“Caravaggio 1571 – 2021”. Novità e precisazioni nell’ultimo volume di Rossella Vodret. Con una nota di Claudio Falcucci

P d L

Caravaggio. 1571 – 2021. L’ultima fatica di Rossella Vodret nasce in occasione del 450° anniversario della nascita del grande artista. Conosciuta come tra i più esperti e competenti studiosi della vita e dell’opera di Caravaggio, Rossella Vodret – della cui attività istituzionale e pubblicistica non si può dar conto in questa sede – è stata tra coloro che hanno contribuito ad introdurre nello studio delle opere del pittore le tecniche diagnostiche e i rilievi scientifici che hanno indubitabilmente allargato l’area delle conoscenze, oltre ad aver dato luogo a precisazioni e novità anche dal punto di vista attributivo, con  acquisizioni ormai definitive sulla maniera pittorica del genio milanese. Il libro, uscito da poco per i tipi della Silvana editoriale,  presenta numerose novità e nuove argomentazioni specie su alcuni misteriosi “quesiti caravaggeschi” che certamente faranno discutere gli studiosi e i numerosissimi appassionati del Pictor Praestantissimus. Abbiamo intervistata l’autrice in occasione della presentazione a Roma il 13 dicembre alla Sala Pietro da Cortona dei Musei Capitolini.

La prima domanda che vorrei porre a te che da molto tempo hai messo proprio la figura e l’opera di Caravaggio al centro delle tue ricerche e delle tue attività, con pubblicazioni, mostre, convegni, è proprio perché a questo punto hai deciso di intervenire con un altro volume; qual è lo scopo di questa nuova pubblicazione?

R: Prima di rispondere direttamente alla tua domanda vorrei parlare della struttura del libro pubblicato da Silvana Editoriale. Dopo una breve introduzione dedicata ai grandi problemi aperti sulla figura e l’opera di Caravaggio, il volume è diviso sostanzialmente in due parti. Nella prima c’è un saggio iniziale dedicato prevalentemente alle drammatiche vicende della sua vita – essenziali per la piena comprensione della sua complessa personalità e del suo fascino – seguito da tre appendici di approfondimento dedicate rispettivamente ai suoi amori, alla cerchia dei committenti e alla sua prassi esecutiva, a cui si aggiunge una quarta, scritta da Claudio Falcucci, sugli approcci e i metodi scientifici dello studio della tecnica esecutiva, una metodologia che è oggi una delle componenti  essenziali per la lettura dei suoi capolavori.

La seconda parte è costituita invece dalle schede delle settantadue opere di Caravaggio finora considerate autografe dalla critica, alle quali sono allegate una serie di tavole con le opere di confronto citate. I capolavori del grande genio lombardo sono qui analizzati, per la prima volta su larga scala, non solo dal punto di vista storico-artistico, ma anche da quello tecnico-esecutivo. Ogni scheda è infatti affiancata da specifiche note tecnico-diagnostiche che completano e integrano la lettura dei formidabili dipinti di Caravaggio. Essenziale è stato, sotto questo aspetto, il contributo di Claudio Falcucci che ha elaborato la parte tecnica riuscendo a recuperare materiale diagnostico di grande importanza disperso un po’ ovunque.

Si tratta quindi di una vera e propria monografia nella quale, per rispondere alla tua domanda, ho voluto riunire insieme tutto quello che è emerso dagli studi – dopo le monografie di Mia Cinotti e Maurizio Marini – dalle ultime basilari ricerche documentarie sulla vita e sulle opere di Caravaggio dopo il 2010, anno del quarto centenario della sua morte, in occasione del quale sono state pubblicati una serie di fondamentali contributi da parte di importanti studiosi tra i quali vorrei ricordare quelli di Sebastian Schütze, Francesca Cappelletti, Sybille Eber Schifferer.  Si tratta sia di importanti acquisizioni di carattere storico-artistico, sia di tutti i risultati tecnico-diagnostici esistenti fino ad oggi che erano dispersi in tante pubblicazioni, mille rivoli diversi e spesso poco accessibili. Un aiuto fondamentale per questa ricerca è venuto da Flavia Scarperia che ha curato la sterminata bibliografia. In sintesi, ho voluto riportare, per la prima volta, in un unico libro, le informazioni essenziali di base per gli studi futuri e la piena comprensione del “fenomeno Caravaggio”. L’occasione sono stati i due lockdown cui ci ha costretto il Covid 19 nel 2020 e 2021: ho potuto progettare e mettere a frutto nei molti mesi di chiusura e di riduzione delle attività pubbliche il materiale a mia disposizione, edito e inedito, per realizzare un libro nuovo.

-Possiamo dire che tu sei la studiosa che forse più di altri ha dato un contributo alla valorizzazione prima e all’estensione poi delle indagini diagnostiche sui dipinti del Caravaggio anche a rischio di varie critiche?

R: Non sono sola, vorrei ricordare che prima di me ci sono stati vari studiosi, tra i quali vorrei ricordare almeno Mina Gregori e Keith Christiansen, che per me sono stati esempi fondamentali ai quali costantemente mi ispiro.  In ogni caso consentimi di sottolineare, ancora una volta, che ho sempre avuto come bussola la considerazione che l’indagine scientifica, che ci fornisce dati nascosti, non visibili ad occhio nudo, è solo un supporto, alle volte molto importante, allo studio e al lavoro dello storico, alla sua analisi critica sia visiva che documentaria, che è la base essenziale per lo studio di un’opera d’arte.

E’ vero, ma altrettanto vero però è che determinati quesiti ‘caravaggeschi’ per entrare subito in argomento nonostante tutto resistono anche alle prove scientifiche più aggiornate; ad esempio non possiamo ancora sciogliere il dubbio sulla possibilità o meno che Caravaggio copiasse i suoi quadri, o che li replicasse, insomma sui ‘doppi’ che conosciamo e intorno ai quali il dibattito è ancora aperto.

R: Chiaramente alcuni problemi possono essere risolti con l’aiuto delle analisi diagnostiche, altri invece no. Anche se dobbiamo riconoscere che per risolvere le questioni di alcuni “doppi” i risultati delle analisi sono stati importanti…

-Ad esempio a tutt’oggi si discute del Ragazzo morso dal ramarro, dei San Francesco in meditazione, della Cattura di Cristo e così via.

R: Per quanto riguarda i due San Francesco in meditazione – uno proveniente da San Pietro a Carpineto romano e oggi in deposito a Palazzo Barberini e l’altro conservato nel Museo dei Cappuccini presso la chiesa romana di Santa Maria della Concezione – penso che il problema sia stato risolto con il restauro e le analisi tecniche effettuate nel 2000, che hanno interessato contemporaneamente entrambe le tele. I risultati emersi in quella occasione sia dal punto di vista stilistico, sia da quello diagnostico ci dicono chiaramente che l’originale è il San Francesco oggi nella Galleria Barberini.  Certo, la versione dei Cappuccini non è meno bello, anzi è più “piacevole” e meno dura dell’originale, tant’è vero che inizialmente ne ero rimasta colpita. Quando misi a confronto le due versioni a Palazzo Barberini nel 1999, come molti, rimasi interdetta di fronte alla bellezza del dipinto dei Cappuccini e pensavo che fosse l’originale, ma poi davanti a tanti riscontri a cominciare dalla indiscutibile forza stilistica emersa nel corso del restauro nella tela di Carpineto e dalla presenza di importanti modifiche compositive apportate in corso d’opera, presenti solo in questa versione, mi sono del tutto convinta – come del resto gran parte degli studiosi – che la mano del Merisi sia nel dipinto Barberini.

San Francesco in meditazione (sx palazzo Barberini; dx Santa Maria della Concezione)

-Tu sostieni che la versione dei Cappuccini sia stata redatta da Bartolomeo Manfredi?

R: E’ a mio avviso una ipotesi possibile, come ho scritto più volte, anche riflettendo sulle parole di Giulio Mancini che parla di come Manfredi addolcisse e rendesse più piacevoli le opere di Caravaggio, che traduceva, secondo il biografo, “con più fine, unione e dolcezza”. Caratteristiche che si adattano perfettamente la tela dei cappuccini rispetto alla più dura, ma anche senz’altro più intensa, tela di Carpineto.

Quanto al Ragazzo morso dal ramarro credo invece che siano originali entrambe le versioni conosciute, cioè tanto quella della Fondazione Longhi, più forte, vigorosa e intensa nei contrasti luministici, che a mio avviso fu la prima ad essere realizzata, quanto la versione di Londra più raffinata e caratterizzata da morbidi trapassi chiaroscurali. In questo caso, come ho scritto per la prima volta in questo libro, l’analisi tecnica è stata molto importante.  La versione Longhi presenta infatti una serie di importanti modifiche della impostazione compositiva iniziale, apportate dall’autore in corso d’opera, che ne dimostrano l’originalità e la qualificano come prima versione. Mi riferisco in particolare alla modifica della posizione della mano destra del ragazzo prevista in un primo momento molto più vicino al viso, quelle relative alla veste e alla camicia che è stata interessata anche da una vistosa variazione dell’impianto chiaroscurale.  Si tratta appunto di pentimenti d’autore, cioè di modifiche apportate alla impostazione iniziale che, di norma, si trovano solo nelle opere originali e non nelle derivazioni o nelle copie, che ripetono, di solito, un modello preesistente, e nelle quali si trovano, tutt’al più, correzioni di piccoli dettagli. Priva di qualsiasi cambiamento è invece la tela di Londra, che è evidentemente successiva, e ripropone un modello già sperimentato in precedenza.

Ragazzo morso dal ramarro (National Gallery Londra sx; fondazione Longhi, dx)

Tra gli enigmi caravaggeschi irrisolti è quello delle “teste” due o tre al giorno che l’artista arrivato a Roma avrebbe dipinto nella bottega di Lorenzo Carli, la prima che frequentò; leggo che secondo te alcune di esse è possibile che siano ancora sparse per Roma.

R: E’ plausibile, ma non sono solo le sue prime “teste” romane a non essere ancora state trovate. Anche a Milano, in Lombardia e nell’Italia del Nord potrebbero ancora esistere, chissà dove, alcuni dei ritratti che, secondo Bellori, Caravaggio realizzò nel suo primo periodo milanese. Non ne conosciamo neppure uno… Occorre tener presente, a questo proposito, che Michelangelo uscì dalla bottega di Simone Peterzano, nel 1588 stando alle carte che abbiamo, come pittore completamente formato ed in grado di lavorare in modo autonomo.  E’ davvero strano che non abbia dipinto assolutamente nulla nei quattro anni successivi, tra il 1588 al 1592, ultimo anno in cui è documentato in Lombardia. Possibile? Secondo me no. Anche ipotizzando che sia stato un anno in carcere per un ancora misterioso primo omicidio commesso a Milano, penso che primi lavori probabilmente esistano, ma non sono stati ancora riconosciuti.

Così come nulla sappiamo di tutte le prime opere romane.  Non solo le molte teste di santi che ricordavi, citate da Celio (1614) e da Bellori nelle note a Baglione (1642), ma anche le copie di devozione per monsignor Pucci, che le inviò nella sua Recanati, i quadri per il messinese Luciano Bianchi, priore dell’Ospedale della Consolazione dove fu ricoverato, e da questi inviati nella sua terra di origine in Sicilia. Dove sono tutte queste opere?  Nessuna di loro è stata ancora identificata.

So che alcuni giovani studiosi isolani stanno collaborando con la tua rivista, è proprio da loro che potrebbero arrivare novità, definendo committenze, passaggi di proprietà e così via che diano certezza, perché le sole citazioni in qualche inventario magari di svariati anni successivi alla scomparsa dell’artista non possono bastare.

A tuo parere con il Suonatore di Liuto siamo di fronte al classico ‘caso’ dei doppi; ti chiedo se, a tuo parere ce ne sono due o solo quello dell’Ermitage.

R: Il Suonatore di liuto è ancora oggi un problema complesso su cui sto riflettendo da tempo.  In estrema sintesi: Gaspare Celio cita un “putto che sonava il leuto” dipinto da Caravaggio in casa di Prospero Orsi (1597), identificato da Riccardo Gandolfi con il quadro all’Ermitage di San Pietroburgo. Altre fonti biografiche (Baglione e Bellori) e documenti (gli inventari Giustiniani e Barberini) citano due versioni del Suonatore di liuto: una di Vincenzo Giustiniani, oggi all’Ermitage, e l’altra del cardinal Del Monte, passato poi nel 1628, dopo la sua morte, ai Barberini e, in teoria, nel 1968, a George Wildenstein. Quest’ultimo è stato esposto al Metropolitan di NY fino al 2013.

Il Suonatore di Liuto (Ermitage sx; versione Wildenstein dx)

Il problema è che la descrizione del quadro Del Monte fatta da Baglione (1642) non corrisponde affatto alla versione Barberini, esposta a lungo al MET, ma piuttosto al dipinto Giustiniani con alcune varianti (mancano il riflesso della finestra nel vaso di vetro e la rugiada sui fiori citati dal biografo). Come mai? Baglione si è confuso e ha descritto il quadro Giustiniani invece di quello Del Monte? Sono due dipinti diversi? Può essere che il dipinto Del Monte sia passato dal Cardinale a Vincenzo Giustiniani, quindi il quadro sia uno solo? A complicare ulteriormente la questione c’è il cosiddetto Suonatore di liuto ex Badminton, che riproduce esattamente la versione Del Monte descritta da Baglione (compresi il riflesso della finestra nel vaso di vetro e la rugiada sui fiori che mancano nel dipinto dell’Ermitage), ma che, stilisticamente, non regge l’attribuzione a Caravaggio. E’ una copia dell’originale Del Monte oggi perduto?  La questione come vedi è molto contorta. In ogni caso non credo che il quadro Barberini/Wildenstein possa essere quello Del Monte. Più probabile, anche per ragioni stilistiche, che sia una derivazione con varianti da quello Giustiniani (o del Monte), verosimilmente fatto fare dagli stessi Barberini. Nel mio volume l’ho inserito con una attribuzione a Caravaggio dubitativa.

D’altra parte come ha pubblicato Riccardo Gandolfi, secondo Celio Un putto che suona  di liuto era stato dipinto da Caravaggio nella casa di Prospero Orsi, poi venduto a Del Monte, quindi le versioni sarebbero due.

R: Celio su questo punto è chiarissimo e ci ha svelato questo retroscena che non sapevamo; mi sono confrontata spesso su questo tema con Alessandro Zuccari perché a me quella dizione di ‘putto’ non dava esattamente l’impressione che si riferisse ad un adolescente, come quello raffigurato nel quadro dell’Ermitage. Da Gandolfi ho avuto la conferma che Celio di solito usa la parola ‘putto’ per riferirsi a un bambino, Gesù Bambino in particolare. Su queste basi mi è difficile credere che il ‘putto’ che suona il liuto possa essere quello del dipinto oggi all’Ermitage. Lascerei per ora ancora aperta questa questione del “putto”.

Sul tema delle copie, posto che a quei tempi com’è noto il concetto stesso di copia era assai differente dal senso negativo che gli assegniamo oggi, pare che anche Caravaggio copiasse; nel volume di qualche anno fa del compianto Zygmunt Wazbinski, intitolato Il cardinale Francesco Maria Del Monte (1549 – 1626). Mecenate di artisti, consigliere di pontefici e sovrani, c’è scritto proprio di una Madonna con Bambino e Santi di Raffaelle per mano del Caravaggio.

R: Che Caravaggio nel suoi primo difficile periodo romano, in cui soffrì letteralmente la fame, eseguisse delle copie, è ormai assodato. Mancini (1617-1621) ci dice che fece alcune copie di devozione per monsignor Pandolfo Pucci; nelle botteghe di Lorenzo Carli e Antiveduto della Gramatica, lavorava a dipinti seriali (Gandolfi 2019); Celio (1614) scrive che il cardinal Del Monte cercava un giovane pittore per fare delle copie quando Prospero Orsi gli presenta Caravaggio, che venne assunto per questo. E’ possibile che, sempre nella sua attività giovanile, replicasse anche le proprie opere per venderle e cercare di sopravvivere. A mio avviso le due diverse versioni della Buona ventura, e quelle, simili, del Ragazzo morso dal ramarro sono da inquadrare in quest’ottica.

La Buona Ventura (Roma sx; Parigi dx)

Altra tesi sulla quale convergi decisamente è che egli arrivò a Roma nel 1595-96 e che i quattro anni di “buco” possa averli passati quanto meno in parte combattendo in  Europa, tant’è vero che a questo riguardo mi pare che sostanzi questa, che allo stato resta un’ipotesi.

R: Purtroppo non posso dire di avere trovato il documento che confermi questa ipotesi, però le testimonianze sono oggi talmente tante che mi riesce difficile credere che Caravaggio non abbia avuto qualche diretta esperienza militare.  Nei quattro anni di “vuoto” documentario, in cui di lui non abbiamo alcuna notizia – fatto questo molto strano dal momento che la sua presenza nei vari luoghi in cui ha vissuto è sempre attestata da documenti per lo più giudiziari – in Europa si combattevano due guerre importanti: quella tra Spagna e Francia e quella di Ungheria tra gli Asburgo e i turchi.

Come ho scritto nel volume in onore di don Sandro Corradini, che tu hai egregiamente curato, vari personaggi che poi troviamo vicino a Caravaggio furono coinvolti nei due conflitti. Alla guerra franco-spagnola, arruolato da Marzio Colonna – colui che nell’estate del 1606 darà rifugio a  Caravaggio nei feudi della famiglia -, tra il giugno del 1596 e il giugno del 1598, partecipò Onorio Longhi, amico di Michelangelo, che troviamo al suo fianco il giorno dell’omicidio Tomassoni. Allo scontro contro i turchi, la cui prima fase venne combattuta tra la primavera del 1593 e l’estate del 1595 – date che corrispondono all’assenza di notizie su Caravaggio – parteciparono Tommaso Salini, il fratello di Giovanni Baglione, Jacopo, che rimase ucciso, il capitano Petronio Troppa, anche lui a fianco di Michelangelo nello scontro con Ranuccio, e Giovan Francesco Tomassoni, fratello di Ranuccio che nel duello riuscì a ferire alla testa Caravaggio. Alla guerra turca parteciparono anche truppe inviate da vari stati italiani, tra questi lo Stato Pontificio, il Granducato di Toscana, la Repubblica di Venezia, i Ducati di Ferrara, Mantova e Savoia. L’eventuale arruolamento di Michelangelo può quindi essere avvenuto sia a Venezia, durante il suo viaggio di studio, sia a Roma, se si ipotizza un suo precoce spostamento da Milano dopo il luglio del 1592.

In ogni caso Roma negli ultimi anni del ‘500 era invasa dai reduci delle due guerre, cui si aggiunsero anche quelli rientrati dopo la presa di Ferrara da parte delle truppe pontificie alla fine di gennaio del 1598. Per cercare di impedire le loro scorribande armate vennero emessi una serie di divieti di girare armati di notte (come faceva sistematicamente anche Caravaggio) nelle strade in cui si trovavano i bordelli.

L’ipotesi di un suo passato militare potrebbe spiegare la sua aggressività, il suo carattere violento, il suo possesso e la sua dimestichezza con le armi che lo portava addirittura ad andare in giro armato contemporaneamente di spada e pugnale, esattamente quello che era l’assetto dei soldati in battaglia. Armi che, come sappiamo, sapeva ben usare e che saranno la causa più frequente dei suoi guai con la giustizia.

Ecco, però a questo riguardo è ovvio che posticipare di quattro anni l’arrivo a Roma di Caravaggio comporta ipotizzare una nuova datazione di tutti i dipinti cosiddetti giovanili dipinti in città dei quali, in una conversazione che ebbi col Prof. Zuccari un paio d’anni fa, egli stesso così suggeriva la cronologia: innanzitutto il Bacchino malato, poi il Ragazzo con canestro di frutta,il Mondafrutto,il Ragazzo morso dal ramarro, a seguire i Bari, la Buona ventura, il Suonatore di Liuto, la Maddalena Doria e infine il Riposo Doria. Di qui la domanda che ti faccio: si tratta di nove opere, anzi dieci se consideriamo la doppia Buona Ventura (senza dire del doppio Ramarro e dell’eventuale doppio Suonatore di Liuto) in un periodo – se siamo nel ’96 – in cui com’è documentato era altresì impegnato a fare “teste” a “un grosso l’una” e inoltre alla fine di quell’anno era anche ricoverato alla Consolazione; si tratta di capire come abbia potuto redigere tutte quelle composizioni.

R: La successione dei primi dieci dipinti è a mio avviso leggermente diversa rispetto alla successione proposta da Zuccari, in ogni caso non mi stupisce questa produzione intensa, è noto che Caravaggio oltre a essere un pittore formidabile era anche velocissimo…

Ora vorrei che mi parlassi per quanto possibile della personalità di Caravaggio, da sempre descritto secondo i cliché del ‘maledettismo’ come un poco di buono, violento, religioso e nello stesso tempo anti religioso, e così via e inoltre dei suoi amori, visto che hai dedicato una parte non secondaria del tuo volume proprio a questo tema e al ritratto, se posso dire così, delle sue donne, nonché della sua vera o presunta omosessualità, sollevata da alcuni studiosi sulla scia di una affermazione di un viaggiatore inglese, il Symonds, tutt’altro che chiara, secondo cui Cecco (noto come Cecco del Caravaggio, alias Francesco Boneri) «era il suo ragazzo»: era cioè il ragazzo o servo di Michelangelo Merisi e giaceva con lui, «his owne boy or servant thait laid with him». Ricordo che due ‘caravaggisti’ come Marini e Calvesi hanno sempre rigettato questa eventualità e lo stesso Calvesi ha scritto che si trattava di “un abbaglio”.

R: E possibile che il suo carattere così difficile, per usare un eufemismo, sia dovuto, come ha scritto Massimo Ammanniti nel 2018, ad un trauma legato alla sua infanzia: la morte contemporanea di peste nel 1577 del padre e del nonno, due fondamentali figure maschili di riferimento per un bambino di sei anni. Un lutto che può aver alterato il suo carattere. L’eventuale esperienza militare, a mio avviso, può aver fatto il resto.

Per quanto riguarda la sua sessualità ti racconto un episodio, che mi ha molto colpito. Mentre stavamo allestendo l’esposizione del quarto centenario della morte di Caravaggio alle Scuderie del Quirinale, ero accompagnata (allora ero Soprintendente del Polo Museale di Roma) da un carissimo amico storico dell’arte e omosessuale il quale, dinanzi all’immagine dell’Amor Vincitore Giustiniani ebbe una vera e propria crisi da sindrome di Stendhal tanto che dovemmo soccorrerlo. Gli chiesi in seguito cosa fosse accaduto e mi spiegò di avere avuto un mancamento di fronte al quadro per l’effetto che gli aveva prodotto: “Non puoi capire l’effetto che mi ha fatto, mi disse, è il massimo dell’erotismo che io abbia mai percepito!” E’ un episodio che mi è sempre rimasto impresso perché mai avrei creduto che l’immagine di un dipinto, ancorché eccezionale, meraviglioso e assolutamente evocativo come quello, potesse scatenare reazioni emotive tanto forti. E’ per questo motivo che nella prima appendice del libro, dedicata alle Donne e amori di Caravaggio, ho scritto: “L’Amore [vincitore] adolescente…sorride beffardo e provocante turbando i sogni di più di una persona che incroci il suo sguardo. E’ in questo quadro che [a mio avviso] Caravaggio ha espresso al massimo la sua empatia sessuale”. Era omosessuale? Non lo so, ma certamente sapeva molto bene come provocare certe sensibilità erotiche.

-Adesso vorrei mi chiarissi il tuo pensiero sul famoso duello della Pallacorda che segnò in pratica il destino di Caravaggio, perché leggo che tu pensi ad uno scontro organizzato quattro contro quattro, e non condividi la ricostruzione di Sandro Corradini che parla invece di una specie di agguato del Tomassoni offeso dalle continue allusioni del Merisi sul fatto che quello fosse stato abbandonato con una figlia piccola dalla donna che aveva sposato.

R: Resto convinta, sulla base dei documenti che conosciamo, che si trattò di uno scontro organizzato da Caravaggio e dalla “banda” della famiglia Tomassoni, forse a causa di un forte debito di gioco. Secondo una lettera del 31 maggio 1606, datata quindi solo tre giorni dopo il “fattaccio”, la causa dello scontro era che Caravaggio doveva a Ranuccio la bellezza di diecimila scudi che aveva perso al gioco. Una cifra enorme che Michelangelo credo non abbia mai avuto.

– Questo mi porta a chiederti approfondimenti sulla parte romana della vita del Merisi che a mio parere hai ricostruito in modo davvero egregio.

R: Grazie. Non è stato facile. Mi hanno aiutato molto il libro dei documenti pubblicato da Stefania Macioce nel 2010 (cfr., Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari. 1513 – 1875.  Edizione Illustrata, 2010), i documenti e i saggi del catalogo della mostra del 2011 (cfr., Caravaggio a Roma. Una vita dal vero. Catalogo della mostra, a cura di M. Di Sivo e O. Verdi) con i nuovi fondamentali elementi emersi dall’Archivio di Stato, nonché le notizie riportate dai primi biografi (Celio, Mancini, Baglioni Bellori). Ho seguito e mi sono strettamente attenuta alle informazioni delle fonti primarie, documenti e fonti, e le ho messe in ordine cronologico. Così mi è apparso tutto più chiaro…

– Riguardo al periodo romano, tu affermi che la svolta rivoluzionaria si ha con la Cappella Contarelli; vuoi spiegare meglio cosa intendi?

R: Le “rivoluzioni” di Caravaggio sono molte: la raffigurazione del dato reale senza alcuna idealizzazione, le dimensioni “al naturale” delle sue figure, la scelta di raffigurare l’acme dell’azione, sempre in primo piano per accentuare il coinvolgimento emotivo e fisico dello spettatore, l’uso del fondo neutro o scuro eliminando dalla scena tutto ciò che non è essenziale e concentrando l’attenzione esclusivamente sulla scena raffigurata. Ma indubbiamente l’elemento più innovativo è quello della luce che non è più quella universale, ma proviene da una sorgente ben precisa al di fuori del quadro. La luce, spesso giustamente identificata con quella della grazia divina, irrompe illuminando la scena scolpendo le forme, creando drammatici contrasti di luci e di ombre.

Nella sua fase giovanile Caravaggio realizza opere di piccolo e medio formato per committenze private, e tutte più o meno con la stessa tecnica preparatoria, che è quella tradizionale, con la preparazione chiara della tela, su cui imposta la composizione con un disegno sottile a carboncino o pennello sottile, aggiunge poi le stesure di colore, sulle quali inserisce le ombre e così via. Verso la fine del secolo la preparazione diventa scura e viene utilizzata, a vista, per rafforzare il contorno delle figure e per rendere alcune parti in ombra. Sulla preparazione scura il disegno sottile non era più visibile, per questo inizia a definire le composizioni con le incisioni sulla preparazione ancora fresca, più visibili con la luce radente che utilizzava per illuminare i modelli in posa.

L’occasione di mettere a punto il suo nuovo, rivoluzionario, modo di dipingere è la sua prima opera pubblica: la commissione dei quadri per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, che fu per lui una sfida difficilissima. Per il suo debutto pubblico nell’ambiente artistico romano, che certo non gli era favorevole, doveva portare a termine due tele enormi (ognuna misura cm. 323 x 343 circa), un formato per lui inconsueto, con numerose figure anziché i pochi personaggi che fino a quel momento avevano animato i suoi dipinti, per di più in un tempo brevissimo: solo un anno. L’ansia con cui affrontò l’impresa si vede chiaramente nel Martirio di san Matteo, dipinto in due redazioni diverse una sopra l’altra sulla stessa tela.

Caravaggio ha dovuto perfezionare in fretta un nuovo geniale metodo di lavoro: sulla preparazione scura della tela imposta rapidamente la composizione con le incisioni, un largo disegno a pennello e qualche abbozzo chiaro, poi aggiunge soltanto le parti chiare e i mezzi toni, cioè dipinge nel quadro solo le parti in luce o in penombra. Nelle parti in ombra e nel fondo scuro non c’è pittura, ma solo preparazione scura, che resta a vista, entrando così prepotentemente nell’impostazione cromatica dei suoi dipinti. Di fatto non dipinge le immagini nella loro interezza, ma solo le parti raggiunte dalla luce: un’intuizione geniale e un gran risparmio di tempo.  In questo modo Caravaggio può scegliere di illuminare, e quindi di dipingere, solo ciò che vuole evidenziare, le parti non raggiunte dalla luce che non gli interessano minimamente, per lui non esistono. L’effetto ottico che ne deriva è evidente: ciò che è scuro e poco visibile resta sul fondo, ciò che è illuminato e chiaro viene in avanti e ha la massima evidenza. La geniale invenzione di trascurare del tutto le parti in ombra e di dedicare tutta l’attenzione alle parti illuminate, viene perfezionata nei quadri Contarelli e non sarà più abbandonata, anzi viene resa sempre più compendiaria, scarna ed essenziale fino alle estreme conseguenze del magnifico Martirio di S. Orsola del 1610.

– Tu confermi che il ‘chiamato’ nella Vocazione sia il vecchio barbuto che quindi con l’indice stia indicando se stesso?

R: Ma certo, lo identifica chiaramente Bellori (1672) “…il Santo [Matteo] lasciando di contar le monete, con una mano al petto, si volge al Signore”. Poi guarda bene il viso di Matteo della Vocazione che è lo stesso, anche se invecchiato, che compare nel San Matteo e l’angelo.

– E’ vero tuttavia che il San Pietro in prima stesura non compariva.

R: E’ vero. E’ stato aggiunto in un secondo momento sovrapponendolo alla figura di Cristo, che era stata già completamente dipinta, e che presentava una curiosa esuberanza dei panneggi.

Nella Vocazione – fino ad oggi considerata priva di significativi cambiamenti nella struttura compositiva – di grande interesse è stata la rilettura delle indagini radiografiche condotta da Claudio Falcucci nel corso delle nuove ricerche svolte in preparazione di questo volume. Contrariamente a quanto finora ritenuto, Claudio ha individuato una importante modifica compositiva nella presenza, in origine, di un’apertura – una sorta di porta di accesso al magazzino in cui si trova Matteo – posta tra Cristo e i personaggi seduti all’interno.  Per cercare una spiegazione a questo strano cambiamento  ho riletto il contratto tra Virgilio Crescenzi e il Cavalier d’Arpino del 1591 in cui erano contenute le indicazioni di Matteo Contarelli per i soggetti da dipingere nei quadri della cappella. In effetti tra queste ho trovato che Cristo nella Vocazione doveva essere raffigurato mentre passando per la strada chiama Matteo all’apostolato.

Nella Vocazione, quindi, inizialmente Cristo era per strada, fuori dal magazzino, ma davanti alla sua porta di accesso, come aveva richiesto Matteo Contarelli, indicazione che Caravaggio aveva seguito alla lettera. Ecco allora spiegata non solo la presenza della porta del magazzino, ma anche lo strano andamento, gli svolazzi e la ridondanza dei panneggi che avvolgevano la figura di Cristo, probabilmente gonfiati dal vento esterno. Con l’aggiunta di Pietro evidentemente questa impostazione non funzionava più e ha dovuto eliminare l’entrata al magazzino, inserendo al suo posto il ragazzo seduto di spalle come elemento di raccordo tra i due gruppi, che altrimenti sarebbero rimasti troppo lontani.

– E per rimanere sui temi ancora aperti della Madonna del Rosario cosa mi dici? Nel libro ne parli come di un qualcosa ancora da chiarire. Ad esempio, è davvero un Colonna l’uomo che ci guarda? 

R: In effetti ho lasciato la questione aperta perché ci sto ancora lavorando, ho un’idea ben precisa ma mi mancano ancora alcune conferme per renderla pubblica. Penso tuttavia che il personaggio ritratto, come già stato proposto (Puglisi, Berra, Prohaska), sia forse da identificare con Marcantonio II Colonna, padre di Costanza e eroe di Lepanto e che la tela sia in qualche modo legata alla fuga di Caravaggio nei feudi della famiglia, e databile al 1606, come ho ipotizzato nella scheda di questo formidabile dipinto. Resta comunque un mistero il perché questa grande opera, certamente una pala d’altare, si trovi nel settembre del 1607 in vendita nella bottega di Finson e Vinck a Napoli.

A Napoli com’è noto Caravaggio si trova nella bottega di Luis Finson …

R: Il rapporto tra Caravaggio e Louis Finson è ancora tutto da approfondire. Mi auguro che presto vengano fatte ricerche approfondite e una mostra dedicata a questo pittore ancora poco conosciuto, ma fondamentale per la piena comprensione dei periodi napoletani di Caravaggio. Sappiamo che, verosimilmente, Michelangelo utilizzò la sua bottega e, forse in cambio, Finson aveva il permesso di copiare i suoi preziosi originali. Da un importante documento pubblicato pochi giorni fa da Francesco Spina nel catalogo della bella mostra di Cristina Terzaghi a Palazzo Barberini, sappiamo che Finson era a Roma nell’Anno Santo 1600 e che nella sua bottega vendeva e restaurava quadri. E’ possibile quindi che Caravaggio e Finson si siano conosciuti a Roma, e non a Napoli, anni prima di quanto si ipotizzava.

Poi c’è ancora da chiarire la storia della ‘feluca’ che conteneva i ‘duo san Gioanni’ e la Maddalena con cui avrebbe ottenuto dal Papa la cancellazione della condanna. Intanto ti chiedo se a tuo parere uno dei due san Giovanni è quello in collezione privata a Monaco.

R: Si, può essere, ma non mi posso pronunciare perché è uno dei pochissimi dipinti tra quelli attribuiti con un qualche fondamento a Caravaggio che non ho mai visto.

San Giovannino disteso (Monaco Coll. privata)

Riguardo ai quadri sulla feluca è opportuno sottolineare che, rileggendo i documenti e in particolare le lettere spedite da Deodato Gentile, vescovo di Caserta, a Scipione Borghese, pubblicate da Vincenzo Pacelli, appare evidente che sulla feluca non c’erano solo i tre quadri tornati a Napoli alla fine di luglio e subito portati nel palazzo in cui abitava Costanza Colonna, da cui era partito Caravaggio. Erano molti di più. Quanti erano ? E dove sono finiti? A Napoli? A Porto Ercole, dove li cerca il Vicerè, conte di Lemos? Questo è un altro argomento di ricerca che attende di essere chiarito.

– E invece sul caso di clamoroso ‘doppio’ vale a dire la Giuditta con la testa di Oloferne riemersa a Parigi dall’antiquario Turquin, mi pare di capire che pensi a un’opera dipinta in collaborazione con Finson. Possibile? non trovi che ci siano vari passaggi poco o punto compatibili con la mano di Merisi?

R: Su questo mi sono già espressa più volte, l’ultima negli atti del convegno di Napoli pubblicati quest’anno. A mio avviso Caravaggio è intervenuto nella figura di Giuditta e, in parte, in quella della anziana ancella, mentre la figura meno riuscita, quella di Oloferne e la fitta trama di rughe che copre il volto della vecchia serva, secondo me sono di mano di Finson, come dimostra anche la diversa composizione dei colori con cui sono dipinte le rughe rispetto alla “base” sottostante. E’ un’ipotesi più che plausibile, visto che Caravaggio a Napoli utilizzava la bottega di Finson. I due pittori lavoravano insieme, fianco a fianco.

Ci avviciniamo alla fine della nostra conversazione e mi piacerebbe sapere cosa hai in cantiere per i prossimi mesi.

R: Mi piacerebbe sciogliere i dubbi e cercare di risolvere almeno alcuni dei tanti problemi insoluti che sono emersi nel corso di questa ultima ricerca. Vedremo…

– E sul lato della ricerca diagnostica?

R:  Il mio sogno nel cassetto è quello di poter completare le analisi diagnostiche sulle opere autografe di Caravaggio ancora conservate in Italia. Poi con la diagnostica chiudo. Queste nuove analisi consentirebbero un significativo avanzamento degli studi sulla particolarissima prassi esecutiva di Caravaggio, già proficuamente avviati nel 2009 sulle ventidue opere autografe conservate a Roma, ai quali si sono aggiunti, nel 2017, grazie al Gruppo e alla Fondazione Bracco, altri importanti dati relativi a ulteriori tredici dipinti prestati alla grande mostra Dentro Caravaggio di Palazzo Reale a Milano.

Esiste già, quindi, una documentazione diagnostica completa in HD su trentacinque opere autografe di Caravaggio su un totale di poco più di settanta dipinti considerati autografi dalla critica. Un risultato molto importante, che ha contribuito a chiarire la geniale evoluzione della prassi esecutiva di uno dei più grandi maestri della storia dell’arte moderna.

Per completare la campagna diagnostica sulle opere ancora oggi conservate in Italia restano da indagare solo otto dipinti conservati rispettivamente a Milano, Firenze, Napoli, Messina e Siracusa. Avevo pensato di poter completare questa nuova avventura nel 2021 in occasione dei 450 anni della nascita di Caravaggio, ma purtroppo, anche per colpa del Covid 19, non è stato possibile. Ma non dispero nel futuro di poterci riuscire…

P d L  Roma 12 dicembre 2021

La Nota di Claudio FALCUCCI

La pubblicazione del volume curato da Rossella Vodret è stata una importante occasione per una ricognizione sistematica e articolata delle informazioni tecnico-scientifiche sinora esistenti sui dipinti di Caravaggio. L’esplorazione contestuale e comparata degli esiti scientifici di cui si dispone, frutto di campagne diagnostiche condotte sui dipinti del pittore dagli anni ’50 ad oggi, ha consentito uno studio più organico della tecnica esecutiva e dei materiali generalmente impiegati dal pittore. È stato possibile in tal modo compilare e identificare alcune costanti nella prassi esecutiva, seguendo un procedimento già avviato in occasione dell’esposizione milanese del 2017 “Dentro Caravaggio”. Le osservazioni ricavate sono state riportate in appendice nel presente volume, distinguendo le informazioni tecniche relative ai supporti, con relativa distinzione fra la tipologia, le dimensioni e le tessiture delle tele impiegate da Caravaggio nei rispettivi luoghi di permanenza o periodi di attività, e quelle relative alle preparazioni, supportando le ipotesi che tonalità e materiali fossero scelti dal pittore in virtù delle tonalità complessive da raggiungere o delle singole porzioni da realizzare. Contestualmente è stato possibile procedere a districare ulteriormente la contorta e discussa questione dell’impostazione compositiva, facendo luce sull’uso da parte del pittore del disegno, delle incisioni e delle pennellate di “abbozzo”, nonché procedere a una compilazione generale della tavolozza di Caravaggio.

La rinnovata e meticolosa ispezione dei dati diagnostici esistenti, accompagnata dall’osservazione ravvicinata delle opere, laddove possibile, ha inoltre rivelato nuovi dati e informazioni, come la presenza di una apertura/uscio presente fra Cristo e i personaggi seduti nella Vocazione di San Matteo o la possibilità che nella Presa di Cristo di Dublino la figura del soldato di spalle fosse in origine rappresentato con il volto scoperto, i quali aprono la strada a nuove possibili interpretazioni e letture delle opere in questione.

Claudio FALCUCCI  Roma 12 dicembre 2021