di Sergio ROSSI
Come dimostra la profluvie di volumi usciti di recente su Michelangelo Merisi da Caravaggio non si è ancora spenta l’eco delle celebrazioni per i 450 anni dalla nascita del grande pittore.
Ma al di là dei testi puramente di occasione, che del resto non mancano mai in simili circostanze, devo riconoscere che la qualità media delle pubblicazioni sull’argomento è molto alta, con alcune punte di autentica eccellenza tra le quali spicca la monumentale (685 pagine) opera di Bert Treffers Caravaggio. Arte e Fede. Forma e Funzione, arricchita da un impressionante corredo fotografico e che conferma anche come l’editore napoletano Pompeo Paparo si qualifichi oggi come un autentico specialista nelle edizioni d’arte di particolare pregio.
Questo volume è poi riuscito a me particolarmente gradito anche perché, pur in assoluta reciproca autonomia ed attraverso percorsi paralleli io e Treffers siamo giunti a delle conclusioni molto simili circa l’autentica essenza dell’arte caravaggesca, quella cioè di un pittore colto, assolutamente inserito all’interno della Weltanschauung della sua epoca ed allo stesso tempo cattolico e peccatore, facendo così definitivamente strage, se mi si consente questo termine eccessivo ma calzante, di quell’immagine di un Merisi attabrighe e illetterato, che dipinge solo quello che ha davanti agli occhi, quasi un bohémien ante litteram, violento, assassino, pederasta, ed infine filo luterano se non addirittura miscredente, che ancora continua ad infestare tanta cattiva letteratura su di lui.
E Treffres giunge a queste conclusioni grazie anche alla sua impressionante conoscenza della letteratura religiosa dalla Patristica agli scritti dei Gesuiti e degli Oratoriani del XVI e XVII secolo, cosi che le sue osservazioni sono sempre corredate da citazioni calzanti ed appropriate che accompagnano la lettura stimolante ed arguta che egli sa offrire dei dipinti del nostro artista. Non si tratta cioè di una vana esibizione di cultura fine a se stessa ma si parte sempre dall’opera e dalle sue qualità e caratteristiche stilistiche e visuali per risalire alle fonti che le opere stesse hanno ispirato e tornare poi ad esse attraverso un percorso circolare che potrebbe arganiamente definirsi dal testo al contesto e poi di nuovo al testo pittorico che risulta così alla fine limpidamente e direi quasi emotivamente spiegato all’inclito e al colto.
Si tratta di una sorta di immedesimazione col modus operandi caravaggesco la cui straordinaria capacità di rendere semplice ed immediato anche ciò che è frutto di una complessa elaborazione teorica ha ingannato i critici seicenteschi e continua ancora ad ingannare coloro che scambiano Caravaggio con Courbet quando non addirittura con Sciltian o con un pittore iperrealista dei giorni nostri. Del resto il titolo stesso del libro condensa in qualche modo in 4 parole le quasi settecento pagine del volume. Arte e fede significano appunto che la pittura caravaggesca è inspiegabile al di fuori della fede cattolica che ne sottintende la maggior parte delle opere, anche molte di quelle di solito interpretate come puri esercizi di genere. Forma e funzione significano invece che la forma è sempre in funzione del contenuto che è a sua volta percepibile solo attraverso la forma con cui viene espresso e che è spesso, lo ripeto, talmente aderente alla realtà di tutti i giorni da far credere che quando Caravaggio dipinge una mela o un contadino vuole solo raffigurare quello che immediatamente percepiamo con gli occhi e nient’altro. E cosa mai dovrebbe significare una mela se non un frutto da mangiare o un pellegrino dai piedi sporchi un mendicante inginocchiato e poco altro? E chi vede nella mela un’allusione al pomo del peccato o nel finto contadino un ritratto camuffato di un nobile in pellegrinaggio a Loreto non è che un visionario malato di “iconologismo”.
Perché, per dirla con lo stesso Treffers, si continua a considerare da parte di molti Caravaggio come
«un pittore non colto, testardo e squilibrato come uomo, rozzo e limitato come artista, il quale rappresenta l’idea perfetta di un artista moderno, un angry young man, che disprezza le regole di una buona convivenza borghese, ossia un maudit. Quando si leggono le fonti ed i documenti dell’epoca in cui Caravaggio trascorse la sua meteorica vita, sembra che tutto sia chiaro: conosciamo le parole usate, ma dimentichiamo che sono trascorsi quattro secoli durante i quali quelle parole hanno assunto un significato diverso».
Un ottimo esempio di come un eccessivo pregiudizio per l’appunto “anti iconologico” e negazionista di ogni significato allegorico, religioso e morale presente nella pittura del Merisi possa portare a dei veri e propri fraintendimenti storiografici lo abbiamo nel commento di Evelina Borea alla Vita del Caravaggio del Bellori, certo ormai datato (1976) ma indicativo di quel “fanatismo” longhiano che ancora oggi pervade troppi studi sul Merisi e finisce per fare un pessimo servizio anche al pensiero del Longhi stesso, che del maestro lombardo rimane uno dei massimi e insuperati interpreti.
Valga su tutti questo brano:
«Il significato allegorico e i riferimenti culturali che si possono riconoscere in una figurazione caravaggesca sono sempre un fatto secondario rispetto alla straordinarietà di quel modo di dipingere il mondo sensibile in presa diretta, in termini di fisica concretezza. Nell’epoca moderna, impostando su questa base [cioè del testo belloriano del 1672!] l’interpretazione dell’arte eversiva del Caravaggio, Roberto Longhi, non si discosta dall’impostazione dello scrittore seicentesco».
Come dire in sostanza che il Longhi è rimasto fermo al XVIII secolo! Ma la Borea prosegue additando secondo lei al pubblico ludibrio coloro che sostengono nientemeno che Caravaggio
«copiava i sarcofagi antichi, si proponeva sempre fini edificanti, era il Giordano Bruno della pittura, non dipingeva un quadro senza celarvi moralistiche allusioni e citazioni dal Ripa o dall’Alciati, traduceva in pittura i pensieri di Plotino, Sant’Agostino, San Filippo Neri, Federico Borromeo, celava sottofondi alchemici: particolarmente significativo della tendenza attuale delle ricerche su Caravaggio “esoterico” il saggio di M. Calvesi (Caravaggio o della salvazione, “Storia dell’arte, 9-10, 1971, pp. 93-141) al di là di ogni limite di credibilità».
A parte il malriuscito tentativo di fare una pessima caricatura del pensiero del Calvesi, (che comunque di Caravaggio con i suoi successivi approfondimenti ha dimostrato di essere uno dei massimi studiosi) è evidente come sia proprio l’immagine che di Caravaggio ha la Borea come di qualcuno che non sa dipingere se non ha un modello qualsiasi davanti agli occhi, ad essere ormai insostenibile.
Al confronto, il pensiero del Bellori diventa un modello di acume critico, anche quando egli, e da classicista non poteva fare diversamente, esprime un giudizio molto critico nei confronti del Merisi:
«Giovò senza dubbio Caravaggio alla pittura, venuto in tempo che, non essendo molto in uso il naturale, si fingevano le figure di pratica e di maniera, e sodisfacevasi più al senso della vaghezza che della verità. Laonde costui, togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e restituì ad esse il sangue e l’incarnazione … Sì come dunque alcune erbe producono medicamenti salutiferi e veleni perniciosissimi, così il Caravaggio, se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura. E veramente li pittori, sviati dalla naturale imitazione, avevano uno che li rimettesse nel buon sentiero; ma come facilmente, per fuggire un estremo s’incorre nell’altro, così nell’allontanarsi dalla maniera, per seguitare troppo il naturale, si scostarono affatto dall’arte, restando ne gli errori e nelle tenebre; finché Annibale Carracci venne ad illuminare le menti ed a restituire la bellezza all’imitazione».
Questa radicale opposizione dei Carracci alla poetica caravaggesca è indubbiamente un elemento critico inconfutabile che può così sintetizzarsi: i Carracci sono i pittori del «verosimile», Caravaggio è il pittore del «vero», secondo la nota distinzione formulata da Aristotele nella Poetica, un testo, non dimentichiamolo, che ha conosciuto una nuova fortuna già a partire dalla seconda metà del XVI secolo, anche per quel che riguarda l’applicazione dei suoi principi all’arte figurativa.
Per Aristotele la differenza tra lo storico e il poeta è che il primo narra gli avvenimenti così come sono realmente accaduti, il secondo come dovrebbero accadere secondo verosimiglianza e necessità. E se il poeta si trova a dover scegliere tra il descrivere un avvenimento realmente accaduto ma “inverosimile” o incongruente con la storia da narrare ed uno “verosimile” e logico anche se inventato deve scegliere senz’altro quest’ultimo. Applicato all’arte figurativa questo assunto coincide proprio col principio della “natura corretta dall’idea” teorizzato dal Bellori.
Ora per l’appunto la natura dei quadri dei Carracci è una natura idealizzata e proprio per questo poeticamente “verosimile”. Al contrario Caravaggio racconta la realtà così come essa è senza sottoporla a nessun filtro di carattere poetico o storico così “vera” da divenire “inverosimile”. Certo oggi noi sappiamo che questa analisi dell’arte caravaggesca era frutto dei pregiudizi storiografici del classicismo seicentesco ma essa era pur sempre in grado di cogliere, sia pure in negativo, la sconvolgente carica rivoluzionaria del suo modo di dipingere che si contrapponeva alla controllata modernità della pittura carraccesca. Ed in questo ha certamente ragione la Borea, solo che la studiosa trasforma un pregiudizio critico (come ho appena rilevato) sia pure non privo di una sua intima verità in una impostazione tanto feconda da costituire la base stessa del pensiero longhiano non accorgendosi, così facendo, di rendere un pessimo servizio al suo Maestro.
Al contrario Treffers, pur con le dovute integrazioni e gli opportuni aggiornamenti, possiamo dire che faccia tesoro delle intuizioni di Maurizio Calvesi e da esse parta per molte delle sue osservazioni. Oggi quelle intuizioni non fanno più scandalo e sono divenute patrimonio comune di tutti coloro che intendono accostarsi a Caravaggio con un minimo di obiettività, ma ancora vent’anni fa non era così e proprio Treffers narra di un famoso Convegno romano del 1995 dove Gigi Spezzaferro (nato come arganiano obbediente ma divenuto poi un “longhiano” duro e puro) e Maurizio Calvesi sarebbero addirittura venuti alle mani se non fosse intervenuto a dividerli l’allora direttore dell’Hertziana Liutpold Frommel. E di quel clima sono stato io stesso incolpevole protagonista dato che Sergio Benedetti, sempre in quel Convegno e chiamandomi l’amico Rossi anche se non c’eravamo mai visti prima, mi aveva duramente attaccato perché Riccardo Bassani e Fiora Bellini mi avevano citato (per altro a mia insaputa) in una nota del loro libro, Caravaggio assassino, e poi perché avevo sostenuto quello che oggi nessuno studioso di Caravaggio in buona fede potrebbe negare e cioè che nel l’autoritratto che compare nel fondo del Martirio di S. Matteo in S. Luigi dei Francesi [fig.1] il Merisi si presenti come un peccatore in procinto di perdersi ma che all’ultimo momento si volta colpito dalla luce della Grazia [fig.2].
Mi fa poi particolarmente piacere che nel suo volume l’amico (e questa volta la parola è usata molto a proposito) Bert citi positivamente una serie di colleghi (tutti chi poco chi più, giovani di me) cui mi legano stima e percorsi comuni, come Alessandro Zuccari, Stefania Macioce, Stefano Colonna, Dalma Frascarelli, provenienti per altro da quella Scuola Romana di Storia dell’Arte che, piaccia o no ai suoi molti detrattori, a partire da Lionello Venturi su Caravaggio ha offerto e continua ad offrire contributi fondamentali. E ancora più piacere mi fa il fatto che egli citi anche uno studioso prematuramente scomparso ed ingiustamente dimenticato, Sivigliano Alloisi, che su Caravaggio e Panigarola aveva scritto un saggio che non esiterei a definire profetico.
Prima di entrare ora nell’analisi specifica di alcuni dei dipinti cui Treffers dedica maggiore attenzione, pur non potendo per ovvi motivi sintetizzare in poche pagine le quasi settecento del nostro autore e dovendo quindi necessariamente procedere per campionature, mi occorre segnalare una delle sue qualità che più mi hanno entusiasmato, e cioè quella di mettere in continua relazione opere apparentemente lontane nel tempo e nello stile per ricavarne quel fil rouge che sottintende a tutta la poetica caravaggesca e che è, lo ripeto per l’ennesima volta, incomprensibile al di fuori del cristianesimo.
Valga per tutti questo brano riguardante il Ragazzo morso dal ramarro [fig. 3]
«in cui un ragazzo molto vanitoso sta per scoprire che deve cercare non le soddisfazioni del mondo effimero, bensì Dio: tutto, la natura, l’acqua, il raggio di sole, non è che una metafora di una realtà superiore, ossia spirituale. Fin da giovani dovremmo prendere la strada che ci porta a Dio, questo è ciò che insegna la vera sapienza».
E più avanti aggiunge:
«Non si può non essere d’accordo con Maurizio Calvesi il quale notava che l’arte del nostro pittore toccava spesso, se non sempre, una questione fondamentalmente cristiana, ossia la grazia. Anche in questo quadro, realizzato qualche anno dopo il trasferimento del pittore a Roma, il messaggio principale tocca il problema della salvezza: nella prima versione della pala d’altare per la Cappella Contarelli, l’angelo prende Matteo per il polso con un gesto che rappresenta un concetto preciso e dimostrava fisicamente come il primo evangelista, quando scrisse il suo Vangelo sotto l’ispirazione di Dio, fosse dettato dallo Spirito Santo e dunque, dotato di una scesa infusa. Il pittore riprende delle formule già usate così che, quando si sente costretto a raffigurare concetti simili o uguali, ha a disposizione tutto un repertorio di segni da cui può scegliere per comunicare dei significati tradizionali. Nel caso dell’Incredulità di S. Tommaso (1600 circa), Cristo guida la mano di S. Tommaso verso la ferita del costato e anche qui Cristo in persona trasmette la grazia che guida il fedele e, nel tocco, viene rivelata la Verità, mentre Tommaso, una volta entrato con la mano nella ferita, non dubiterà più e crederà alla resurrezione di Cristo perché, toccato da Lui, non solo vede ma crede nel Salvatore risorto davanti a sé».
Venendo alla giovanile Estasi di S. Francesco ora ad Hartford [fig.4],
dopo la disamina di alcune stampe dei Carracci dedicati alla figura del Santo, Treffers scrive:
«Anche il quadro di Caravaggio ha una forma diversa perché doveva avere anche una funzione diversa: doveva guidare l’utente ad entrare in una riflessione sul proprio stato nel mondo e muoverlo ad una meditazione più dettagliata scrutando il proprio cuore davanti a questo specchio di perfezione che era Francesco, la cui morte era un transito verso la vita e un “radioso” segno di speranza. Tutti i dettagli di cui abbiamo parlato sono strumenti di viaggio che aiutano i viandanti a perseverare sulla via rappresentata da Bonaventura nel suo Trattato. Guardando il cuore si poteva indovinare che tutto era una questione di cuore: lì si doveva scegliere; da lì partiva la strada, lì era il bivio, lì iniziava la strada dell’amore; grazie al riferimento ai miracoli della natura che avevano accompagnato la stigmatizzazione del santo, si poteva essere quasi sicuri che anche la nostra natura umana potesse essere sanata in atti d’amore, vissuti in fede come fu dimostrato dall’esempio di quest’uomo di Dio, ossia Vir Dei. L’uso previsto del quadro, cioè la sua forma, dipendeva, dunque, non dai supposti sentimenti del pittore, ma da un pittore che sapeva cosa doveva creare, dalla sua funzione: la funzione determinava la forma e la forma doveva canalizzare l’uso, così come il Trattato di San Bonaventura era stato scritto per chi provava a praticare il vero senso di questa storia già letta nella Leggenda Maggiore».
Arte e fede e forma e funzione tornano dunque a costituire l’ossatura di ogni analisi treffersiana.
Di fronte a questo sublime dipinto devo però formulare alcune osservazioni personali tese ad integrare e non certo a contraddire il ragionamento dello studioso. La prima riguarda il fatto che il gesto centrale del dipinto, quel toccarsi il cuore da cui tutto parte, rende a quel punto superfluo l’insistere sulle stigmate, che infatti sono solo alluse e non messe in evidenza; la seconda concerne l’identificazione che Caravaggio compie con il Santo d’Assisi, il cui volto, se non credo possa considerarsi un vero e proprio autoritratto gli si avvicina comunque molto, in quella sorta di immagine schizofrenica che fin da giovanissimo il Merisi vuole offrire di sé; insieme Bacco e Cristo, faunesco ed angelico, o se vogliamo scadere in un romanticismo tanto detestato da Treffers, insieme dottor Jeckyll e mister Hyde.
D’altra parte se è vero come è vero che ogni tentativo di fare di Caravaggio una sorta di eroe bohémien ante litteram e assolutamente da condannare è altrettanto vero che se vi è un’opera che quasi premonisce quel capolavoro assoluto e per l’appunto decadente che è il Ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde questo è proprio il David e Golia della Galleria Borghese [fig.5], dove Caravaggio quasi anticipa sia la figura efebica del giovane Dorian nel volto di David sia l’immagine deturpata del suo ritratto nel viso sconvolto di Golia. Con la differenza, come ho avuto modo di scrivere di recente, che Grey e Wilde non erano minimamente sorretti dalla fede e quindi il romanzo ha tutte le caratteristiche di un apologo senza speranza e senza possibilità di riscatto. Al contrario, nel suo dipinto, Caravaggio, decapitando metaforicamente attraverso David il suo alter ego Golia in cui sono concentrati tutti i segni del peccato e del male, spera ancora di potersi redimere ed ottenere un doppio perdono, divino ed umano: il suo urlo di disperazione è alla fine anche un’invocazione di aiuto che David, attraverso la sua espressione di pietas cristiana, sembra volergli concedere.
Tornando a S. Francesco, sono numerosi gli esempi in cui il nostro pittore non solo aderisce in modo generico alle istanze dei cappuccini ma addirittura si identifica, o se si preferisce si auto raffigura nelle vesti del Santo di Assisi, per ultimo nel San Francesco in contemplazione di cui a mio parere esistono almeno due versioni autografe, quella ora in deposito presso Palazzo Barberini a Roma, databile al 1606 e quella che la precede di almeno tre anni ed è ora in collezione Bigetti [fig.6], a conferma di come il Merisi torni di continuo ed a distanza di tempo ad affrontare le medesime tematiche, adattando naturalmente, come osserva Treffers, la loro forma alla funzione che di volta in volta era loro richiesta.
Come nel Riposo Doria: anche qui, osserva Treffers
«la natura non ha un valore decorativo, ma è molto di più. In fondo questo paesaggio è un composto di due nature diverse: a sinistra Giuseppe, parzialmente nell’ombra, tiene un libro aperto con lo spartito di un mottetto del compositore fiammingo Noël Bauldewijn, già composto nel 1519. Il testo contiene parte del Cantico dei Cantici; come sempre dobbiamo, anche in questo caso, essere molto prudenti quando proviamo ad interpretare l’espressione facciale del santo. Stravolto dalla stanchezza? Rapito? Magari, ma quell’angelo sta lì, non viene raffigurato in volo; suona e non solo Giuseppe lo vede ma vede anche cosa sta facendo l’angelo. Non so nemmeno se sta ascoltando; lui almeno lo vede in un faccia a faccia mentre noi lo vediamo soltanto di spalle; siamo ancora esclusi da questo concerto celeste; e celeste dev’essere e armonioso, e grazie anche a questo testo del Cantico anche un esercizio di lode. Sappiamo anche per chi è questa lode: per la Madonna seduta a destra, in terra, con questo viso che esprime una stanchezza dolorosa, mentre il bambino dorme, dorme, e Maria è come preoccupata non solo per lei ma ancor più per il suo bambino che soffre a causa dell’asprezza della strada fatta e da affrontare ancora. Ma, anche qui, la Madre dolorosa non è solo triste; c’è in lei un non so che di sorriso che le sfiora le labbra e chi conosce la storia conosce il perché di questa smorfia di dolore mista a gioia: ma chi lo sa, lo vede, quasi espresso in questo dipinto in cui il minimo particolare tradisce volutamente, in modo quasi nascosto, che cosa si sente e poi, meditandoci su, capisce: il viaggio di questa famiglia era una sofferenza, l’aveva già detto san Bonaventura nelle sue Meditationes…Il Riposo è stato costruito, dunque, su una serie di concetti che costituiscono un insieme che, al tempo di Caravaggio-cioè nella Roma del tardo Cinque e del primo Seicento- è ancora in pieno vigore; l’idea che la vita è una strada stretta, ardua, che può portare alla salvezza; vedere la natura ancora come una lingua di metafore da decifrare e scrutinare come se fosse una lingua usata dal Creatore per chi è in grado di imparare la sua grammatica».
Ed in tutto il suo libro Treffers ritorna su questo concetto che ne costituisce l’asse portante, quello cioè che per comprendere veramente Caravaggio bisogna smettere di attribuirgli i nostri pensieri e la nostra visione del mondo, credendo così di renderlo più attuale ed in qualche modo più fruibile. Al contrario bisogna cercare di entrare nella forma mentis del suo tempo, a penetrare in tutto un sistema di metafore che aiutava ancora a poter nominare non solo le cose, ma anche a trasmettere il loro senso, così che ciò che si voleva dire veniva inteso da persone che avevano la stessa capacità di capire e far capire ciò che si sentiva dentro di sé; queste formule condivise creavano la possibilità di uno scambio sociale elitario ma aperto a chi si riconosceva e parlava lo stesso gergo culturale e, dunque, parole usate con le loro possibili associazioni.
Certo questo tipo di interpretazione potrebbe dar adito ad alcune obbiezioni di fondo. La prima è che Caravaggio è un pittore comprensibile da parte di tutti, anzi forse il più amato in assoluto, come dimostrano le folle che si precipitano a vedere le mostre che solo lo nominano anche se spesso per usarlo come specchio per le allodole; e infatti quante sono state (e ancora sono) le esposizioni, anche nei centri più sperduti e improbabili, intitolate “Da Caravaggio a…” in cui vi era o è un solo Caravaggio dubbio e cento pittori mediocri di ogni ordine e grado? E allora se tutti comunque accorrono, incliti e colti, anche senza avere la sterminata cultura religiosa ed acribia nella lettura dei testi sacri ed in quelli agiografici dei secoli XVI e XVII di Treffers, come spiegare tutto questo?
Ebbene lo si può spiegare facilmente proprio perché il Merisi ha quel dono raro e che lo stesso Treffers mette bene in rilievo, di saper tradurre in immagini di assoluta ed immediata pregnanza visiva anche i pensieri più profondi e complessi, talmente vere da risultare inverosimili secondo l’accezione negativa dei critici seicenteschi che però riletta alla luce del pensiero originale di Aristotele acquista tutto un altro significato.
Caravaggio descrive cioè la realtà per quella che è, senza gli abbellimenti retorici dei Carracci o del Domenichino, ma anche per quel che dovrebbe essere se riletta proprio attraverso la lente d’ingrandimento di quel ceto elitario cui in effetti si rivolgevano i suoi quadri. La Maddalena Doria, tanto per fare un esempio [fig.7], sembra in effetti “la ciociarella tradita” di cui parla Roberto Longhi, ma se fosse solo questo sarebbe solo un gradevole quadro di genere addirittura un po’ stucchevole nel suo patetismo e non quel capolavoro assoluto di una religiosità intensa e partecipata che, attraverso la figura della peccatrice pentita, indica “quella strada stretta, ardua, che può portare alla salvezza” e che tutti possono seguire.
O per restare sempre a quelle frasi ad effetto di Longhi, che tanto hanno incantato e ancora incantano, ma che travisano totalmente l’arte caravaggesca, riducendola ad una sorta di Eduardo De Filippo ante litteram, Le Sette opere di misericordia del Pio Monte di Napoli presenterebbero tutt’al più
“un quadrivio di napoletano sotto il volo di angeli-lazzari che fanno la voltarella all’altezza dei piani, nello sgocciolio delle lenzuola lavate alla peggio e sventolanti a festoni sotto la finestra”:
cioè quasi un “Natale in casa Cupiello” ante litteram. Ebbene con chi intende ancora a Caravaggio in questo modo, e purtroppo sono in molti, non vi è alcuna possibilità di dialogo o mediazione [fig.8].
Le Sette Opere sono una sorta di manifesto programmatico del cattolicesimo post tridentino che attraverso i suoi exempla rintuzza punto per punto tutte le tesi luterane circa la salvezza attraverso la sola fede perché, al contrario, è solo attraverso le opere di misericordia che l’umanità peccatrice potrà salvarsi: esse sono sicuramente buone in sé e la differenza consiste proprio nel farle o nel non farle. Tuttavia esse da sole non sono sufficienti per raggiungere una volta per tutte “la grazia”, perché questa è strettamente collegata, innanzi tutto, con il libero arbitrio e cioè con la scelta tra il bene e il male, ma poi va costantemente supportata attraverso le opere appunto, perché anche il più puro degli uomini può sempre cadere in tentazione e cedere al peccato, mentre anche il più incallito dei peccatori, se il suo pentimento è sincero e il suo cambiamento reale e confermato attraverso le opere può redimersi. E se Caravaggio, insieme cattolico e peccatore, non avesse creduto fin in punto di morte di potersi in extremis salvare, non avrebbe prodotto i suoi ultimi capolavori, che io ho altrove definito una sublime preghiera recitata in punto di morte.
E qui veniamo alla seconda obiezione che potrebbe essere sollevata all’analisi di Treffers, ma che è la più semplice da smontare: quando l’autore sostiene che Caravaggio dipingeva per una ristretta e ben individuabile cerchia di committenti descrive semplicemente quale era la prassi del tempo e pensare di scambiarlo, lo ripeto, per un bohémien fine Ottocento che preferisce morire di fame piuttosto che vendere i suoi quadri ad una borghesia affaristica e reazionaria sostiene niente di più né di meno che una colossale sciocchezza.
Questo non significa però che il nostro pittore non avesse dipinto molti quadri senza una preventiva committenza, proprio per farsi conoscere ed apprezzare da quella stessa committenza di cui sopra, cosa che rientrava perfettamente nella prassi del tempo; o che egli non abbia comunque introdotto in alcune sue opere (penso su tutte al cosiddetto Bacchino malato o al David e Golia della Borghese) alcuni elementi autobiografici che solo lui era in grado di comprendere.
Ma questo lo avevano fatto tanti sommi artisti prima di lui, da Michelangelo a Pontormo a Rosso Fiorentino. Ed ancora il fatto che il Merisi fosse perfettamente integrato nel suo tempo non significa che la sua arte non sia al contempo “rivoluzionaria”, ma non nel senso che fosse avulsa dalla storia, come molti pretendono, ma al contrario significa che egli ha saputo interpretare i drammi del suo tempo meglio e più di ogni altro pittore contemporaneo: ecco che allora, forse, più che rivoluzionaria la sua pittura bisognerebbe definirla profetica e per questo anche così attuale.
Ma sempre rimanendo all’interno del linguaggio primo seicentesco, su un punto mi permetto di dissentire da Treffers e da quasi (o forse senza quasi) tutti gli storici dell’arte che hanno citato la celebre frase di Federico Zuccari relativa ai dipinti di S. Luigi dei Francesi e riportata dal Baglione:
«Che rumore è questo? e guardando il tutto diligentemente, soggiunse. Io non ci vedo altro, che il pensiero di Giorgione nella tavola del Santo, quando Christo il chiamò all’Apostolato»;
ebbene tutti ci vedono un giudizio negativo del grande pittore manierista, ma ancora molto ascoltato nella Roma dei suoi tempi, nei confronti del giovane artista emergente: ma così facendo trascurano un dato assolutamente palmare nella sua evidenza. Nei suoi numerosi scritti (e parliamo di un vero grafomane) Zuccari esprime sempre nei confronti di Giorgione un giudizio estremamente positivo, mentre egli disprezza senza mezze misure il Tintoretto, arrivando a dire che nel suo celebre e monumentale Paradiso, meno ci capisce chi più lo “guarda fiso”.
Dunque, se Zuccari avesse voluto dare un giudizio negativo di quelle tele, avrebbe citato il Tintoretto e non Giorgione; anzi, rimarcando la matrice “veneta” di quei dipinti fa un’osservazione assolutamente calzante e valida ancora oggi. Altra cosa è invece ritenere che il Baglione abbia cercato di capovolgere il senso delle parole del vecchio pittore, aggiungendo un malignissimo “e sogghignando, voltò le spalle e andossene con Dio” che probabilmente non è mai avvenuto.
Giudizio positivo che poi Caravaggio avrebbe ricambiato definendo Zuccari, nel corso del celebre processo per diffamazione intentatogli dal Baglione “un valenthuomo” cioè “che sappi dipingere bene et imitar bene le cose naturali”. Dunque il Merisi era probabilmente molto più inserito nell’ambiente pittorico del suo tempo di quanto i suoi primi biografi, animati del resto da evidente rancore personale (e penso al van Mander la cui fonte principale era il cavalier d’Arpino e ancora di più al Baglione) volessero far credere.
Ma torniamo al libro di Treffers che verso la fine del suo testo dedica un’analisi puntuale ed appassionata ad uno dei massimi capolavori caravaggeschi L’incredulità di San Tommaso, ormai conosciuto in due versioni autografe databili entrambe al 1602, quella conservata a Postdam, Sansouci-Staatliche Schlösser und Gärten e quella già Massimo ed ora in collezione privata, che è proprio quella cui Treffers dedica la sua massima attenzione e che considera anzi la più “affascinante” delle due [fig. 9]:
«Nell’Incredulità di San Tommaso Caravaggio raggiunge una mirabile chiarezza della composizione che viene già intuita da lontano; distribuendo sul campo pittorico i grandi volumi delle figure crea uno strano senso di equilibrio che subito dopo si rivela come un’interazione dinamica che, paradossalmente, trova il suo fulcro nell’asse della parte sinistra, che diventa così il vero centro dell’immagine. L’asse verticale e il movimento dinamico orizzontale s’incrociano proprio in Cristo la cui mano bianca è posizionata già nella parte sinistra del quadro, così che le dita di Tommaso e la ferita del costato di Cristo diventino il vero centro della raffigurazione che attira il nostro sguardo». E più avanti aggiunge che questo quadro «è molto di più di una storia raccontata come se fosse una scena magari un po’ teatrale. Prima di tutto c’è la ferita aperta, poi quel Tommaso stupito che raggiunge quasi con molta fatica questo petto denudato per lui; la distanza tra Tommaso e Cristo è quasi abissale e anche questo ci fa capire che l’apostolo ha viaggiato fisicamente per arrivarci, in un viaggio spirituale. Dopo quel viaggio sarà cambiato, come si disse allora, in un altro se stesso; una volta toccato Gesù risorto, sarà toccato da Cristo stesso e trasformato da incredulo discepolo e leale seguace in un credente che non è più cieco, ma vede con i suoi occhi ciò in cui crede…E questo quadro doveva portare ad un profondo senso di speranza e di consolazione, ad una forma di amore, di amore divino sentito con tutti i sensi, fisici o del corpo, ma anche dello spirito…Guardando quel rozzo Tommaso e riconoscendolo come stupito, non si poteva immaginare che quel quadro avesse una doppia funzione morale: portare non solo conforto e speranza, ma allo stesso momento, incutere sentimenti di dolore e di passione e, addirittura, di amore; insomma un insieme di sentimenti che formavano, nel loro insieme, un sistema determinato da una fede ragionata».
Spinto alle meditazioni, il committente del quadro, in questo caso Girolamo o Ciriaco Mattei, ma anche la ristretta cerchia ammessa a questa sorta di esercizio spirituale, poteva addirittura commuoversi e lasciarsi andare ad effusioni di lacrime prima di dolore e poi di gioia: si vedeva non più ciò che si vedeva ma ciò che si credeva, e, credendo, si considerava come più vero della verità che si poteva toccare.
Certo, questa trasformazione di Caravaggio da una sorta di rivoluzionario agnostico che dipinge solo ciò che ha davanti agli occhi e senza alcuna pretesa intelletualistica, di longhiana memoria, in una sorta di predicatore mistico può essere addirittura shoccante ed è sicuramente destinata ad incontrare molti pregiudizi e molte resistenze, ma solo per coloro che vogliono fare finta di non capire.
La chiave dell’interpretazione di Treffers sta infatti nella considerazione che il fruitore credente dei suoi quadri, ed era nei fatti la totalità, considerava ciò che vedeva più vero della verità stessa. Ed è la stessa cosa di quello che dicevo poco prima, quando osservavo che la pittura di Caravaggio è talmente “vera” da risultare “inverosimile”. Inverosimile, appunto, per chi era offuscato dai pregiudizi accademici, come Baglione o Bellori, o lo è oggi dai pregiudizi ideologici di chi crede assurdamente che considerare Caravaggio un fervente cattolico (ancorché un incallito peccatore, ma le due cose, da Michelangelo a Pasolini non sono minimamente incompatibili tra loro) sia farlo passare come un “reazionario”, e sarebbe “di sinistra” attribuirgli comportamenti e concetti assolutamente incompatibili con il periodo in cui lui viveva: mentre è vero proprio il contrario. Caravaggio aderiva infatti proprio alla forma di religiosità, quella oratoriana, più moderna e progressista dei suoi tempi; credeva in una Chiesa protettrice degli umili, dei pellegrini, dei bisognosi, insomma una Chiesa universale e la sua Morte della Vergine ora al Louvre è una sorta di manifesto in tal senso.
Ma torniamo alla considerazione che i quadri di Caravaggio sembrano più veri della verità stessa: in definitiva è proprio questa caratteristica a spiegare anche l’enorme successo che il pittore riscuote ancora oggi presso il pubblico di ogni latitudine età e ceto sociale; ed essi sanno ancora trasmettere quel tipo di “empatia” che spingeva i suoi fruitori seicenteschi ad una sorta di delirio mistico, ed i visitatori moderni ad una immedesimazione totale.
E comprendiamo così il senso profondo di quella geniale intuizione di Aristotele su cui si fonda ancora gran parte dell’estetica moderna di come un’opera d’arte possa essere al contempo vera ed inverosimile, anzi così vera da risultare inverosimile; basta osservare la Madonna dei Pellegrini: cosa vi è di più “vero” di quella splendida donna con il figlio in braccio che benedice degli astanti sull’uscio di una porta sbrecciata e al contempo di più “inverosimile” se pensiamo che quella stessa donna dovrebbe essere una statua [fig.10]?
Chiudiamo la nostra recensione riportando l’analisi appassionata e struggente che Treffers fa di uno degli ultimi (per lo scrittore proprio l’ultimo) dei capolavori caravaggeschi, il S. Giovannino disteso ora in collezione privata [fig.11]:
«Qui non c’è niente, manca quell’angelo che avrebbe potuto farci capire cosa aspettava quel ragazzino disteso. Solo un pezzo di cruda natura, solo un’ombra di luce, ma ora si vede anche che questo ragazzo sta indicando qualcosa che gli sta ancora lontano, ma sembra già vagamente presente così che lui lo vede e indica con il dito, così che anche noi crediamo che all’orizzonte lontano potrebbe spuntare l’alba di un nuovo giorno in cui questa luce nascente doveva splendere così forte che nessuno l’avrebbe potuta vedere se non ad occhi chiusi. Ma per capirlo si dovrebbe sapere chi è questo ragazzino inerme, solitario, che non fa nient’altro che attendere, quasi nudo, in questo arido paese cui manca quella bellezza naturale alla quale, nei suoi primi quadri, il nostro pittore riservava tanta cura. Ma ora, quando lo si riconosce come un giovane San Giovanni Battista, tutto nel quadro rivela avere un senso che prima ci sfuggiva. Con questo quadro siamo alla fine di quella via che il pittore ha preso, ma questa via porta ancora il senso di una speranza che la luce c’è o si sarà, spunterà nelle tenebre che aveva avvolto uno dei suoi quadri più scuri La resurrezione di Lazzaro di Messina» dove appunto il Cristo distende il braccio per indicare la luce della salvezza”.
Sergio ROSSI Roma 20 Novembre 2022