di Sergio ROSSI
Abbiamo deciso di dedicare un numero speciale di About Art alle importanti novità che il Prof. Sergio Rossi, già docente di Storia dell’arte Moderna alla Sapienza Università di Roma, ha riscontrato, tramite analisi comparative e documentarie, in relazione alle committenze Mattei per Caravaggio, uno degli argomenti tra i più presenti negli studi dei numerosi esperti (intendiamo quelli ‘veri’, non quelli d’accatto, che purtroppo nascono come i funghi) ed esegeti della figura e dell’opera del Merisi. Le tesi -in ogni caso assai ben argomentate, questo almeno ci spetta di dire- ribaltano, come si potrà leggere nel saggio che pubblichiamo, verdetti anche piuttosto consolidati e quindi non è difficile ritenere che provocheranno dibattiti e prese di posizione che come About Art -rivista nata proprio per l’approfondimento ed il confronto- ci candidiamo senz’altro se del caso ad ospitare con piacere.
Al Caravaggio ho dedicato già numerosi studi a partire dal 1989 (1) e su di lui ho in corso di ultimazione una monografia generale; in questa sede però, e come omaggio alla memoria di Maurizio Calvesi, intendo occuparmi di un argomento specifico ma ancora suscettibile di importanti spunti storiografici, quello del suo rapporto con la famiglia Mattei, che può considerarsi uno tra i legami più significativi di tutto il mecenatismo romano del primo Seicento.
Su di esso un fondamentale contributo, ma ad ormai ventisei anni dalla sua uscita bisognoso di alcune verifiche ed alcuni approfondimenti, lo ha fornito il libro di Francesca Cappelletti e Laura Testa Il Trattenimento dei virtuosi, che Maurizio Calvesi nell’Introduzione al volume, così presentava:
«L’aspetto più vistoso della ricerca documentaria condotta da Francesca Cappelletti e Laura Testa, nel ricostruire le collezioni di antichità e di dipinti dei Mattei, è costituito senz’altro dalle novità che riguardano il Caravaggio. Della Cena in Emmaus di Londra, dipinta secondo il Bellori per Scipione Borghese, non solo è chiarita l’originaria appartenenza a Ciriaco Mattei, ma viene acquisita l’esatta datazione al 1601 … La Presa di Cristo nell’orto, recentemente ritrovata e in precedenza datata in vario modo … spetta al 1602. Il San Giovanni Battista delle collezioni capitoline è con ogni verosimiglianza da collegare a pagamenti della seconda metà del 1602. Su L’incredulità di San Tommaso, ricordata dal Baglione fra le tele eseguite per Ciriaco non è emerso alcun documento, il che sembra indicare che in realtà fu eseguita per Vincenzo Giustiniani, che la possedeva già nel 1607» (2).
Questo solo per evidenziare alcuni dei contributi specifici del volume che naturalmente ha anche il merito di ricostruire finalmente il giusto peso che i Mattei hanno avuto non solo nell’ambito del mecenatismo ma anche in quello più vasto delle relazioni politiche, religiose e culturali della Roma seicentesca.
Ma se molto è stato detto, moltissimo rimane ancora da dire, come il presente studio cercherà di dimostrare, attraverso conferme, ipotesi, approfondimenti. La conferma riguarda la Cena in Emmaus di Londra per la quale il libro delle due studiose rimane un punto fermo imprescindibile; l’ipotesi riguarda il San Giovanni Battista capitolino, che secondo una recente analisi di Rodolfo Papa sarebbe piuttosto un Isacco e secondo me una figura che partecipa ambiguamente di entrambi i personaggi (3); gli approfondimenti riguardano innanzi tutto un dipinto non preso in esame ne Il trattenimento … di Cappelletti/Testa e che invece considero, in base a recenti ed approfondite ricerche, legato anch’esso alla famiglia Mattei e cioè il San Francesco in contemplazione già nella collezione Cecconi (4); ed ancora La presa di Cristo nell’Orto, la cui versione originale, proprio in base ad una attenta lettura dei documenti pubblicati nel volume testé citato, e contrariamente a quanto pensavano le stesse autrici, non è la tela ora nella National Gallery di Dublino (5) ma quella già appartenuta alla collezione Sannini.
Prima di analizzare nello specifico tutte queste opere occorre però spendere due parole introduttive proprio sui principali esponenti della famiglia oggetto di questo saggio e del ruolo da essi svolto nei più importanti ambienti religiosi, politici e culturali della Roma pontificia, ad iniziare da Girolamo Mattei, salito nel 1586 alla dignità cardinalizia:
«Esperto di diritto, egli faceva parte della Congregazione per l’attuazione e l’interpretazione dei decreti del concilio di Trento e venne incaricato dal pontefice di redigere, insieme ai cardinali Pinelli, Pietro Aldobrandini ed Ascanio Colonna una nuova edizione delle decretali. Deputato della Congregazione Francese e protettore dell’Irlanda, in stretti rapporti con la famiglia dei Medici … il cardinale era membro dell’Arciconfraternita del Gonfalone e protettore dei Francescani e del convento dell’Ara Coeli, che si preoccupa di far restaurare e ristrutturare tra il 1597 e il 1598. L’adesione alle concezioni evangeliche proprie dell’ordine dei mendicanti e della cerchia di Federico Borromeo, con il quale è in contatto epistolare, tese a salvare il valore delle opere e la promozione della carità, lo induce a fondare il Collegio Mattei, istituzione culturale preposta a fornire di un sostentamento adeguato i giovani poveri che volessero intraprendere gli studi ecclesiastici, e ad alloggiare nel suo palazzo in tempo di carestia “una quantità di poveri cui forniva di tutto l’occorrente”» (6).
Vedremo presto come queste sue relazioni privilegiate con i Francescani, gli ordini mendicanti e Federico Borromeo ci risulteranno preziose per collegare il già citato San Francesco in contemplazione proprio a lui ed al fratello Ciriaco. Quanto a quest’ultimo, egli è stato, per cultura e ricchezze, un personaggio di prima grandezza nella Roma tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, legatissimo, tra l’altro all’ambiente degli Oratoriani ed in diretto rapporto con San Filippo Neri:
«Era proprio nella sua villa della Navicella che il santo si fermava in occasione del pellegrinaggio delle sette chiese e, appoggiato ad un sedile di pietra, “discorreva coi suoi discepoli delle cose di Dio”…mentre…ulteriori legami collegano Ciriaco non solo all’Oratorio, ma in generale ai circoli del settore più avanzato ed illuminato della riforma cattolica romana» (7).
E la sua predilezione per l’arte di Caravaggio, dovuta oltre che a preferenze estetiche anche a ragioni ideologiche e di comune sensibilità religiosa, appare evidente se si considera che egli era disposto a pagare cifre altissime per avere i suoi quadri.
Il Merisi dunque, come appare ormai inconfutabile sulla base degli studi più recenti, per quanto ribelle, peccatore, insofferente alle regole ed inviso a molti potenti, era allo stesso tempo un appassionato credente “legato al settore più illuminato” del cattolicesimo romano, dotato di una cultura e memoria artistica prodigiosa e ricercato e protetto da alcune delle più influenti famiglie dell’Urbe. Eppure ancora oggi, nonostante tutte le evidenze, l’immagine di un Caravaggio ignorante e circondato da committenti e mecenati ignoranti quanto lui, eretico o addirittura ateo e capace di dipingere solo quello che aveva davanti agli occhi è purtroppo dura a morire.
Un ottimo esempio di come un eccessivo pregiudizio “anti iconologico” e negazionista di ogni significato allegorico, religioso e morale presente nella pittura del Merisi possa portare a dei veri e propri fraintendimenti storiografici lo abbiamo nel commento di Evelina Borea alle Vita del Caravaggio del Bellori, (8) certo ormai datato (1976) ma indicativo di quel “fanatismo” longhiano che ancora oggi pervade troppi studi sul Merisi e finisce per fare un pessimo servizio anche al pensiero del Longhi stesso, che del maestro lombardo rimane uno dei massimi e insuperati interpreti.
Valga su tutti questo brano:
«Il significato allegorico e i riferimenti culturali che si possono riconoscere in una figurazione caravaggesca sono sempre un fatto secondario [?? punto interrogativo mio] rispetto alla straordinarietà di quel modo di dipingere il mondo sensibile in presa diretta, in termini di fisica concretezza. Nell’epoca moderna, impostando su questa base [cioè del testo belloriano del 1672! virgolettato mio] l’interpretazione dell’arte eversiva del Caravaggio, Roberto Longhi, non si discosta dall’impostazione dello scrittore seicentesco».
Come dire in sostanza che il Longhi è rimasto fermo al XVIII secolo! Ma la Borea prosegue additando secondo lei al pubblico ludibrio coloro che sostengono nientemeno che Caravaggio «copiava i sarcofagi antichi, si proponeva sempre fini edificanti, era il Giordano Bruno della pittura, non dipingeva un quadro senza celarvi moralistiche allusioni e citazioni dal Ripa o dall’Alciati, traduceva in pittura i pensieri di Plotino, Sant’Agostino, San Filippo Neri, Federico Borromeo, celava sottofondi alchemici: particolarmente significativo della tendenza attuale delle ricerche su Caravaggio “esoterico” il saggio di M. Calvesi (Caravaggio o della salvazione “Storia dell’arte, 9-10, 1971, pp. 93-141) al di là di ogni limite di credibilità» (9).
A parte il malriuscito tentativo di fare una pessima caricatura del pensiero del Calvesi, (che comunque di Caravaggio con i suoi successivi approfondimenti ha dimostrato di essere uno dei massimi studiosi) è evidente come sia proprio l’immagine del Merisi che ha la Borea (ma anche ad esempio Ferdinando Bologna a vent’anni di distanza) come di qualcuno che non sa dipingere se non ha un modello qualsiasi davanti agli occhi, ad essere ormai insostenibile.
Al confronto, il pensiero del Bellori diventa un modello di obiettività. Il grande teorico seicentesco per giustificare le sue critiche al Caravaggio parte infatti da un assunto che è una sorta di summa dell’idealismo accademico e coniuga, anche se in maniera un po’ ingenua e come vedremo anche contraddittoria, platonismo ed aristotelismo:
«Quel sommo ed eterno intelletto autore della natura nel fabbricare l’opere sue maravigliose altamente in se stesso riguardando, costituì le prime forme chiamate idee; in modo che ciascuna specie espressa fu da quella prima idea, formandosene il mirabile contesto delle cose create».
Ma la natura, pur mirando sempre a “produrre gli effetti suoi eccellenti” è sottoposta “all’inequalità della materia”:
«Il perché li nobili pittori e scultori, quel primo fabbro imitando, si formano anch’essi nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in esso riguardando, emendano la natura senza colpa di colore e di lineamento. Originata dalla natura […l’Idea…] supera l’origine e fassi originale dell’arte. Misurata dal compasso dell’intelletto, diviene misura della mano, ed animata dall’immaginativa dà vita all’immagine…Idea del pittore e dello scultore è quel perfetto esempio della mente, alla cui immaginata forma imitando, si rassomigliano le cose che cadono sotto la vista» (10).
E’ evidente qui la contraddizione del ritenere inizialmente l’Idea originata direttamente in Dio, e successivamente “originata dalla natura”, contraddizione che contraddistinguerà l’intero pensiero belloriano ma che non ha impedito l’enorme fortuna del testo e che ha comunque una sua logica ragion d’essere e cioè quella di contrapporre l’arte di Annibale Carracci, perfetto esempio di sintesi tra Idea e Natura, a quella del Caravaggio “puramente naturale”. Infatti, la semplice imitazione è tanto inferiore alla vera arte
«che gli artefici similitudinari e del tutto imitatori de’ corpi, senza elezzione e scelta dell’idea, ne furono ripresi: Demetrio ricevé nota di essere troppo naturale, Dionisio fu biasimato per aver dipinto uomini simili a noi, comunemente chiamato antropografos, cioè pittore di uomini. Pausone e Pirreico furono condannati maggiormente, per aver imitato li peggiori e li più vili, come in questi tempi Michel Angelo da Caravaggio fu troppo naturale, dipinse i simili, e ‘l Bamboccio i peggiori».
E del resto Bellori ripete quanto già sostenuto da Aristotele nella Poetica, quando il filosofo, dopo aver osservato che i poeti imiteranno o uomini migliori di noi, o peggiori di noi o come noi, scrive:
«Così fanno i pittori. Polignoto, per esempio, raffigurò esseri migliori, Pausone peggiori, Dionisio simili…E’ questa è appunto la differenza onde anche si distinguono tragedia e commedia: chè l’una tende a rappresentare personaggi peggiori, l’altra migliori degli uomini d’oggi».
Pensiero ripreso agli inizi del ‘600 da G. B. Agucchi:
«Il Bassano è stato un Pierico nel rappresentare i peggiori … il Caravaggio, eccellente nel colorire si dee comparare a Demetrio, perché ha lasciato indietro l’idea della Bellezza, disposto a seguire del tutto la similitudine» (11).
Tornando al Bellori nella Vita del Caravaggio egli aggiunge:
«Giovò senza dubbio Caravaggio alla pittura, venuto in tempo che, non essendo molto in uso il naturale, si fingevano le figure di pratica e di maniera, e sodisfacevasi più al senso della vaghezza che della verità. Laonde costui, togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e restituì ad esse il sangue e l’incarnazione … Sì come dunque alcune erbe producono medicamenti salutiferi e veleni perniciosissimi, così il Caravaggio, se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura. E veramente li pittori, sviati dalla naturale imitazione, avevano uno che li rimettesse nel buon sentiero; ma come facilmente, per fuggire un estremo s’incorre nell’altro, così nell’allontanarsi dalla maniera, per seguitare troppo il naturale, si scostarono affatto dall’arte, restando ne gli errori e nelle tenebre; finché Annibale Carracci venne ad illuminare le menti ed a restituire la bellezza all’imitazione» (12).
Questa radicale opposizione dei Carracci alla poetica caravaggesca è indubbiamente un elemento critico inconfutabile che può così sintetizzarsi: i Carracci sono i pittori del «verosimile», Caravaggio è il pittore del «vero», secondo la nota distinzione formulata da Aristotele nella Poetica, un testo, non dimentichiamolo, che ha conosciuto una nuova fortuna già a partire dalla seconda metà del XVI secolo, anche per quel che riguarda l’applicazione dei suoi principi all’arte figurativa. Per Aristotele la differenza tra lo storico e il poeta è che il primo narra gli avvenimenti così come sono realmente accaduti, il secondo come dovrebbero accadere “secondo verosimiglianza e necessità“. E se il poeta si trova a dover scegliere tra il descrivere un avvenimento realmente accaduto ma “inverosimile” o incongruente con la storia da narrare ed uno “verosimile” e logico anche se inventato deve scegliere senz’altro quest’ultimo (13).
Applicato all’arte figurativa questo assunto coincide proprio col principio della “natura corretta dall’idea” teorizzato dal Bellori. Ora per l’appunto la natura dei quadri dei Carracci è una natura idealizzata e proprio per questo poeticamente “verosimile”. Al contrario Caravaggio racconta la realtà così come essa è senza sottoporla a nessun filtro di carattere poetico o storico così “vera” da divenire “inverosimile”. Certo oggi noi sappiamo che questa analisi dell’arte caravaggesca era frutto dei pregiudizi storiografici del classicismo seicentesco ma essa era pur sempre in grado di cogliere, sia pure in negativo, la sconvolgente carica rivoluzionaria del suo modo di dipingere che si contrapponeva alla controllata modernità della pittura carraccesca. Ed in questo ha certamente ragione la Borea, solo che la studiosa trasforma un pregiudizio critico (come ho appena rilevato) sia pure non privo di una sua intima verità in una impostazione tanto feconda da costituire la base stessa del pensiero longhiano non accorgendosi, così facendo, di rendere un pessimo servizio al suo Maestro.
Venendo finalmente ad analizzare nello specifico i dipinti del Merisi presenti nelle collezioni Mattei ed iniziando dalla Cena in Emmaus ora alla National Gallery di Londra (fig.1),
è ancora dal Bellori che dobbiamo partire:
«Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispagna, ed al marchese Patrizi la Cena in Emaus, nella quale vi è Cristo in mezzo che benedice il pane, ed uno degli apostoli a sedere nel riconoscerlo apre le braccia, e l’altro ferma le mani sulla mensa e lo riguarda con meraviglia: evvi dietro l’oste con la cuffia in capo ed una vecchia che porta le vivande. Un’altra di queste invenzioni dipinse per lo cardinale Scipione Borghese, alquanto differente; la prima più tinta e l’una e l’altra alla lode dell’imitazione del colore al naturale; se bene mancano le parti del decoro, degenerando spesso Michele nelle forme umili e volgari»…
E più avanti…«Nella Cena in Emaus, oltre le forme rustiche delli due apostoli e del signore figurato giovine senza barba, vi assiste l’oste con la cuffia in capo, e nella mensa vi è un piatto d’uve, fichi, melagrane fuori di stagione» (14).
A parte la confusione sui committenti ed il lapsus sulla “vecchia che porta le vivande” che è invece presente nella Cena in Emmaus ora a Brera, dovuta forse al fatto che il Bellori cita a memoria le opere magari viste molto tempo prima, la sua descrizione è però fondamentale per più di un motivo. Innanzi tutto egli non può fare a meno di “lodare l’imitazione del colore al naturale”, e da tutta la sua descrizione traspare una mal celata ammirazione per la resa naturalistica delle figure ed il pathos drammatico che esse emanano. Ma questi elementi positivi non riescono a bilanciare le critiche che sono comunque più ideologiche che stilistiche e si possono riassumere nel concetto che anche qui Caravaggio è talmente “vero” da risultare “inverosimile”, senza decoro e addirittura “volgare”: in pratica una summa di tutti i pregiudizi accademici.
Inoltre Bellori, in questo più lungimirante e avveduto di tanti storici dell’arte di oggi, sa benissimo cogliere il significato religioso del cesto di frutta posto in bilico sulla mensa, perché quando critica il fatto che «vi è un piatto d’uve, fichi, melagrane fuori di stagione» cioè con frutti tardo estivi e autunnali inseriti in un contesto indubitabilmente primaverile, riconosce apertamente il valore simbolico da attribuire al cesto medesimo come allusivo alla morte e resurrezione di Nostro Signore.
Ma perché Caravaggio inserisce appunto questo elemento in un conteso “fuori di stagione”? Per lo stesso motivo per cui veste i protagonisti della scena con abiti moderni: perché il dramma religioso va sottratto alla contingenza del tempo e della storia e deve assumere un valore universale, come era già avvenuto ad esempio nel Martirio di San Matteo in San Luigi dei Francesi o avverrà di lì a poco nella Cattura di Cristo.
Nella Cena in Emmaus, comunque, siamo di fronte ad uno dei capolavori assoluti di tutta la pittura occidentale, sconvolgente per la sua modernità ed il suo realismo, come se una macchina da presa zummasse al rallentatore ed in presa ravvicinata sui protagonisti, illuminati dall’alto da una luce radente che sembra farli tutti uscire dalle tenebre del peccato. E lo spettatore viene quasi accompagnato verso Gesù Cristo dalle braccia aperte a forma di croce di San Giacomo, insieme apostolo e pellegrino, con un gesto che al contempo ribadisce il significato di morte e resurrezione del dipinto; mentre il Redentore, a sua volta, con la sua mano protesa in avanti verso l’altro discepolo che sta per alzarsi dalla sedia per lo stupore, ristabilisce mirabilmente l’equilibrio della scena.
L’episodio è narrato come è noto solo nel Vangelo di Luca, cap. XXIV, e riferito a due discepoli dei quali solo uno viene citato per nome e cioè Cleopa o Cleofa. Per cui, proprio quest’ultimo, non meglio identificato, e Giacomo maggiore o Zebedeo sarebbero, secondo l’esegesi più comune, i protagonisti della tela. Ma così facendo non si tiene conto del fatto che l’altro Giacomo, il minore, era figlio di un Cleofa, per cui è ipotizzabile che Caravaggio o i suoi consulenti abbiano fatto confusione tra i due Giacomi ed è dunque proprio con la figura del pellegrino con la conchiglia al petto e le braccia spalancate che il Cleofa di Luca deve essere identificato. In ogni caso, vista anche la data di esecuzione del dipinto, da porsi entro il 1601 e quindi in contiguità con l’Anno Santo di inizio secolo appena trascorso, è evidente, e forse non abbastanza sottolineato dalla critica, lo stretto rapporto tra il dipinto e l’evento giubilare, ribadito dal volto imberbe del Cristo benedicente e che quindi rimanda all’iconografia cristiana del Buon Pastore e allude al contempo alla funzione evangelizzatrice della Chiesa che ha certo nei Giubilei un suo momento particolarmente significativo.
Anche la tavola imbandita, con la sua assoluta pregnanza visiva e simbolica diventa una sorta di quinto protagonista, e non certo il minore, della tela: ma quali sono, nel dettaglio, i frutti dipinti dal Caravaggio nella sua meravigliosa canestra, accanto al pane ed al vino sul cui significato eucaristico non credo che anche il più fanatico degli epigoni longhiani potrebbe avere qualcosa da obiettare? Mele, mele cotogne, pere, nespole, fichi, melograni ed uva bianca e nera strabordante dalla canestra, tutti frutti che solo in modo molto estensivo posso definirsi come autunnali perché potevano essere raccolti in un arco di tempo che va da agosto a novembre avanzato. E più esattamente: la mela (malus domestica, di origine centro-asiatica) va da fine agosto a metà ottobre; la mela cotogna (cydonia oblonga, di origine anatolico persiana) va da settembre a fine ottobre; la pera (pyrus compunsi, di origine europea e asiatica) va da fine luglio a fine settembre; la nespola (mespilus germanica, di origine caucasica e dell’Asia Minore) si raccoglieva tra ottobre e novembre; il fico nero (ficus carica, di origine anatolica) a settembre; la melagrana (punica granatum) va da ottobre a novembre e infine l’uva bianca e nera (vitis vinifera silvestris, di origine caucasica) va da inizio agosto a fine settembre (15).
In altre parole, visto che ai tempi di Caravaggio non esistevano né i frigoriferi, né i congelatori e nemmeno le serre è da escludere che egli avesse potuto avere realmente davanti a sé un canestro con tutta la frutta che poi ha trasferito sulla tela. Pertanto dobbiamo concentrarci piuttosto sul significato simbolico, religioso ed escatologico dei “pomi” intesi in senso lato e cioè non solo le mele, ma anche le pere, i fichi e le pesche (che avevamo già visto nel Bacchino malato della Borghese e ritroveremo nella Canestra di frutta dell’Ambrosiana).
Su di essi ha già scritto parole decisive Maurizio Calvesi, parole che nonostante i tanti maldestri tentativi di denigrazione rimangono un punto fermo nell’analisi di questi dipinti caravaggeschi: «Non è solo la mela il simbolo della redenzione operata dal Cristo cancellando il peccato originale, e quindi capovolgendo il significato negativo del frutto, ma anche la pesca (o mela persiana) e la pera [ed i fichi, aggiungo appunto io]»
e a seguire
«trovo ora ciò confermato dal Friedmann e dall’esemplare libro di M. Levi D’Ancona: “somethings the peach appears in painting of the Virgin and Child, in place of the apple, to symbolize the fruit of Salvation”… Comunque le canestre del Caravaggio sembrano soprattutto celebrazioni dei “frutti” del Cristo, i frutti di Grazia da lui portati. Contestuali accenti di morte sono tuttavia intimamente connessi, come appunto l’ombra alla luce. Ed è paradigmatica in questo senso l’uva: allude al martirio [quella nera], ma al tempo stesso alla vita che dal martirio scaturì [quella bianca]» (16).
Duplice allusione confermata dai melograni aperti con la pienezza dei semi in evidenza, che simboleggiano l’amore misericordioso che si dona, ma attraverso il loro colore rosso sangue alludono anch’esse al martirio del Cristo ed alla sua resurrezione.
E’ comunque da rimarcare come il Merisi riesca a conferire pregnante attualità e assoluto spessore drammatico a tutto ciò che raffigura, perfino alla solo apparentemente inanimata Canestra di frutta dell’Ambrosiana di Milano del 1597/99 circa (fig.2), che merita qualche osservazione aggiuntiva.
Appartenuta al cardinal Federico Borromeo, essa non può essere considerata un semplice quadro “dal vero”, come pure qualcuno ancor oggi sostiene, mentre è evidente il suo significato allegorico, proprio del resto a tutte le nature morte di quest’epoca. Ma ad esso va sotteso anche, sulla scorta degli studi di Maurizio Calvesi già da me appena citati, un messaggio di natura religiosa confermato anche da Rodolfo Papa che osserva come l’opera riposi «non soltanto sull’evidenza dei frutti rappresentati, ma sfrutta il loro significato, che allude a qualcosa di ulteriore, come la mela allude al peccato, l’uva al vino e quindi per stensione al sangue di Cristo» (17) e in definitiva al suo sacrificio e alla sua redenzione.
La conferma più inequivocabile che siamo di fronte ad una allegoria cristologica viene comunque dal confronto tra questa natura morta e quella che compare in bella vista nella Cena in Emmaus di cui ci stiamo occupando. Intanto i due cesti di vimini sono praticamente identici ed entrambi posti quasi in bilico sulle tavole che li sostengono; ma anche la frutta che essi contengono è praticamente la stessa e per di più collocata nella medesima posizione, con solo qualche piccola differenza: la presenza di una pesca (prunus persica, di origine cinese, che a seconda delle varietà si può cogliere in luglio e agosto) nella versione dell’Ambrosiana al posto del melograno e il maggior risalto dell’uva bianca sull’uva nera nel dipinto ora a Londra, come a voler rimarcare l’elemento della Rinascita rispetto a quello del sacrificio, ben comprensibile dato che il soggetto complessivo dell’opera rimanda all’apparizione ai discepoli del Cristo risorto.
Al di là di questo, però, è quasi come se Caravaggio, nel dipinto Mattei, mettendo così in evidenza proprio il cesto di frutta, avesse voluto ribadire il significato “cristologico” della “Fiscella” dell’Ambrosiana; e sono convinto che tale significato fosse del tutto pacifico per il committente e gli osservatori dell’epoca, sicuramente assai più abituati a cogliere questo tipo di rimandi e dotte allusioni di quanto non lo siano tanti esegeti attuali.
Tornando ora al rapporto della Cena in Emmaus con la famiglia Mattei, la ricostruzione che ne da Laura Testa è talmente esaustiva che non mi resta che citarne integralmente i punti salienti: «Il 7 gennaio 1602 Ciriaco Mattei, di suo pugno, annota l’uscita di 150 scudi “per darli a Michel Angelo da Caravaggio pittore” come pagamento di un “quadro de N[ostro] S[ignore] in fractione panis. Queste tre ultime parole del documento consentono di abbandonare ogni residuo dubbio sull’identificazione del quadro Mattei con la Cena in Emmaus conservata a Londra, nato dall’ambigua descrizione del Baglione, il quale ricorda che per Ciriaco Mattei il Caravaggio aveva dipinto un quadro raffigurante “quando N. Signore andò in Emmaus” e dall’ancor meno precisa testimonianza del Celio, assiduo frequentatore di Palazzo Mattei, che segnala presso i Mattei un quadro “de Emaus”.
Questa imprecisa definizione del soggetto ha indotto alcuni studiosi a postulare l’ipotesi che il dipinto Mattei raffigurasse un’Andata in Emmaus, di cui la tela di Hampton Court sarebbe una copia. In realtà il pagamento specifica che il dipinto raffigura il Cristo in “fractione panis” e la frase è analoga a quella impiegata dal Cavalier d’Arpino nel 1624 per descrivere la Cena in Emmaus del Caravaggio di proprietà del marchese Costanzo Patrizi, oggi a Brera: “un quadro grande di una cena quando cognoverunt eum in fractione panis mano del Caravaggio”, che già il Mancini, nel ricordarne l’esecuzione durante la fuga del pittore nei feudi dei Colonna a Zagarolo, aveva descritto come un Christo che va in Emmaus. Poiché non è menzionata nell’inventario di Giovan Battista Mattei del 1616, né in quelli successivi, bisogna supporre che la Cena in Emmaus, databile con certezza al 1601, venne presto ceduta al potente cardinale Scipione Borghese, giunto a Roma nel 1605, nella cui collezione è ricordata dal Manilli nel 1650, dallo Scannelli nel 1657 e dal Bellori nel 1672» (18).
Passiamo ora al San Giovanni Battista dei Musei Capitolini (fig.3), che in realtà, secondo la recente acuta analisi iconografica di Rodolfo Papa rimanda anche alla figura di Isacco, ma che tutte le fonti antiche, tranne Gaspare Celio, interpretano appunto come il cugino di Gesù, e seguiamo sempre la ricostruzione di Laura Testa: «Tra le opere eseguite per Ciriaco Mattei dal Caravaggio, il quale “intaccò quel signore di molte centinaia di scudi”, il Baglione ricorda un S. Giovanni Battista» e la sua testimonianza è confermata dalla guida di Gaspare Celio che elenca tra le opere del Merisi nel palazzo Mattei-Caetani, un “pastor friso” che la critica ormai unanimemente identifica con il San Giovanni Battista capitolino. Nel libro dei conti di Ciriaco due pagamenti di 60 e 25 scudi, effettuati al Caravaggio rispettivamente il 26 luglio 1602 ed il 5 dicembre dello stesso anno potrebbero essere collegati, anche per ragioni stilistiche, all’esecuzione del dipinto raffigurante S. Giovanni Battista, santo eponimo del figlio primogenito di Ciriaco. Alla morte del committente il quadro passò al figlio Giovanni Battista, nel cui Inventario della Guardaroba, redatto il 4 dicembre 1616, è descritto chiaramente: “Un quadro di San Gio: Battista col suo agnello di mano del Caravaggio con cornice rabescata d’oro”» (19). Quanto ai successivi passaggi di proprietà dell’opera fino al suo approdo attuale presso i Musei Capitolini rimando sempre alla ricostruzione che ne fa Laura Testa.
Venendo al soggetto della tela, viene subito da chiedersi se il S. Giovannino sia in effetti tale. Tralasciamo intanto l’inattendibile interpretazione del Moir (20), che riprende del resto precedenti osservazioni di altri studiosi e afferma come il giovane in questione «nonostante sia stato accettato come San Giovanni, non è che un monello pagano, non toccato dal sentimento religioso» e veniamo piuttosto alla ben più articolata analisi di Rodolfo Papa. Egli osserva innanzi tutto che mancano alla figura in questione alcuni fondamentali attributi del Battista, su tutti la croce e la scodella e poi che essa è completamente nuda e non ricoperta da una pelle di agnello o di capretto. Anche la sua espressione sorridente fa piuttosto propendere verso il figlio di Abramo:
«Isacco, infatti, è la forma abbreviata di jçhq’el, ovvero” Dio sorrida, sia favorevole”, oppure ancora “Dio ha sorriso, si è mostrato favorevole”. Inoltre, la storia di Isacco, fin dall’annuncio della sua nascita, è legato al riso e al sorriso».
Ma quello che sarebbe decisivo, secondo Papa è l’abbraccio della nostra figura ad un tenero ariete:
«L’animale, infatti, è un simbolo di Cristo, più specificamente di Cristo crocifisso; per esempio, come è stato già da altri sottolineato [Röttgen, Calvesi], negli Hieroglyphica di Pietro Valeriano del 1575 l’ariete è definito “geroglifico” della croce, ma della Croce della redenzione: quell’ariete infatti, che al posto di Isacco viene oblato (f.77v.). Isacco e l’ariete insieme sono simbolo di Cristo, in quanto, come si evince per esempio dalla lettura dei Sermones di Sant’Agostino, l’avvento di Cristo nell’accezione sacrificale è prefigurato da Isacco unito all’ariete. Del resto la rappresentazione del sacrificio di Isacco come prefigurazione del sacrificio di Cristo, con l’immagine dell’ariete posta accanto a Isacco, è frequente nell’arte catacombale» (21).
E’ tuttavia ovvio che anche Giovanni Battista è una prefigurazione del Cristo e mi sembra altresì inequivocabile che la tela ora ai Musei Capitolini sia quella indicata negli inventari del 1616 come “Un quadro di San Gio: Battista col suo agnello di mano del Caravaggio con cornice rabescata d’oro” e da collegare altresì ai pagamenti che Ciriaco Mattei fece a Caravaggio nel 1602 (22). Che l’iconografia del dipinto fosse tutt’altro che pacifica lo dimostra però il fatto che nel 1638 Gaspare Celio parla del quadro come raffigurante “un pastor frisio” e che nell’inventario Pio del 1641 si parla di “un giovane nudo à sedere mezzo colco, quale tiene con braccio dritto abbracciato un agnello, e se lo accosta al viso”. Mentre in effetti sia il Baglione nel 1642, sia il Bellori nel 1664 e nel 1674 descrivono la figura come quella del Battista: e a far propendere verso quest’ultimo vi è anche la pelle di cammello sulla quale siede il giovane.
Per porre ordine in questo complicato intrico di inventari, descrizioni e analisi iconologiche si può avanzare l’ipotesi, che per il momento non può che rimanere tale, che il dipinto sia in effetti una raffigurazione volutamente e semanticamente ambigua, che rimanda contemporaneamente a Isacco e a San Giovanni Battista, entrambi del resto ritenuti delle prefigurazioni di Cristo. Ed è dunque proprio il suo sostrato “cristologico” a caratterizzare in ultima analisi la nostra tela. Del resto non aveva già il Merisi dipinto nel cosiddetto Bacchino malato un giovane che assommava in sé le figure di Bacco e di Gesù?
Particolarmente intricata appare a questo punto la vicenda documentaria della Presa di Cristo nell’Orto, la cui versione ora conservata presso la National Gallery di Dublino (fig.4),
non è a mio parere e come mi propongo di dimostrare, il prototipo caravaggesco, come affermato nel Il Trattenimento (23), ma una copia antica di Gerrit van Honthorst, mentre l’originale del Merisi è quello già appartenuto alla collezione Sannini (fig.5).
Della questione se ne è recentemente occupato Jacopo Curzietti con un’analisi che confermo in pieno e che mi tocca citare interamente per la sua chiarezza: «Con l’eccezione della Cena in Emmaus, presumibilmente entrata a far parte della collezione del cardinale Scipione Borghese, nei cui inventari è ripetutamente menzionata, il San Giovanni Battista e La presa di Cristo nell’Orto compaiono in data 1616 tra i beni del figlio di Ciriaco, Giovanni Battista Mattei. Questi, nelle proprie volontà testamentarie redatte tra il 1623 e il 1624 (25), aveva disposto di donare il San Giovanni Battista al cardinale Francesco Maria Del Monte e nella stessa occasione aveva stabilito di donare al cugino Paolo Mattei la Presa di Cristo nell’Orto (26). Stando a quanto stimato dalla critica (27), quest’ultima tela sarebbe riconoscibile nel quadro citato nell’inventario di Paolo del 1638, in quello menzionato nel 1676 tra i beni di suo fratello Girolamo, ancora nella stima dei quadri di proprietà di Alessandro, figlio di Girolamo, redatta entro il 1729, infine nell’inventario dei beni di Girolamo II nel 1753 e in quello del duca Giuseppe nel 1793» (24).
Interrompiamo ora per un attimo l’analisi del Curzietti per osservare invece come tutte le ricostruzioni presenti nei saggi citati a nota 27 contengono delle imprecisioni che finiscono per rendere non più interamente condivisibile la loro analisi: infatti, il quadro “con la cornice nera rabescata d’oro col suo taffetà rosso, e cordoni di seta rossa, e fiocchi pendenti” e presente negli inventari di Giovanni Battista Mattei del 1616, in quelli del Guardaroba di Asdrubale Mattei del 1631 e del 1638, che ricompare nel 1729 tra i beni di Alessandro Mattei e nel 1753 nell’inventario di Girolamo II (28) ed è infine confluito nella collezione Sannini, viene confuso con “un quadro del Caravaggio della Prisa di Christo con cornice dorata e sua tendina di taffetà verde” presente nell’inventario dell’abate Paolo Mattei, in quello del duca Girolamo del 1676 ed infine in quello del Duca Alessandro del 1729 col valore di 500 scudi (29) e che è invece il dipinto ora esposto a Dublino.
Riprendendo l’analisi del Curzietti, osserviamo infatti con lui come
«recentemente è stata avanzata l’ipotesi (30) che la tela del Merisi possa essere entrata precocemente a far parte della quadreria di Asdrubale Mattei, fratello di Ciriaco: in una postilla aggiunta posteriormente al 1624 al suo inventario dei beni è menzionata infatti, seppur in assenza di riferimenti al Caravaggio, La presa di N.S.re con cornice nera rabescata d’oro, ovvero con l’identica cornice con cui era stato registrato il quadro del Merisi nell’inventario di Giovanni Battista Mattei del 1616; la tela in questione è nuovamente citata negli inventari di Asdrubale del 1631 e del 1638, rispettivamente con cornice d’oro rabescatae con Cornice nera indorata. E’ interessante considerare che, ancora nel 1729, nell’inventario di Alessandro Mattei, accanto al quadro assegnato al Caravaggio con cornice dorata, è presente il quadro precedentemente appartenuto ad Asdrubale, valutato in questa circostanza ben 200 scudi, cifra assai considerevole trattandosi di un’opera di cui non è menzionato l’autore. La probabilità che la tela del Caravaggio fosse effettivamente confluita nella raccolta di Asdrubale è confermata da Giovan Pietro Bellori, che la ricorda tra i quadri del marchese sia nella Nota delli Musei, Librerie, Gallerie et ornamenti di statue e pitture ne’ Palazzi, nelle Case, e ne’ Giardini di Roma (1664), sia nella biografia del pittore.
Così continua lo studioso:
Particolarmente illuminante si rivela proprio la descrizione fornitaci dall’erudito romano nelle Vite, dove si ricorda nella scena la figura di San Giovanni con le braccia aperte, pertanto con una gestualità più espansa dimensionalmente, tale da prevedere un formato rettangolare di misura superiore rispetto alla tela di Dublino; escludendo che l’opera possa essere stata ritagliata intorno al 1624, data in cui la Presa di Cristo nell’orto compare tra i beni di Giovan Battista Mattei per la prima volta con una cornice dorata, occorre considerare anche che, laddove negli inventari settecenteschi si indichi esplicitamente il quadro in questione come riquadrato, si deve correttamente intendere un formato non palesemente rettangolare del quadro e non una presunta riquadratura. E’ probabile dunque che la tela con la Presa di Cristo nell’orto del Merisi, transitato già alla fine degli anni Venti del Seicento dalla quadreria di Giovanni Battista Mattei a quella di suo zio Asdrubale, vada identificato in una redazione diversa rispetto a quella di Dublino; a tal proposito si propone di riconoscere l’originale del Caravaggio nel quadro conservato alla metà del Novecento in collezione Sannini a Firenze e recentemente riapparso sul mercato antiquario romano» (31).
Proviamo ora a sciogliere l’intricatissima questione: La Presa nell’Orto già Sannini e che molti ormai ritengono autografo del Caravaggio è quella “con cornice nera rabescata d’oro”: essa compare nei vari inventari prima citati del 1616,1631,1638, 1729, 1753 (32) ed è la stessa che il Bellori vedrà da Girolamo Mattei:
«Tiene Giuda la mano alla spalla del maestro, dopo il bacio; intanto un Soldato tutto armato stende il braccio, e la mano di ferro al petto del Signore, il quale si arresta patiente, e humile con le mani incrocicchiate avanti, fuggendo dietro San Giovanni con le braccia aperte. Imitò l’armatura rugginosa di quel soldato coperto il capo, e’l volto dall’elmo, uscendo alquanto fuori il profilo; e dietro s’innalza una lanterna, seguitando altre due teste d’armati» (33).
L’altro dipinto di analogo soggetto con “cornice dorata e tendina di taffetà verde”, che compare per la prima volta nel 1638 nell’inventario dei beni di Paolo Mattei con l’attribuzione al Caravaggio ed è la stessa tela lasciata in eredità nel 1624 da Giovan Battista al medesimo cugino (34) ritengo invece che sia la copia dipinta dall’Honthorst presumibilmente poco dopo il 1610 e ritenuta già ab antiquo di mano del Merisi; dipinto che aveva fin dall’origine una forma quadrata e che quindi non è stato “riquadrato” successivamente, come opportunamente osservato dal Curzietti. Per complicare ancora le cose bisogna aggiungere che è per l’appunto da questa versione “quadrata” che verrà fatta fare proprio da Asdrubale una copia allo sconosciuto pittore Giovanni di Attilio nel 1626, copia che era collocata nella camera da letto di Paolo Mattei (35), il che conferma ulteriormente che Asdrubale non si è mai voluto privare, fino alla sua morte, dell’originale caravaggesco: si tratta con molta probabilità dello stesso dipinto conservato presso il Museo Statale d’arte Occidentale e Orientale di Odessa e a lungo considerato il prototipo del Merisi (36).
Dunque, Laura Testa scrive il vero quando afferma che «Il 2 gennaio del 1603, tramite il banco Doni, Ciriaco Mattei effettua un altro pagamento al Caravaggio di 125 scudi “per un quadro con la sua cornice dipinta di un Cristo preso nell’Orto” ma poi finisce per confondersi nel commentare i documenti che lei stessa ha trovato quando prosegue:
«il quadro, che recentemente è stato rintracciato in Irlanda, venne eseguito nel corso del 1602 dal pittore ormai giunto, dopo le importanti commissioni pubbliche per S. Luigi dei Francesi e per Santa Maria del Popolo, all’apice della fortuna e della fama. Registrata nell’inventario del 1616 e in quella del 1624, la tela fu lasciata da Giovan Battista al cugino monsignor Paolo Mattei, figlio di Asdrubale e, alla morte di questi, nel 1638, confluì nelle collezioni di Asdrubale» (37),
che però, stando alla stessa studiosa, era morto quattro giorni prima del figlio.
Ora, non solo il dipinto in questione non è quello “recentemente rintracciato in Irlanda”, ma inoltre esso è entrato a far parte della collezione di Asdrubale in una data di poco posteriore al 1616 e da lì non si è più mosso fino alla morte del proprietario che ne ha potuto così godere per circa un trentennio, contrariamente a quanto scritto sia dalla Testa che dalla Cappelletti (38).
Dunque, la “Presa di Cristo” donata nel 1624 da Giovan Battista al cugino Paolo, come ho appena osservato, era già una copia, molto probabilmente quella ora a Dublino, ed essa confluirà poi nelle collezioni di Asdrubale, e successivamente in quelle di Girolamo, che alla fine si troverà dopo il 1638 ad avere ben tre versioni principali (oltre ad alcune minori) dello steso dipinto: quella già nella collezione Sannini, che è il prototipo, la copia di Honthorst ora a Dublino e la copia di Giovanni di Attilio che è con tutta probabilità quella ora conservata ad Odessa.
Un ulteriore conferma di questa mia ricostruzione viene proprio da un attento confronto stilistico tra la pala di Dublino e quella ex Sannini (vedi sopra figg. 7 e 8): e, paradossalmente, è proprio la descrizione che Laura Testa fa della prima delle due opere a far propendere per l’autografia della seconda. Scrive infatti la studiosa:
«La struttura chiusa, ellittica, della composizione centrale è simile a quella di altre opere del periodo tra il 1600 e il 1602, come la Deposizioneo L’incredulità di S. Tommaso ed è rotta sulla sinistra dal personaggio che fugge con il braccio alzato e la bocca spalancata nell’urlo che costituisce un sicuro richiamo al Martirio di S. Matteo della Cappella Contarelli, mentre il volto appuntito del Cristo, l’affollamento della composizione, si avvicinano alla prima versione della Caduta di Saulo, al clima di quel primo registro lombardo e manierista che convive, a quest’epoca ancora non del tutto abbandonato, nello stile del Caravaggio con l’impostazione semplificata e monumentale di cui egli aveva già dato prova nelle commissioni pubbliche» (39).
Ma a ben vedere questa descrizione si adatta alla perfezione alla tela ex Sannini molto più che a quella di Dublino. Infatti in quest’ultima il volto di Cristo non è affatto appuntito, emaciato e segnato da profonde rughe come nell’altro dipinto ma piuttosto è plasticamente definito e più melanconico che sofferente;
il S. Giovanni che fugge urlante non segue in modo coerente l’andamento ellittico della composizione, quasi prolungando all’infinito il semicerchio di braccia che si accalcano al centro della scena, come appunto nella versione già Sannini, ma sembra quasi una figura aggiunta a posteriori e che interrompe più che incrementare il pathos drammatico dell’evento. Ancora, come osserva opportunamente Curzietti tutta la narrazione si adatta molto meglio ad un formato rettangolare che ad uno quadrato.
Quanto alla “presunta riquadratura” a posteriori, ossia una “decurtazione dei lati” cui sarebbe stata sottoposta la tela, è francamente assai difficile pensare che chiunque sia stato il possessore di quest’importantissimo originale caravaggesco abbia potuto decidere di menomare la figura del giovane S. Giovanni fuggente, tanto da farlo apparire quasi monco, con l’ovvio risultato di deprezzare irrimediabilmente il dipinto.
La versione dublinese era dunque già all’origine di formato quadrangolare ed opera di un copista, che per quanto di altissima qualità (quasi sicuramente Gerard van Honthost) non aveva comunque compreso a pieno il senso ultimo del capolavoro del Merisi. Quest’ultimo, infatti, non avrebbe mai ipotizzato di dipingere il S. Giovanni così platealmente “mutilato” e infatti, nella versione ex Sannino, che è senza dubbio quella originale, l’evangelista appare in tutta la sua interezza, con solo la mano sinistra appena ai margini della tela, proprio per accrescere il senso di fuga vertiginosa ed il ritmo incalzante della composizione.
Veniamo ora all’uomo di profilo con la lanterna in mano che appare sul lato opposto del dipinto, che è un sicuro autoritratto e che l’artista replicherà “a memoria” nel sublime e tardissimo Martirio di Sant’Orsola. Come gli capiterà anche in altre occasioni Caravaggio si raffigura qui come testimone di un tragico evento e nella versione ex Sannini (sx) egli appare con la figura interamente e plasticamente definita e sovrastante in maniera netta la selva di elmi luccicanti che gli si parano davanti; inoltre, il netto contrasto di chiari e di scuri ne acuiscono la portata drammatica, come di colui che vuole sottrarsi alle tenebre del peccato ed abbeverarsi alla luce salvifica della grazia che gli illumina parte del volto. Nella versione dublinese, al contrario, i suoi lineamenti sono come addolciti rispetto alla prima versione e quindi egli appare meno coinvolto nel furor drammatico dell’insieme. Anche la luce della lanterna tenuta dall’armigero al fianco di Caravaggio, nel dipinto di Dublino sale verso l’alto, come è tipica dei dipinti di Gherardo, risultando pericolosamente vicina alla mano del soldato, mentre nella versione ex Sannini rimane giustamente circoscritta entro il suo involucro e determina un contrasto di luci ed ombre molto più accentuato e drammatico.
Quanto ai colori, i rossi violenti e fiammeggianti, quasi intrisi di sangue, ed i neri gagliardi e “rinvigoriti”, come fatti di pece, della prima versione, si ammorbidiscono a Dublino in passaggi tonali di ocra, di rosa, di terra di Siena, di blu di Prussia, molto più consoni ad Honthorst che a Caravaggio.
Un’analisi, la mia, che coincide per molti aspetti con quella già formulata dal compianto Vincenzo Pacelli:
«Recentemente, all’esposizione celebrativa del Caravaggio ospitata alle Scuderie del Quirinale, l’opera è stata riproposta con l’attribuzione al Merisi, ma qualche dubbio è stato avanzato da più parti e si è ritornato a fare il nome di Gherardo delle Notti, che risulta sempre più convincente per motivi stilistici, specie al confronto con la tela di analogo soggetto di collezione romana-ovvero l’esemplare già nella raccolta Sannini-di 8 cm e mezzo più alta e ben 47cm più larga, fatta conoscere inizialmente dal Longhi nel 1943, recentemente esposta alla mostra di Düsseldorf del 1996 e ripubblicata nella monografia di Sebastian Schütze. Inoltre, una serie di pentimenti rivelati all’esame radiografico, su cui si è appuntata l’attenzione del Whitfield, sembrerebbe dover decidere per accreditare l’autografia dell’esemplare romano. [Nella tela dublinese] la costruzione molto fiamminga delle armature non sembra quella tipica del Merisi, specie se messa a confronto con l’armatura del soldato dell’Incoronazione di spine del Kunsthistorisches Museum di Vienna…Nel dipinto di Dublino la luce si riflette sul metallo senza esserne assorbita e creando una coloritura anche più chiara, in Caravaggio la luce viene al contrario accolta dal ferro, che la introita e ne ammorbidisce la forza, lasciando un colore più caldo e nero. Insomma è come se Gherardo…abbia in buona sostanza non copiato, ma interpretato il testo caravaggesco fornendone una versione più ingentilita e congeniale alla sua sensibilità espressiva e alla sua tradizione pittorica…In definitiva, le due opere al confronto denunciano una ulteriore sostanziale differenza: i tratti fisiognomici appaiono diversi, e soprattutto le figure della tela romana si muovono agevolmente in uno spazio meno costretto e più rispondente al vero, che di conseguenza accentua la loro grandezza naturale» (40).
Nello stesso volume la restauratrice Carla Mariani offre spunti di lettura molto interessanti sulla tecnica pittorica del Merisi e sugli interventi conservativi compiuti sul dipinto ex Sannini, cominciando dalla fondamentale analisi della cornice dell’opera, che è quella originale “negra rabescata d’oro”, la medesima della Medusa degli Uffizi (fig. 6),
ad ulteriore riprova dell’autenticità della nostra versione. E proseguendo osserva:
«La tecnica del dipinto, che si è rivelato nella sua straordinaria qualità, si sviluppa attraverso stesure sovrapposte di colore che denunciano un lucido progetto espositivo. Ad esempio, alla figura di Giovanni si sovrappone quella di Cristo, in quanto dal rosso cinabro della sua veste traspaiono il verde della manica dell’apostolo e le ciocche della capigliatura di Cristo che, girando in spirali scultoree, quasi metalliche, sono diventate trasparenti e permettono la lettura del rosso sottostante. Il nero di vite del guanto di metallo dell’armigero ci consente di vedere le pieghe del mantello al quale si sovrappone. Per dipingere il manto di Cristo, il pittore, che [a differenza di Honthorst] non usa quasi mai il blu, ha adoperato lo smaltino, colore piuttosto inusuale, ottenuto macinando un materiale vetroso pigmentato con l’esito di una materia spessa e di un tono grigio bluastro, che però ossida sensibilmente girando verso il bruno» (41).
Infine una notazione sui numerosi pentimenti, di cui citiamo solo i più importanti: le diverse posizioni della mano dell’armigero che sorregge la lanterna; le significative correzioni dell’occhio, dell’orecchio e del braccio lungo il fianco del cosiddetto autoritratto; il fatto che dalla riflettografia si evince che alle spalle di Caravaggio, nello spazio ora buio era stato ideato un altro armigero ed in lontananza comparivano le silhouettes di due donne ora cancellate; e poi ancora il mutamento di posizione della mano di Pietro poggiata sulla spalla del Cristo; lo spostamento di circa 15 centimetri del mantello rosso di Giovanni e delle sue mani protese verso l’alto; tutti interventi che riguardano l’impostazione stessa dell’intera struttura compositiva e che sarebbero impossibili in una copia.
Per concludere, ripropongo con qualche piccola modifica, il mio saggio su I San Francesco in contemplazione del Caravaggio già da me pubblicato di recente su “About Art” (42). Entrando subito nel vivo dell’argomento sono almeno otto i S. Francesco in meditazione (o forse sarebbe meglio dire in contemplazione) catalogati da Giacomo Berra in una recente pubblicazione (43), vale a dire quello già della collezione Cecconi (fig.7), che io considero il prototipo autografo da cui derivano poi tutte le altre repliche o copie antiche;
quello ora presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini di Roma in deposito dalla chiesa di S. Pietro di Carpineto Romano (fig.8); quello della chiesa romana di Santa Maria della Concezione, nota anche come chiesa dei Cappuccini (fig.9);
quello di una collezione privata maltese; quello della collezione Lampronti e quello già nella chiesa del Suffragio a Sant’Arcangelo di Romagna, ed infine altri due in collezione privata (ma non è escluso che ce ne possano essere altri).
In particolare nella tela già della collezione Cecconi il Merisi si auto raffigura proprio nelle vesti di S. Francesco ed a questo proposito, prima di entrare nel merito del dipinto in questione, occorre aprire una breve parentesi. Caravaggio aveva per la propria immagine una vera e propria ossessione autobiografica, e le opere in cui egli in qualche modo si autorappresenta, in estrema sintesi, possono dividersi in tre categorie. Gli autoritratti veri e propri, nei quali il pittore si dipinge come era realmente al momento dell’esecuzione dell’opera, senza abbellimenti o forzature espressive. Le immagini idealizzate, a volte auto raffigurazioni più che autoritratti veri e propri; e infine i dipinti in cui l’artista esaspera espressionisticamente i propri lineamenti, presentandosi addirittura come reprobo o carnefice in una sorta di auto espiazione catartica dei propri peccati. Su questo aspetto rimando comunque a quanto ho già scritto nei miei numerosi interventi dedicati al pittore.
Un discorso a parte è quello relativo alle molte tele in cui il grande artista lombardo si identifica con la figura di S. Francesco. A questo proposito, già nel 1990 Alessandro Zuccari vi aveva dedicato pagine decisive, precisando che
«il pittore lombardo sembra aver fatto sue le istanze pauperistiche dei cappuccini non soltanto per ragioni di committenza, ma anche al motivo di una sua personale attrazione per quel filone di spiritualità che vedeva accomunate da vicendevoli simpatie figure autorevoli e popolari come Carlo Boromeo, Filippo Neri e Felice da Cantalice. Un indizio del suo interesse per il più povero degli ordini sorti nel Cinquecento è fornito da una testimonianza di Orazio Gentileschi che dichiarò-nel processo del 1603 intentato dal Baglione contro lo stesso Caravaggio-di aver prestato “una veste da cappuccino” al suo amico Merisi, che gliela restituì dopo alcuni mesi» (44).
Siamo esattamente il 14 settembre del 1603 ed il Gentileschi interrogato circa i suoi rapporti col Baglione e con Caravaggio e quando fosse stata l’ultima volta che li aveva visti risponde che è molto tempo che non parla col primo «perché nell’andare per Roma lui aspetta che io facci di berretta, et io aspetto che facci di berretta a me et anco il Caravaggio, se bene m’è amico, aspetta che io lo saluti et se bene me sono amici tutti doi ma non c’è altro tra noi; ma deve essere sei o otto mesi che io non ho parlato al Caravaggio, se bene à mandato a casa mia per una veste da cappuccino che gliela imprestai et un paio d’ale, che la veste deve essere da diece giorni che me la remandò a casa» (45).
Come è noto, è stato per primo il Cantalamessa già nel 1908 a mettere in relazione questa testimonianza col dipinto del S. Francesco in meditazione, e segnatamente con la versione della chiesa dei Cappuccini, da lui stesso scoperta, aprendo un dibattito critico incandescente che è tutt’ora in corso (46). Ma su questa questione torneremo più avanti.
E’ comunque sicuramente nell’ottica delineata da Zuccari che vanno inseriti i numerosi esempi in cui il nostro pittore non solo aderisce in modo generico alle istanze della spiritualità francescana ma addirittura si identifica, o se si preferisce si auto raffigura nelle vesti del santo d’Assisi, come ha osservato di recente Carla Rossi (47). Si tratta comunque non di autoritratti veri e propri, ma piuttosto di “autoidentificazioni” in cui il pittore, pur riprendendo nelle linee generali la propria immagine, ne muta di volta in volta alcuni particolari.
E così, il dipinto in cui l’autoidentificazione ed l’autoritratto vero e proprio vengono quasi a coincidere è proprio il San Francesco in contemplazione ex Cecconi, molto vicino, seppure in controparte, all’autoritratto che compare nel fondo del Martirio di S. Matteo di S. Luigi dei Francesi, anche qui con lievi differenze: la barba appena più lunga, il volto appena più emaciato. E come osserva ancora la Rossi «Il pittore, autoritraendosi tra i peccatori testimoni del martirio del santo, aveva già voluto sottolineare, attraverso il proprio sguardo carico di pietas per Matteo, la sua capacità di salvazione», ribadita ora, a non più di tre anni di distanza, nella tela oggetto della mia analisi.
Essa, infatti, per più di un motivo che analizzeremo ora nel dettaglio, va posta senza ombra di dubbio intorno al 1603 e non certo al 1606 che è la datazione ormai quasi unanimemente accettata per il dipinto di Palazzo Barberini. Iniziamo dall’analisi dello stile: il luminismo avvolgente, la morbidezza dell’impasto cromatico e della resa delle stoffe, come anche il particolare delle mani, analizzato fin nelle minime rughe con finezza descrittiva, avvicinano il nostro dipinto soprattutto al Sacrificio d’Isacco ora agli Uffizi; e si osservi ancora come il perfetto semicerchio della manica destra di Francesco sia identico a quello della piega della medesima manica di Abramo. Ma anche il S. Matteo e l’angelo di San Luigi dei Francesi (appena precedente) rivela notevoli concordanze stilistiche col dipinto ex Cecconi, mentre le tele databili intorno al 1606 presentano dei contrasti luministici e delle accentuazioni drammatiche estranee alla nostra tela e già presenti invece in quella ex Carpineto che è appunto del 1606.
E nella mia convinzione che il prototipo dei vari s. Francesco in contemplazione sia quello ex Cecconi sono confortato dal parere del massimo studioso della pittura del ‘600 italiano, sir Denis Mahon, che già il 7 gennaio 2007, in una lettera indirizzata all’attuale proprietario dell’opera, scriveva parole decisive al riguardo:
«Dear Mario, it was good to see the St francis you showed me, after its return from the Dusseldorf Caravaggio show where it was no. 8 in the catalogue. The results of the cleaning has been very positive, and the pentimenti revelead show that is, in my opinion, the original of the Cappuccini version at santa Maria della Concezione, and Carpineto Romano (now in Palazzo Barberini, Rome) versions».
Parere confermato da Claudio Strinati, che aggiunge anche come quella della collezione ex Cecconi «sia la più bella delle tre versioni esistenti e che raramente è stata esposta» (48).
Come del resto ribadisce anche l’ottima scheda di Clovis Whitfield, di cui vale la pena riportare un’ampia citazione:
«Le renouveau des vertus franciscaines, à la fin du XVI siècle, fut très énergique. La pauvreté et l’humilité revendiquées par les franciscains eurent beaucoup de succès auprès du peuple et de nombreux pentres répondirent au besoin, exprimé par les fidèles, d’une contemplation des vertus que le saint incarnait. Dans le present tableau, dont les repentirs révélés par un nettoyage récent montrent qu’il s’agit de la première version de l’interprétation du thème par le Caravage, l’artiste souligne l’humilité et la souffrance de l’homme que beaucoup considéraient comme un alter Christus, dans un paysage rocailleux, sans recourir aux éléments sensationnels, tels les stigmates, quel es protestants attaquaient violemment en raison de leur idolâtrie supposée. Le naturalisme développé par Caravage était en parfaite harmonie avec le besoin de réalisme défini par Roberto Bellarmino sous l’expression de “vera rei similitudo”… et chez le Caravage ce réalisme etait perçu notamment par des commanditaires tels quel les Mattei, comme une forme d’expression miraculeuse, bien plus impressionante que l’imitation minutieuse des détails proposées par la concurrence. Les Mattei semblent avoir possedé un Saint François de sa main, qui fit l’objet d’une évalutation bien plus élevée que celle de l’Arrestation du Christ vendue par la famille en 1802 (Dublin). Le réalisme développé ici est proche de celui de la Madone des pèlerins, conçu pour transmettre la simpicité de la pauvreté du saint. Cette version récemment découverte se caractèrise par des vastes repentirs visibles aux rayons X, qui illustrent les étapes de l’élaboration de l’image par le Caravage. La version qu’il peignit pour l’oratorien Francesco de Rustici, offerte ensuite aux moins capucins de l’église Santa Maria della Concezione, reprend la composition du prèsent tableau, et fu à l’évidence très appréciée par son commanditaire. Avec la version de Carpineto Romano, elle montre à quel point l’artiste fut recherché pour les sujets qui fire sa célébrité, par exemple celui, souvent répeté, du Jeune Homme à la corbeille de fruits» (49).
A proposito di questa analisi, gli unici punti in cui non concordo con Whitfield sono quelli in cui egli ritiene ancora la tela dei Cappuccini, ormai quasi unanimemente considerata una copia (50), sia pure molto antica e di alta qualità, come autografa del Merisi e ritiene altresì le differenti versioni del S. Francesco cronologicamente molto vicine l’una all’altra: a mio parere infatti, la tela ex Cecconi è del 1603, quella di Carpineto è del 1606 e la copia dei Cappuccini sicuramente posteriore a quest’ultima anche se non possiamo al momento stabilire di quanto.
Entrando ancora più nello specifico e ritenendo giusta, come credo, l’ipotesi del Cantalamessa di riferire proprio alla prima delle tre opere appena citate la testimonianza di Orazio Gentileschi del prestito a Caravaggio di un saio da cappuccini, possiamo collocare questo dipinto entro un arco di tempo che va all’incirca dal febbraio al settembre del 1603, mentre pensiamo che il Merisi abbia poi abbia ripreso a memoria l’immagine di S. Francesco nelle successive tele in cui si è occupato dell’Assisiate, e segnatamente nel San Francesco in preghiera della Pinacoteca Civica di Cremona e nell’altro San Francesco in contemplazione già a Carpineto Romano, entrambi del 1606.
Arrivati a questo punto possiamo avanzare anche un’ipotesi più che plausibile su chi sia stato il committente della tela ex Cecconi e tutti gli indizi portano al nome di Ciriaco Mattei di cui ci siamo ampiamenti occupati in precedenza. Già suo fratello, il cardinale Girolamo, infatti, era membro dell’Arciconfraternita del Gonfalone e protettore dei Francescani e del convento dell’Aracoeli, così come Ciriaco, amico personale, fra l’altro, di san Filippo Neri. Se poi aggiungiamo che Girolamo muore proprio nel 1603, allora possiamo anche supporre in via ipotetica che il S. Francesco in contemplazione possa essere stato commissionato dai parenti del cardinale come una sorta di ex voto per celebrare la sua devozione verso l’Assisiate. Infine non va trascurato il fatto che sempre presso i Mattei, in una stima dei beni di famiglia posteriore al 1802, viene citato un “S. Francesco di Caravaggio” del valore, altissimo, di 500 scudi (51).
Anche Francesco de’ Rustici, il committente della copia dei Cappuccini, era in stretto rapporto sia con i Mattei che con Caravaggio, e dal momento che nel suo pur utilissimo studio sull’argomento da me citato a nota 49 Marco Pupillo non riesce (perché impossibile) a collegare in alcun modo questa tela con quella di palazzo Barberini per stabilire come e quando essa avrebbe potuto essere stata copiata, allora l’idea che il de’ Rustici abbia potuto vedere l’originale caravaggesco proprio presso i Mattei e magari farlo copiare a Prosperino Orsi, definito già ab antiquo dal Baglione col termine ambiguo di “turcimanno del Caravaggio” ed in contatto anch’egli con la nobile famiglia romana, quest’idea dicevo, mi sembra più che verosimile, anche se non possiamo allo stato attuale stabilire quando tutto ciò possa essere avvenuto.
Tutte queste ipotesi circa la priorità del dipinto ex Cecconi rispetto alle altre versioni del medesimo soggetto diventano comunque certezze dopo aver preso visione delle indagini tecniche e radiografiche della tela,
che hanno evidenziato tanti pentimenti (non semplici correzioni) e di tale portata da rendere impossibile la circostanza di trovarsi di fronte ad una copia, come risulta benissimo dalla lucida scheda della restauratrice Silvia Cerio:
«Dagli esami diagnostici eseguiti sulla tela sono apparsi evidenti aspetti molto interessanti riguardo alla tecnica pittorica. E in questo senso appare ben leggibile il processo del pittore, abile ad evolvere e piegare il disegno all’impeto creativo che si manifesta libero dai vincoli di un disegno predefinito, mentre la composizione si adatta progressivamente ai limiti della tela per raccontare meglio allo spettatore l’emozione del racconto. La figura del santo avvolge il teschio portandolo a sé: questo movimento è evidenziato nella sua progressione dallo spostamento del punto vita con il cordone più volte segnato con inclinazione diverse. La manica destra, in primo piano, ha lunghezze e pieghe modificate. Il cappuccio del saio cambia leggermente forma. Queste correzioni ci raccontano l’evolversi di un gesto del santo che attira a sé, in un profondo empito di compassione, il teschio.
Ed ancora:
L’area del teschio stesso, invece, ci racconta un altro momento creativo: sotto la pellicola pittorica si rilevano delle tracce molto leggibili di un libro, come se all’inizio il pittore avesse immaginato che il santo mediasse la meditazione sulla morte del Cristo attraverso il Vangelo e poi, in una fase successiva, avesse scelto un colloquio più diretto. Forse, nella fase “del libro”, il teschio era abbozzato in basso a destra sotto la croce, dove ora è raffigurato un sasso. Osservando le radiografie, però, si intuiscono le ombre delle orbite. Infine, i bracci della croce lignea sono stati spostati con una prospettiva più esasperata verso lo spettatore per coinvolgerlo nella scena. In conclusione, la prima immagine pensata dal pittore ha una struttura più ferma e didascalica che si trasforma nell’avvenimento fortemente emozionale di quella finale».
E va inoltre sottolineato come anche la posizione della testa del santo risulti spostata verso destra nella versione finale, così come, sotto il saio, tra la croce ed il braccio si intravede un ginocchio, segno evidente che l’intera postura di Francesco era stata concepita in un primo momento in modo affatto differente.
Più che di semplici pentimenti siamo dunque in presenza di una vera e propria ridefinizione, plastica e poetica, dell’intero dipinto, del tutto impossibile con una copia; alcuni pentimenti, sia pure marginali, li ritroviamo invece nella versione di Palazzo Barberini, compatibili in questo caso con una replica autografa dipinta a qualche anno di distanza; nessun pentimento, infine, compare nella tela dei Cappuccini, proprio perché si tratta di una copia, sia pure antica e di ottima qualità.
Riassumendo, le ricerche documentarie, le indagini diagnostiche ma soprattutto quello che il grande Roberto Longhi definiva “il documento di prima”, ossia un’indagine stilistica e formale condotta senza pregiudizi e avendo davanti agli occhi il dipinto e non una sua riproduzione fotografica spesso scadente, tutti questi elementi convergono nel ritenere il San Francesco in meditazione ex Cecconi come il prototipo, mentre il dipinto ora a palazzo Barberini, molto probabilmente eseguito mentre Caravaggio, in fuga da Roma, era ospite dei feudi Colonna a Paliano è una replica, comunque autografa e di ottima fattura, naturalmente eseguita a memoria (cosa che comunque il Merisi faceva spesso) e senza avere il modello davanti agli occhi, il che spiega anche, come ho appena ricordato, le leggere differenze esistenti tra le due versioni.
Su come, quando e perché l’opera sia poi finita a Carpineto Romano, nonostante il profluvio di pagine scritte sull’argomento (52), non è stata ancora scritta la parola definitiva ed è del resto un problema che esula dalle finalità del presente saggio.
Sergio ROSSI Roma 16 settembre 2020
NOTE