Caravaggio a Roma: dalla miseria alla gloria. Considerazioni sui nuovi documenti sul primo tempo romano del genio lombardo (with english text)

di Clovis WHITFIELD

(trad. it. Consuelo LOLLOBRIGIDA)

La recente scoperta effettuata dal dottor Riccardo Gandolfi, dell’esistenza nelle Vite dei Pittori scritte da Gaspare Celio, di una inedita biografia di Caravaggio, rappresenta un’affascinante aggiunta alla documentazione relativa all’artista al momento dell’arrivo a Roma.  Essa sembra confermare (ma dobbiamo attendere la pubblicazione per esteso) la condizione di indigenza in cui l’artista si trovava, senza una casa se non del tutto senza amici, ma fa emergere anche che furono le abilità mimetiche che vantava che gli consentirono l’invito nella cerchia del cardinal Del Monte, con il miglioramento delle sue condizioni e delle prospettive che ciò comportava. La particolare generosità dell’Ospedale della SS Trinità nei confronti di coloro che erano liberati dalla prigione (tra cui doveva contarsi Caravaggio), e la loro riabilitazione tra gli artigiani che presidiavano la gestione di quella fondazione, rafforza l’idea che fu quella la prima tappa del suo soggiorno romano all’arrivo. Grazie al racconto di Van Mander, abbiamo una vivida immagine della miseria da cui Caravaggio si tirò fuori grazie a un duro lavoro ” è faticosamente uscito dalla povertà mediante il lavoro assiduo …” scrisse il biografo nel 1604 (basandosi su informazioni di due o tre anni prima). La consapevolezza che aveva trascorso del tempo in carcere per un omicidio che Bellori, evidentemente leggendo il manoscritto di Celio, aveva descritto come a danno di un compagno dell’artista, rende ancora più evidente l’importanza documentale della testimonianza di Pietro Paolo Pellegrini del 1597. Costui lo aveva incontrato per la prima volta nei primi mesi del 1596 poco dopo l’arrivo nella capitale, lo vide nella bottega del siciliano Lorenzo Carli, per il quale Caravaggio lavorò “facendovi teste per un grosso l’una”. E la rivelazione fatta in un suo ultimo scritto dal compianto Giorgio Leone, cioè che l’immagine della Madonna che appare sotto la Buona Ventura dei Musei capitolini (uno dei primi acquisti di quadri di Caravaggio fatto da Del Monte), sia strettamente correlata al tipo di immagini prodotte nella bottega del Carli, ne dimostra nuovamente l’origine in questo periodo, considerato che il siciliano morì all’inizio del 1597 dopo che ebbe consegnato il pittore alle cure dell’ Ospedale della Consolatione. Tutte queste indicazioni ci spingono a una revisione della datazione delle prime opere nel cerchio temporale dei cinque anni precedenti; la capacità di Caravaggio di ritrarre dal vero o di copiare da altri modelli fu evidentemente fenomenale, ma ciò non era mai stato messo in evidenza. Sarebbe bello poter dire che si sono fatti progressi con i molti ritratti scomparsi che risalgono alle sue prime conoscenze, ma è necessario essere più rigorosi nei test che riguardano il carattere della pennellata e la fedeltà al modello. È evidente che ci possono essere pentimenti, e che una fisionomia può essere simile o assomigliare a qualcuno conosciuto; ma Caravaggio in questo primo periodo era come ossessionato dal riprodurre esattamente quello che vedeva e non avrebbe apportato alcun miglioramento estetico alla realtà che era di fronte a lui. Alcuni ritratti mancanti riemergono ma non paiono riguardare quelli che sono stati suggeriti, cioè quello di Prospero Farinacci o del poeta Giambattista Marino. Mentre quello mancante rassomigliante a Benedetto Giustiniani è con tutta probabilità il dipinto che Longhi sosteneva essere il ritratto di Maffeo Barberini. Ciò che oggi pare stia scomparendo è un autentico senso di connoisseurship: non che questa sia stata sempre una soluzione, perché anche l’occhio di Waagen, Berenson e Longhi fu qualche volta deludente, volendo; ma in ogni caso può aiutare rifarsi all’elemento della scienza e alla moderna fotografia, l’IRR e la radiografia sono stati di grande aiuto.

Tuttavia, ciò che manca anche nei più rigorosi esami scientifici è una comprensione approfondita del lavoro preparatorio di Caravaggio che è assolutamente individuale, come la sua personale pennellata, così pure il confronto con quella di altri artisti, sia quelli prima che quelli che lo hanno seguito e sfruttato fama. Una delle principali considerazioni da fare consiste nella velocità del suo  operare: se consideriamo l’arrivo a Roma in periodo avanzato e lo sviluppo completo che conosciamo in quell’anno e mezzo, prima di essere assunto da un potente mecenate, ciò diviene un elemento importante per comprendere il suo successo, a fronte di una condizione di privazione e dipendenza dalla carità altrui. Non è solo da tener presente la cronologia di una pala d’altare come l’Adorazione dei pastori di Palermo, che l’artista fu in grado di realizzare nelle poche settimane trascorse tra l’aprile e il novembre 1600, ci sono riferimenti alla sua velocità anche in altri documenti. Non conosciamo il dipinto a dieci figure del Giudizio di Nostro Signore che Giulio Mancini vide nel 1617, ma egli ci dice che Merisi guadagnò 20 scudi e lo realizzò in cinque giornate. Ora apprendiamo (Burlington, April, R. Gandolfi) che Marcello Lopez, il cognato del sarto Gerolamo Crocicchia, nel 1611 aveva nella sua proprietà un Cristo con gli Apostoli di Caravaggio, una grande pittura che apparentemente mostra la Consegna  di Cristo agli Apostoli. Può essere stata, come ha suggerito Gandolfi, l’opera descritta come Giudizio di Nostro Signore (con dieci mezze figure) quella che Mancini descrisse nella sua corrispondenza (1617). Il prezzo è una chiave per giustificarne la datazione precoce, perché il Ragazzo morso da una lucertola fu venduto per uno scudo e mezzo, mentre il medico del papa pagò cinque scudi per il San Giovanni Evangelista che inviò a suo fratello a Siena. Il costo della seconda versione della Buona Ventura fu di otto scudi.

Possiamo altresì immaginare che il Baro (che sembrerebbe della stessa epoca) sia stato venduto ad un prezzo simile al Cardinale nella bottega che era sul retro del suo palazzo. Gli anni che vanno dal 1597 al famoso processo di Baglione del 1603, appaiono sempre più come i più produttivi della carriera del Merisi, con i dipinti così innovativi della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi e della Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, i grandi altari come la Deposizione per la Chiesa Nuova, dipinta per la famiglia Vittrice (commissionata dopo la morte di Pietro Vittrice a 97 anni nel marzo 1601), l’altare di S. Maria della Scala con la Morte della Vergine, commissionata anch’essa nel 1601, e anche Judith e Holofernes dipinta per Ottavio Costa che sembrerebbe realizzata nel 1602.

Ci sono altre opere disperse: l’inventario Borghese del 1620 comprenderebbe un dipinto di quattro palmi e mezzo di altezza e largo tre e tre quarti (circa cm. 100 da 84 cm) raffigurante la SS Trinità e che portava il suo nome, e dal momento che nel 1602 si parlava di un suo dipinto di questo soggetto per la SS Trinità dei Pellegrini, può essere che questo sia il passaggio successivo della storia, cioè quello segnato da un lavoro di cui non si ha ancora alcuna traccia. La nota pubblicata del 5 giugno 1602 parla di una decisione della Congregazione della SS Trinità dei Pellegrini e Convalescenti per accertare la disponibilità di Caravaggio a dipingere il soggetto della Trinità in un quadro destinato come dono per la confraternita associata della SS Trinità a Città del Messico, per il quale il pittore avrebbe ricevuto la somma di quaranta scudi. Poiché i compensi di Caravaggio già nel 1600/02 erano di solito notevolmente più alti (come i 200 scudi per una pala d’altare del 1600, che forse potrebbe essere l’Adorazione dei Pastori di Palermo, o per i quadri fatti per Ciriaco Mattei dal 1601 in poi) sembra come se quel prezzo riflettesse in qualche modo un senso di gratitudine dell’artista per il sostegno che aveva ricevuto nell’ospedale, oppure che la commissione gli arrivò quando era ancora poco conosciuto. Nessuna sorpresa che poi l’opera non abbia raggiunto la sua destinazione, ma sia finita a Scipione Borghese. Quando Pietro de Sebastiani la descrisse (Viaggio curioso de’Palazzi e Ville più notabili di Roma, 1683, pag. 24) si trovava infatti in Palazzo Borghese e raffigurava l’iconografia tradizionale trinitaria secondo una prospettiva di stretta ortodossia Un Vecchio & un Giovane con un colombo sotto esprimendo la SS. Trinità. Caravaggio, che sarebbe stato affascinante vedere in una rappresentazione presa dal vivo; che essa fosse su alabastro e, in una certa misura, un capriccio, si può dedurre dall’ inventario Borghese del 1634 (cfr. Cannatà & Rottgen, Atti del Convegno, 1996, p. 82). Secondo monsignor Sandro Corradini (cfr. Intervista con Egizio Trombetta, YouTube, 21 aprile 2014) il notaio Mariano Pasqualone (che Caravaggio aggredì in Piazza Navona nell’estate del 1605, apparentemente per una controversia a causa della sua ragazza ‘Lena‘) possedeva dell’artista il dipinto della Flagellazione, valutata a 400 scudi; deve essere stato un lavoro straordinario, come il perduto e dimenticato San Pietro descritto da Bellori a Napoli: “Si tiene a Napoli tra i suoi quadri migliori la Negazione di San Pietro nella Sagrestia di San Martino il quale volgesi con le mani aperte, in atto di negar Cristo, ed è colorito a lume notturno, con altre figure che si scaldano al fuoco”. (Bellori, 1672 p 208).

Oltre ai dipinti scomparsi della collezione Del Monte (incluso lo Sdegno di Marte che ispirò Bartolomeo Manfredi nel dipingere il quadro per Alessandro Chigi ora a Chicago) e i dipinti di Giustiniani come la Magdalena appartenuta a Benedetto Giustiniani, ci sono altri riferimenti contemporanei ad opere che devono essere state realmente dipinte da Caravaggio e che sono ancora disperse, ognuna delle quali può costituire una sorpresa. C’era anche il San Giovanni Evangelista che Giulio Mancini possedeva con suo fratello, un originale di cui aveva anche acquistato la copia che Deifebo aveva consentito fosse fatta. E contrariamente all’opinione comune, il gruppo di dipinti raffiguranti San Francesco è anch’esso da inserire nella sua fase iniziale, perché il saio che il santo indossa è molto verosimilmente quello che Caravaggio riconsegnò ad Orazio Gentileschi poco prima del celebre processo nell’autunno del 1603. Le toppe e le parti logore compaiono tutte negli stessi posti e sono tutte identiche e questo comprende anche quello meglio conservato di essi, che è il quadro dipinto per il governatore di Roma, Benedetto Ala, ora nel Museo Ala Ponzone di Cremona. Tutto ciò per dire che l’ Opera completa è ben lungi dall’essere definitivamente stabilita.

Sembrerebbe che i dipinti Vittrice – il Riposo dalla fuga in Egitto, la Maddalena e la Deposizione per la cappella di famiglia alla Chiesa Nuova – appartengano allo stesso periodo di quelli Del Monte, come se Gerolamo Vittrice avesse con il cardinale la stessa familiarità di suo cognato Prospero,  e che conseguentemente potesse aver accesso al suo ‘allievo’ con la stessa facilità.  In un certo modo, il coinvolgimento di Fabio Mattei alla Pietà che Annibale con i suoi collaboratori dipinsero per la cappella di famiglia in San Francesco a Ripa (dove fu collocata nella Pasqua del 1603 in memoria di Giulia, moglie di Fabio Farnese), sembrerebbe essere simile a quello che spinse Gerolamo Vittrice a commissionare a Caravaggio la Deposizione, richiesta dopo la morte dello zio nel 1601, un dipinto dal soggetto simile che faceva rievocare la rivalità già consumata nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.

Certamente bisogna provare a capire lo sviluppo dell’eccezionale tecnica di Caravaggio, raggruppandone le opere in base all’ambiente e ai committenti che li circondavano.

La libertà d’invenzione dei dipinti realizzati nel periodo Del Monte non ha uguali, né con il periodo precedente né con quello successivo. Alcuni di questi “dipinti privati” – come lo Sdegno Del Monte – non ce l’hanno e possiamo solo ipotizzare quale effetto hanno avuto sul moralismo della chiesa.

Potrebbe essere questa la ragione per la quale il noto dipinto dei Capitolini, con le sue allusioni alchemiche e l’impressione «che non potria dimostrare più vera carne quando fosse vivo» come scrive Scannelli, fosse poi denominato San Giovanni Battista, oppure il motivo per il quale il soggetto originale del Riposo sia stato trasformato nel suo aspetto attuale, o ancora perché la Ragazza che dorme sia stata modificata nella Maddalena. Ma la ragione sta anche nell’ombra nella quale tutte queste immagini sono nate, e che, come il Cupido Vittorioso, erano nascoste dietro una tenda di taffetà. Questi dipinti dovrebbero essere quelli descritti come “poco onesti” e che Patrizia Cavazzini ha recentemente interpretato come «queste lascive immagini…sono altari dell’inferno».

La Morte della Vergine fu richiesta da Laerzio Cherubini il 14 giugno 1601, quando Caravaggio viveva già nel palazzo del cardinal Gerolamo Mattei. A questo riguardo, è bene capire che il perduto San Giovanni Battista che l’artista dipinse per Ciriaco Mattei era un decoroso (oblungo) soggetto dedicato al primogenito del suo mecenate, Giovanni Battista, che aveva recentemente preso i voti, e non, come si ritiene, il dipinto privato del Pastore dei Capitolini che appartiene come iconografia, invece, al periodo Del Monte. Se notiamo degli importanti cambiamenti nella tecnica, è proprio dopo questo momento, quando le «molte centinaia di scudi» che aveva ricevuto dai Mattei fecero la vera differenza, non solo per la sua posizione professionale, ma anche per la tipologia dei soggetti che avrebbe dipinto.

È altrettanto necessario rivedere la cronologia ufficiale dei lavori realizzati in quegli anni. L’insistere che la Cena in Emmaus della National Gallery è il dipinto che Ciriaco Mattei pagò il 7 gennaio 1602, significa andare contro la logica e contro l’evidenza delle fonti. La guida di Roma del Celio, menziona ancora nel 1638 il dipinto a Palazzo Mattei. È altrettanto inappropriato anche perché la tecnica utilizzata denuncia un periodo precedente, quando Caravaggio sta ancora realizzando luci forti che poteva controllare nel suo studio presso il Del Monte, ed era occupato a realizzare dettagli virtuosi come aveva avuto modo di dimostrare nella Canestra Ambrosiana.

Benché sia chiaro che il dipinto della National Gallery fosse il numero 1 dell’inventario Borghese del palazzo di città, non sappiamo ancora quale versione del soggetto (o una replica di Prospero Orsi?) era collocata nella sua villa di campagna. Questa immagine è una delle principali nella rivoluzione operata da Caravaggio, ed anche per questo sarà stato un acquisto di prim’ordine per il nipote di Paolo V, ma allo stesso tempo non c’è nessuna ragione per supporre che era proprio questo il dipinto di cui si disfecero i Mattei.

Cattura di Cristo Mattei. Collezione privata (radiografia)

Sarà poi interessante notare le differenze con la versione di Dublino quando la versione originale della Cattura di Cristo Mattei  riemergerà dall’oscurità in cui viene tenuta da più di dieci anni. Solo allora potremo capire le modifiche che Caravaggio introduce alla sua invenzione eseguita con tanta furia e lotta, creando una seconda versione a volte più perfetta della prima. Ma non ripeteva sempre, anche a causa della crescente paranoia della sua vita in fuga, la cui condizione di esule non gli diede pace abbastanza per migliorare anche quando era arrivato ad una invenzione felice .

Finalmente siamo usciti dall’interpretazione stereotipata della personalità dell’artista e delle sue opere. Si sente molto meno parlare della sua omosessualità, un’oltranza che difficilmente si sarebbe permesso, e mentre alcuni dei suoi mecenati erano professionalmente inclini ad una interpretazione platonica della cristianità, non è corretto vedere ciò come un elemento del suo carattere, così come insistere su una sua fede cristiana: in realtà, aveva un’anima molto travagliata, un cervello stravagantissimo. Purtroppo in tempi recenti si è determinata un’interruzione nell’analisi della sua difficile personalità, e l’artista è stato paradossalmente adottato da quelle istituzioni verso cui era ribelle: un po’ come è capitato alla principessa Diana, da spina nel fianco dell’establishment, trasformato in un’icona turistica. Abbiamo però di recente assistito a una revisione critica, lontana da questo canone, di opere una volta essenziali: la mostra “Il genio di Roma” (2001) è stata l’ultima in cui si è inclusa la versione, ora ex-Johnson, del Sacrificio di Isacco (e per estensione la versione della cattedrale di Toledo) e di altre opere che devono invece essere inserite nel catalogo di un artista che poco ha ricevuto della lezione di Caravaggio. Tutto ciò è incoraggiante, perché la presenza di queste opere nel catalogo di Caravaggio a qualsiasi periodo è stata sempre controversa, per non dire di averle sottratte all’attività importante di un artista come Bartolomeo Cavarozzi. È anche incoraggiante vedere che riemergono nuovi dipinti; ed anche se si tiene alto il livello quando si tenta di assegnare al Merisi nuove opere del tutto sconosciute, ce ne sono molte descritte nelle fonti che ovviamente ebbero all’epoca una loro fama, e sarà forse queste che si riconosceranno per prime.  Di per sè le fonti del Seicento stesso sono poco affidabili, da una parte per il successo del modello caravaggesco, ma anche per le voci critiche che lo hanno fatto cadere nell’ oblio.

Caravaggio è un artista che ha sviluppato da sé la sua tecnica, e benché la sua percezione gli ha permesso di iniziare con una visualizzazione bidimensionale, c’è senza dubbio uno sviluppo nel passaggio dall’applicazione ossessiva dei dettagli nelle opere giovanili ad una rappresentazione più corsiva e sommaria nelle opere successive. Il logorio della superficie pittorica nei Musici (ora in mostra a Napoli) è tale da scoprire le linee scure dal fondo di alcune aree – a volte anche per definire un’area per un elemento di una figura-  ma rende anche più evidenti i tocchi vigorosi con cui segnò inizialmente elementi importanti come gli orecchi, e poi le pieghe della camicia. Questi elementi sono stati amalgamati per accostarli il più possibile al dato oggettivo delle ombre che aveva davanti, ma certamente l’abrasione della pellicola pittorica permette una comprensione solo parziale dell’opera portata a termine.

Al contrario di altri artisti, Caravaggio non parte da nessun presupposto di prospettiva nelle sue opere, né ragiona sulla struttura di oggetti e arti. È sempre molto consapevole dei gradi di luce e di ombra, lavorando duro per cercare di ottenere la stessa qualità, come se avesse a disposizione un misuratore di luce. I passaggi alle ombre più decise non sono semplicemente lasciati trasparire sul fondo ‘a risparmio’, ma sono il prodotto di una tecnica ottenuta con un nero d’osso sospeso in un gel chiaro, applicato sulla superficie, sulle pieghe più profonde, sulle sopracciglia e sulle ombre più scure dei volti. Egli cattura le luci nelle caratteristiche più brillanti di alcuni oggetti come i bordi dei caschi, i tasti dei liuti, e ignora tutto il resto della struttura perché non visibile all’occhio anche se ne siamo consapevoli grazie alla logica delle forme.

Le opere giovanili sono piene si dettagli osservati con meticolosità, tanto che nulla è lasciato al caso e nessun elemento è troppo piccolo da non essere considerato: non ci resta alcun dubbio sul funzionamento dello strumento musicale, sulla corretta posizione di ogni corda sulla tastiera e di ogni pirolo che la mantiene in tensione, o sulle imperfezioni della frutta, o sui fiori appassiti. Egli fa dell’accuratezza dell’osservazione il criterio fondamentale della sua autenticità (e questo fu l’elemento fondamentale per cui Del Monte lo cercò), accompagnato da un linguaggio pieno di colore che pian piano si modifica e diventa più economico; sarà sempre interessante seguire il percorso della grafia personale di questa mano.

.Per quanto la carriera di Caravaggio sia stata così breve, nondimeno esiste un progresso, a volte dettato dalla fretta e dal cambio dei modelli. I lavori più tardi sono molto più moderati nell’uso dei colori e anche le caratteristiche sono ridotte all’essenziale, concentrate sull’espressione del volume a spese del dettaglio, gli strati di pittura sono più sottili, gli accenti più pronunciati, lo sfondo diventa più scuro.  Il carattere dei suoi pigmenti è sempre particolare, non tanto per i materiali stessi  che sono quella a disposizione di tutti,  ma per come li mischiava e i li macinava. Il suo era un tipo di pennello particolare, spesso adoperato per l’effetto espressionistico che procurava, e anche perché gli permetteva meglio di realizzare una trama, una superficie più vicina alla realtà. Certamente lui progettava le sue opere in un modo diverso dai suoi predecessori, un modo che non era solo caratterizzato dall’uso limitato del disegno, ma dove era anche completamente assente ogni espressione deliberata, perché c’era sempre abbastanza nell’oggetto stesso.

di Clovis WHITFIELD   Londra giugno 2017

Caravaggio today

The recent revelation of the existence of Gaspare Celio’s Vite dei Pittori, discovered by Dr Riccardo Gandolfi, with an unknown biography of Caravaggio,  is a fascinating addition to the documentation of the artist’s arrival in Rome. It apparently confirms the destitute condition of the man who was still homeless if not friendless, and emphasises that it was his mimetic abilities that provided the impetus for his being summoned into Del Monte’s circle, with the improvement in condition and prospects that that entailed.  The particular generosity of the Ospedale della SS Trinità towards those released from prison (and Caravaggio was among these) , and the rehabilitation that they promoted among the artisans of the city who presided over its running, reinforces the idea that it was there that he gravitated on arrival. We have a vivid  impression of the misery Caravaggio pulled himself out of by dint of hard work ‘si è faticosamente uscito dalla povertà mediate il lavoro assiduo…’ as Van Mander wrote in 1604 (relying on information of of two or three years before). The knowledge that he had spent time in prison for a murder that Bellori, evidently reading Celio’s MS, described as being of a compagno of the artist, makes the documentary importance of the 1597 testimony of Pietro Paolo Pellegrini all the more valid. The early months of 1596 was indeed the first time he had encountered him and it really was shortly after he had arrived the capital, and he saw him at the shop of the Sicilian Lorenzo Carli, for whom Caravaggio painted heads of personalities for un grosso l’uno, a pittance. And the revelation made by the late and much lamented Giorgio Leone that the type of Madonna that is under the Capitoline Fortune Teller,  one of the first purchases of Caravaggio’s work by Del Monte, relates closely to the type of icon that Carli produced, also underlines its origin in this period, for the Sicilian died early in 1597 – having helped the painter to the Ospedale della Consolatione. All this means that there is no need to scatter the earliest works through the preceding five years, Caravaggio’s ability to ritrarre dal vero or copy from other models was quickly a phenomenon, but had not been in evidence before.  It would be good to say we could make progress with the many missing portraits that date from his early acquaintances, but it is necessary, it seems,  to be more rigorous in the tests for the character of the brushwork, and the faithfulness to life. It goes without saying that there may be pentimenti, and a physiognomy may be similar to a known likeness; but Caravaggio at this early period was especially obsessive about reproducing  exactly what he saw and would not make a cosmetic improvement in the reality that was in front of him. Some of the missing portraits will emerge and they will not look those that have been suggested, like those of Prospero Farinacci or the poet Giambattista Marino. Benedetto Giustiniani’s missing likeness is in all likelihood the painting that Longhi wanted to be of Maffeo Barberini. It seems as though what is missing is a sense of connoisseurship: not that this was always a solution, for we can look at Waagen, Berenson, and Longhi, and find their eye wanting; but it will also help to look at the science in the first place, and modern photography, IRR and radiography have been of great value. In a way, what is missing even from the most rigorous of scientific examinations is a profound grasp of Caravaggio’s highly individual preparatory work and individual brushwork and its comparison with those of other artists, both of those before and the ones who followed him and exploited his fame. 

One of the major considerations is the speed of his operation: the realisation of the late arrival in Rome, and the complete development that we know from those eighteen months before he was taken up by a powerful patron, makes this an important feature of his achievement, against a background of deprivation and dependence on charity. It is not just the chronology of being able to deliver an altarpiece like the Palermo Adoration of the Shepherds in the few weeks between April and November 1600, there are references to his speed in other documents. We do not know the ten-figure painting of the Giudizio di Nostro Signore that Giulio Mancini saw in 1617, and took him five days.  Now we hear (Burlington April, R. Gandolfi)  that the tailor Gerolamo Crocicchia’s brother-in-law Marcello Lopez had a Christ with the Apostles by Caravaggio in his estate in 1611, a large painting apparently showing Christ’s Consignment of the Law to the Apostles.  It may have been, as Gandolfi has suggested, the work described as the Giudizio di Nostro Signore (with ten half figures) that Mancini described in his correspondence  (1617). The price is a key to its early date, for the Boy bitten by a Lizard was sold for one and half scudi, while the doctor  paid  five scudi for the St John the Evangelist he sent to his brother in Siena., the Fortune Teller cost eight scudi (and that was the second version); we can guess that the Cardsharps  (seemingly a companion) was similarly priced to the Cardinal at the shop at the back of his palazzo.   The years from 1597 to the Baglione libel trial  in 1603 look increasingly like the most productive of his career,  for apart from the groundbreaking Contarelli Chapel paintings, and the Cerasi pictures for Santa Maria del Popolo, major altarpieces like the Deposition for the Chiesa Nuova being painted for Vittrice (commissioned after the ancient Pietro Vittrice’s death at the age of 97 in March 1601), the altarpiece of S. Maria della Scala with the Death of the Virgin being also commissioned in 1601, and even Ottavio Costa’s Judith and Holofernes seemingly being done by 1602.  There are other lost works: the Borghese inventory of 1615/1630 apparently included a painting  four and half palmi high, three and three quarters (about 100 by 84 cm)  wide of the SS Trinità that bore his name, and since there had been talk in 1602 of his painting the subject for the SS Trinità dei Pellegrini, it may be that this was the next passage in the history. of a work that has still no other trace.   The published note of 5th of June 1602 speaks of a decision by the Congregation of SS Trinità dei Pellegrini e Convalescenti to ascertain the availability of Caravaggio to paint the subject of the Trinity in a picture destined  as a gift for the associated confraternity of the SS Trinità in Mexico City, that the painter would provide for the sum of forty scudi. As the Caravaggio’s rewards for painting in 1600/02 were usually considerably higher (like the 200 scudi for the altarpiece of 16oo that may well have been the Adoration of the Shepherds in Palermo, or the pictures done for Ciriaco Mattei from 1601 onwards) it looks as though this was a concessionary price that reflected Caravaggio’s gratitude for the support he may well have enjoyed at the hospice, or else a commission given when he was as yet little known.  No particular surprise that the picture did not reach its intended destination, but ended up with Scipione Borghese.  When Pietro de Sebastiani described  it (Viaggio curioso de’ Palazzi e Ville più notabili di Roma, 1683 p. 24) it was in Palazzo Borghese, and it had the traditional Trinitarian iconography more familiar from an Orthodox perspective ‘Un Vecchio & un Giovane con un colombo sotto esprimendo la SS. Trinità. Caravaggio’ that would have been fascinating to see in a representation taken from life. 

And according to Mgr Sandro Corradini, (interview, with Egizio Trombetta, YouTube, 21 April 2014) the notary Mariano Pasqualone (whom Caravaggio attacked in Piazza Navona in the summer of 1605, apparently in a dispute involving his girl ‘Lena’) had a painting by Caravaggio of the Flagellation, valued at 400 scudi.; it must have been an impressive work, like the lost Denial of St Peter that Bellori wrote about in Naples ‘si tiene in Napoli fra’ suoi quadri migliori la Negazione di San Pietro nella Sagrestia di San Martino il quale volgesi con le mani aperte, in atto di negar Cristo, ed è colorito a lume notturno, con altre figure che si scaldono al fuoco’ (1672 p 208). Apart from the missing paintings in the Del Monte collection (including the ‘Sdegnio di Marte’ that inspired Manfredi to paint the work for Agostino Chigi now in Chicago) and Giustiniani pictures like the whole length Magdalen that belonged to Benedetto Giustiniani, there are other contemporary references to pictures that must really have been by Caravaggio that are still unaccounted for, they each sound surprising works.  There was also the St John the Evangelist that Giulio Mancini owned with his brother, an original of which  he even bought back the copy that Deifebo had allowed to be made of it. And contrary to what is generally accepted, the group of paintings of St Francis are also in the early phase, because the habit the saint is wearing is in all probability that which he returned to Orazio Gentileschi shortly before the famous trial in the autumn of 1603. The darned patches and wear are all in the same places, and this includes the best preserved of them, which is the painting done for the Governor of Rome, Benedetto Ala, now in the Museo Ala Ponzone in Cremona. All to say the Opera completa is far from wrapped up. 

It is likely that the Vittrice paintings, the Flight into Egypt, the Mary Magdalen, and the altarpiece of the Deposition for their family chapel in the Chiesa Nuova, seem now to belong to this Del Monte phase, as if Gerolamo Vittrice was as familiar with the Cardinal as his brother-in-law Prospero was, and enjoying equal access to this prodigy.  In a way, Fabio Mattei’s involvement with Pietà that Annibale and studio painted for him to place in the family chapel in S. Francesco a Ripa (where it was placed at Easter 1603 in memory of Fabio’s Farnese wife Giulia) is parallel with Girolamo Vittrice’s order for the same subject from Caravaggio for the Deposition ordered after his uncle’s  death in 1601, an extension of the rivalry that had been consumed in the Cerasi Chapel at S. Maria del Popolo. It is certainly appropriate to try to see the course of development of Caravaggio’s exceptional technique, and it is much easier to group the paintings according to the environment and patrons who surrounded him.The freedom of invention that the pictures done in the Del Monte period is unparalleled not only before, but also afterwards. Some of these dipinti privati  like the Sdegnio di Marte  did not, it seems survive, and we can only conjecture that puritanical elements of the church would have done more than frown on them. It must be the reason why the Capitoline picture with its alchemical allusions and  the impression  ‘che non potria dimostrare più vera carne quando fosse vivo’  as Scannelli wrote, was re-named St John the Baptist, or why the original subject of the Flight into Egypt  was  transformed into its present form, or why the Girl Sleeping was made into Mary Magdalen, but it is also behind the obscurity which these new images were born into, why they and the Cupid Victorious was concealed behind taffeta curtains.  They were what would have bene described as ‘poco onesti’ and as Patrizia Cavazzini has recently written ‘Queste lascive immagini…sono altari dell’inferno’. 

Laerzio Cherubini’s commission for the Death of the Virgin dates from the 14 June 1601, when Caravaggio was already living at Cardinal Gerolamo Mattei’s palazzo. In all this it is good to realise that the lost St John the Baptist that Caravaggio painted for Ciriaco Mattei was a decorous (oblong) subject for the patron’s first born, Giovanni Battista who had recently taken up holy orders, and not the dipinto privato of the Capitoline Shepherd that belongs properly with the imagery of the Del Monte moment. If we do see a major change it is after this point, when the molte centinaia di scudi that he received from the Mattei made a real difference not only to his standing, but also to the kind of subject he would paint. It is also necessary to revise the accepted chronology of works that have got out of their time; the insistence that the National Gallery Supper at Emmaus is the painting that Ciriaco Mattei paid for on the 7th January 1602 goes against logic when Celio’s guide of 1638 still has it in Palazzo Mattei.  It is also inappropriate because the artist’s technique in the painting is from an earlier moment, when Caravaggio is still working in the bright light that he could manipulate in his new studio chez Del Monte, and is concerned still with the virtuoso detail that he could demonstrate in the Ambrosiana Basket of Fruit. Although it is clear that the National Gallery painting was No 1 in the Borghese gallery in town, we do not know which version of the subject (or a replica by Prospero Orsi ?) was in his Villa in the country. Its acquisition as one the the primary images of Caravaggio’s revolution must have been a paramount concern for the nephew of Paul V, but there is no reason to suppose that it was a canvas let go by the Mattei brothers. It will be fascinating when the original (Mattei) version of the Taking of Christ re-emerges out of the shadows in which it has been kept for ten years and more, because it is time now to see the editing that Caravaggio himself did to designs that he had invented, sometimes painfully, and equally sometimes the second edition is more perfect than the first.   But he did not always repeat himself, and the increasing paranoia of his life as a fugitive gave him no peace to do an improved version even of a good design.  

It is good to see that the interpretation of Caravaggio’s works, and personality, have changed. We hear less about his homosexuality, a luxury that he could ill afford, and while some of his patrons were professionally inclined towards a platonic interpretation of Christianity, it is not appropriate to project either this inclination or even a Christian faith on someone who clearly had an extremely troubled soul, a cervello stravagantissimo. There was a interruption to the steady progress in the understanding of his very difficult personality for he has been paradoxically adopted by the institutions, rather like the figure of Princess Diana, a thorn in the side of the establishment, but now a sainted tourist figurehead. In the last generation we have fortunately seen a number of articles of faith, in terms of attribution, disappear from the canon: the 2001 Genius of Rome show was the last to include the now ex-Johnson Sacrifice of Isaac (and by extension, the Toledo Cathedral St John the Baptist) which take their place much more naturally in the work of an artist who really shows little of the impact of Caravaggio.  This is promising, because their presence was discordant in any phase of Caravaggio’s development, while it also robbed Bartolomeo Cavarozzi of some of his best works.  It is encouraging too to see new paintings re-emerge; although the bar is high for wholly unheard of canvases, there are many described in the sources that obviously made headlines in their own day, and it is these that it may be possible to recognise: Seicento connoisseurship by itself is highly unreliable, in part because of the success of the brand, and the opprobrium awarded to it when it had gone out of fashion. 

Caravaggio is an artist who developed his own technique, and although his unique perception enabled him from the start to visualise in two dimensions, there is undoubtedly a progression from the obsessive application to detail of the early works to a much more cursive and succinct representation. The wear of the surface of the Musicians  (now on show in Naples) is such that it uncovers not only the dark lines that he drew to block out some areas, sometimes to provide a different foundation to a single feature like the figure itself, but also the vigorous strokes with he marked first important features like the ears, and then the more prominent of the folds of material, like the pleats of the shirt. These are subsequently blended to approximate more closely the degrees of shade that he saw in the subject before him, but the abrasion that the painting has suffered means that it is half way complete at best.  Unlike other artists, he does not make any assumptions about the structure of features and overpainted limbs and other elements. He is always very conscious of the grades of light and shadow, working hard to obtain equivalents to the values he sees, like a light meter. Passages of acute shade are not left simply to the ground showing through, but are the product of a stage where a bone black in a gel is applied on the surface, to the deeper folds, to the eyebrows and the deeper shadows around the face. He picks up the light of shiny features like the edge of a helmet or the frets on the lute, and ignores the rest of its structure because it is not visible to the eye even if we are aware of the shape. The early works are full of meticulous observation  of detail, no feature too small to leave out, so that we are left in no doubt about the functioning of the musical instrument, the correctness of each string for its position on the fingerboard and the individual peg hat holds it in tension, or the defects in the fruit, the wilting of the flowers.  It does make accuracy of observation a fundamental criterion of authenticity, (and this was the basis of his appeal to the taste of Del Monte)  and it is also a language full of colour, which gradually is modified and reduced; it will certainly be worth tracking the handwriting of this very singular brush. 

For while Caravaggio’s career is so short, it is nonetheless a progression, sometimes marked by haste and change of models. The later works are much more sparing in colour  and even the features are reduced to essentials, concentrating on the expression of volume at the expense of detail, the layers of paint are thinner, the accents more pronounced, the ground even darker.  Always the character of his pigments is particular not so much for the materials themselves which all too often are the same as were available to everyone else, as how he mixed them and how he ground them.  There is a particular kind of brush that he used, because of its expressive effect, or rather because it more closely corresponded to the texture he observed. And he certainly proceeded to design in a quite different way from all his predecessors, a way that was not in fact short on drawing, but what is completely absent is any deliberation of expression, there was always enough in the object itself.