghe pieghe taglienti e tortuose, volgendo verso una tendenza spiccatamente antinaturalistica tipica degli esiti più avanzati della scultura tardo-barocca romana. Sembra plausibile una partecipazione della bottega, soprattutto nel viso, più schematico, chiaramente postumo anche per l’assenza dell’iride, mentre il carattere innovativo della veste presuppone comunque una partecipazione del maestro.
Osserviamo a riguardo che negli inventari del cardinale Francesco Barberini dal 1623 al 1636 circa era presente un solo busto in marmo del papa, probabilmente coincidente con quello giovanile del Bernini ancora in casa Barberini, stupefacente per l’inusitato carattere privato, quasi domestico, con la rappresentazione del papa sorridente (fig. 14), mentre a partire dall’inventario del 1649 ne compaiono tre.[15]
Al busto marmoreo giovanile e non a quello postumo si riferisce a mio avviso anche Filippo Baldinucci, che elenca tra i “ritratti teste con busto” del Bernini, oltre a “Due di Papa Urbano VIII” (corrispondenti probabilmente come dice Bacchi alle simili versioni della Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini e Ottawa, National Gallery of Canada, 1632 ca.), anche “Altro del medesimo”. Il biografo ne aggiunge poi un “Altro di metallo”, riferito molto probabilmente non al bronzo Corsini ma a quello della biblioteca.[16]
Il presunto Ritratto del cardinal Mazzarino della Moretti Fine Art (fig. 15, olio su tela, cm. 126 x 102) è illustrato da un bel catalogo a cura di Tomaso Montanari, che propone un’attribuzione a Pietro Berrettini detto Pietro da Cortona (Cortona 1596 – Roma 1669).[17]
Concordo naturalmente sia con l’attribuzione, che con l’analisi stilistica brillantemente motivata dallo studioso, cui ne discende la datazione dell’opera alla metà circa degli anni ’40 del XVII secolo.
Posso tuttavia precisare che il dipinto non è inedito, essendo stato pubblicato due volte dal sottoscritto con riferimento a Pietro da Cortona sin dal 2015, nel saggio introduttivo alla mostra Ritratto e Figura, tenuta nel Palazzo Castromediano di Cavallino e poi, con varianti, a Palazzo Chigi in Ariccia.[18]
Il ritratto mi era stato segnalato nel dicembre 2012 chiedendomi un parere su un’ipotetica quanto insostenibile attribuzione a Giovan Battista Gaulli, in base ad una fotografia prima del restauro (fig. 16),
ma non conoscevo i proprietari e non avevo avuto modo di visionare la tela dal vivo. Tuttavia l’attribuzione a Cortona mi sembrò subito evidente, come comunicai a chi me lo aveva segnalato, e ne ho potuto avere conferma diretta in occasione della Biennale.
Il dipinto, proveniente dalla collezione Lazzaroni a Torino ove fu notificato nel 1982 per opera di Ilario Giacinto Mercanti detto “Lo Spolverino”, come si apprende dal catalogo Moretti, si presenta oggi pulito, in ottimo stato conservativo. Sontuoso nella materia pittorica incandescente e sfusa, freschissimo nella pittura di puro tocco, promana una forza luministica e una potenza espressiva superiore rispetto ai pochi altri ritratti noti del sommo pittore.
Il catalogo di Cortona ritrattista è estremamente rarefatto, limitato infatti ai ritratti di Marcello Sacchetti (Roma, Villa Borghese), del cardinale Giulio Sacchetti (già Roma, Palazzo Sacchetti, ora Villa Borghese), di Urbano VIII (Roma, Pinacoteca Capitolina), del cardinale Pietro Maria Borghese (Minneapolis, Institute of Art), del gentiluomo di casa Sacchetti (Roma, Pinacoteca Capitolina), oltre ai due autoritratti di diversa età (Ajaccio, Musée Fesch; Firenze, Uffizi). Da questo l’eccezionalità del ritratto della Moretti Fine Art, costituente una fondamentale aggiunta alla ritrattistica barocca.[19]
Mi sembra invece più problematica l’identificazione del cardinale ritrattato, in merito alla quale mi ero astenuto non trovando riscontri persuasivi al confronto con le numerose effigi di cardinali noti. Se è infatti corretto, come ritiene Montanari, che i cardinali francesi portavano in quegli anni un colletto largo simile a quello indossato dal nostro cardinale, è pur vero che anche altri cardinali stranieri lo recavano, ma è possibile riscontrarlo anche in qualche cardinale italiano.[20]
L’identificazione con Giulio Mazzarino proposta dallo studioso, con una datazione attorno al 1644, non mi sembra corrisponda ai numerosi ritratti noti del cardinale, dal viso magro e allungato, la fronte stempiata, mentre il nostro è paffuto, con il viso largo, ampie borse agli occhi e una folta capigliatura che emerge anche dallo zucchetto. La corporatura è robusta e le mani grassocce, a differenza di Mazzarino, di cui ci viene restituita dalla ritrattistica coeva un’immagine esile e slanciata.
Un punto fermo per testimoniare la reale fisionomia di Mazzarino sono i ritratti eseguiti da Philippe da Champaigne, uno dei massimi specialisti del secolo, di cui si servì anche il cardinale Richelieu per farsi fare un busto dal Bernini, commissionandogli il famoso triplice ritratto per la sua acclarata attitudine di eccellente fisionomista. Il primo ritratto del cardinale di Philippe da Campaigne, datato 1647 e noto attraverso un’incisione, mostra un volto diverso rispetto all’uomo qui ritratto, come pure quello datato 1653 della Walpole Gallery (fig. 16) da cui deriva la posa ufficiale del Musée Condé di Chantilly.[21]
D’altronde un ritratto di mano di un artista così importante come Cortona, richiesto invano in Francia dal potente prelato, sarebbe documentato nei suoi inventari. Ma l’aspetto che meno convince è che sin dalla nomina cardinalizia Mazzarino, eletto nel dicembre 1641, non tornò più a Roma, non avendo avuto quindi la possibilità di posare per Cortona, mentre il presente ritratto ha la vivacità di un ritratto dal vero.
Non ritengo infatti possibile che “Pietro dovette andare a memoria, appoggiandosi ad altri quadri e ai suoi ricordi personali di quell’uomo indimenticabile”, per eseguire questo capolavoro d’introspezione.[22]
Francesco PETRUCCI Roma settembre 2019
*Ringrazio Carlo Orsi e Walter Padovani che mi hanno messo a disposizione immediatamente e con tempestività le fotografie delle opere da loro presentate.
NOTE