di Francesca SARACENO
Uno sguardo al documento che potrebbe avvalorarne l’autografia.
Quella qui di seguito è la scheda – più un piccolo saggio, in realtà, aggiornato allo stato attuale delle indagini sul dipinto – che ho avuto l’onore di redigere per il catalogo della mostra I capolavori delle collezioni private, tenutasi al Museo della Permanente DART a Milano nel giugno del 2021. Sono stata scelta, circa un anno fa, dai protagonisti di questo fortunato ritrovamento, come custode privilegiata di una storia davvero avvincente, e a loro va la mia più profonda gratitudine.
La recente pubblicazione su AboutArt ( cfr https://www.aboutartonline.com/la-maddalena-addolorata-o-piangente-un-inedito-documento-ne-certifica-lattribuzione-a-caravaggio/) da parte di Fabio Scaletti di un documento d’archivio, che sembrerebbe avvalorare l’ipotesi dell’autografia (non ancora unanimemente riconosciuta) per questo dipinto, mi auguro serva da apripista per nuove e più approfondite indagini, archivistiche e storiografiche, che facciano luce su quanto ancora persiste di indefinito o incerto, così da pervenire, qualora ve ne fossero le condizioni, a un’ampia convergenza sulla paternità caravaggesca di quest’opera, che certamente al momento va considerata un unicum nel corpus dell’artista.
La Maddalena addolorata (fig. 1) è un’opera enigmatica per l’originalità e unicità del personaggio raffigurato. Un dipinto che emana un’intensità emotiva incredibile. Ha un’imponenza scenica perentoria, un tono drammatico viscerale.
È un quadro che trasuda, rivendica, urla… “Caravaggio!” Non fosse altro che per il soggetto trattato, che ritroviamo identico – perfino nella scala di riproduzione – nella Morte della Vergine (fig. 2) conservata al Louvre. L’aderenza della figura ritratta nel dipinto con il suo corrispettivo nella pala parigina è pressoché palese al primo sguardo.
Maddalena e la sua seggiola di derivazione pamphiljana riemersero dal buio dell’oblio il 4 maggio del 2002 a un’asta a Vichy, in Francia, con il vago titolo di École caravagescque du XVIIème, huile sur taile, “Femme”.
La notò un antiquario romano che vi riconobbe immediatamente l’identico soggetto della grande pala d’altare del Louvre. Nonostante la sorpresa, l’antiquario non pensò subito a un dipinto autografo ma non lo escluse a priori. Decise di acquistarlo e se lo aggiudicò a buon prezzo. Nei mesi successivi all’acquisto mostrò il dipinto a diversi esperti e personalità del mondo accademico, ma nessuno si espresse apertamente per l’autografia. La maggioranza vi riconobbe una indubbia qualità, nonostante le non ottime condizioni della materia pittorica, un evidente caravaggismo nella resa stilistica e una datazione compatibile con l’attività romana del Merisi. Qualcuno si spinse fino a definirlo “interessante…”. Nonostante le iniziali perplessità, il dipinto venne comunque acquistato dall’attuale proprietario e fu fatto eseguire un primo intervento di ripulitura, dal quale la figura ritratta iniziò a emergere in tutta la sua intensa bellezza. Negli anni successivi l’opera venne studiata meglio; furono condotte indagini scientifiche dal Centro per la Diagnostica di Formello e poi nel 2008 dal centro M.I.D.A. dell’Ing. Claudio Falcucci, con strumentazioni apposite.
Le analisi sulla tela, che misura 112 x 92 cm, evidenziarono che essa è composta da tre teli cuciti insieme; due in verticale di tessitura a trama di diverso spessore (la parte sinistra presenta un’armatura di 8×9 fili per cm, la parte destra da 13×13 fili, quindi probabilmente materiale riciclato) e una striscia cucita in orizzontale, sulla parte alta del dipinto, di circa 7 cm, che sembra essere stata aggiunta, forse nel XIX secolo, per ottimizzare lo spazio compositivo e dare più respiro alla figura. Si evidenziò inoltre, un’altissima qualità della pittura, rapidità di esecuzione, alcune incisioni (una tra il vestito e la schiena, l’altra a circoscrivere la testa della figura) e pentimenti (una diversa posizione della testa e del braccio sinistro, le dita della mano destra prima interamente visibili e successivamente nascoste da una ciocca di capelli) come riscontrato spesso in molte altre tele del Merisi. La mano destra della figura emerge in questo dipinto meglio illuminata che nella pala del Louvre. Il fazzoletto ha toni verdastri ed è molto definito mentre nella pala risulta quasi indistinto; inoltre presenta una curvatura accentuata nel lembo più illuminato mentre risulta più verticale nel dipinto parigino.
Si nota un diverso taglio di luce sulla mano destra: nella pala del Louvre piuttosto alto e acuto, nel dipinto singolo con una diagonale più bassa. Diversa è anche la resa dei panneggi in prossimità del ginocchio sinistro e della sedia. Le pieghe sul collo della donna, visibili nel quadro singolo, non sono presenti nella figura della pala parigina. La bretella del corpetto risulta maggiormente definita ed evidenziata nel dipinto rispetto alla pala. Gli studi sulla tela hanno mostrato, inoltre, lo stesso tipo di preparazione, materiali, pigmenti e crettature riscontrati in altri dipinti del Merisi, in particolare quelli del suo tardo periodo romano e primo napoletano. Infine, è piuttosto significativo che la sedia sulla quale è seduta la donna, secondo quanto evidenziato dalle indagini diagnostiche, in prima battuta sia stata dipinta quasi per intero e dopo vi sia stata sovrapposta la figura umana; il che risulta perfettamente in linea con il modus operandi del Caravaggio.
Tutti questi elementi fanno pensare a un quadro assolutamente autonomo ed escludono l’ipotesi di una copia che, seppure come estrapolazione parziale di un dipinto più elaborato, sarebbe pressoché identica al prototipo e non recherebbe variazioni sostanziali come in questo caso. Ma per lo stesso motivo credo si possa escludere anche la teoria di un “bozzetto” realizzato per essere sottoposto al vaglio di una eventuale committenza. Considerato il chiaro riferimento alla Morte della Vergine, ovvero una pala d’altare, destinata alla visione pubblica, il dipinto in oggetto avrebbe dovuto rappresentare l’intera composizione o, comunque, una porzione cospicua di essa. Un committente che avesse ordinato una pala d’altare non si sarebbe mai accontentato di valutare solo una porzione del progetto e per di più non raffigurante il soggetto protagonista; anche perché, commissioni di questo tipo, normalmente riportano anche indicazioni specifiche riguardanti la tematica del dipinto, l’iconografia, la quantità e identità delle figure ritratte, l’ambientazione, ecc.
Tutti elementi ai quali l’artista deve necessariamente fare riferimento.
Il bozzetto da sottoporre al vaglio di una ipotetica committenza sarebbe servito proprio a verificare che l’artista si stesse attenendo alle disposizioni contrattuali. L’ipotesi del dipinto singolo di produzione precedente alla pala del Louvre iniziò a farsi strada quando il professor Francesco Petrucci, direttore del Museo del Barocco Romano di Palazzo Chigi in Ariccia, uno dei primissimi esperti che avevano visionato l’opera (prima e dopo e il restauro) e propensi a sostenerne la paternità, cercò una sponda presso alcuni esimi studiosi e storici dell’arte, trovando supporto nei pareri autorevoli di Denis Mahon e Mina Gregori, oltre che di don Alessio Geretti, Ludovica Sebregondi e Pier Luigi Carofano, i quali esclusero l’ipotesi di una copia, data l’evidente imponenza espressiva del soggetto e l’esito dei rilievi diagnostici che, come abbiamo visto, avevano evidenziato tutte le caratteristiche di un’opera autonoma (variazioni, incisioni, pentimenti) e si espressero, quindi, per l’autografia. Col supporto di tali eminenti pareri, Petrucci pubblicò un suo saggio dal titolo Una Maddalena addolorata del Caravaggio sulla rivista “Paragone” nel settembre del 2004.
Insieme alle analisi scientifiche sul dipinto, furono condotte anche ricerche d’archivio per trovare elementi che potessero avvalorare la tesi dell’autografia. Partendo dai documenti disponibili sulla Morte della Vergine oggi al Louvre si consolidò maggiormente l’idea che il dipinto non potesse essere una copia e prese corpo l’ipotesi dello “studio” di figura.
Com’è noto, la pala d’altare indicata dal Bellori come Trapasso della Madonna, venne commissionata a Caravaggio nel 1601 e fu eseguita tra il 1605 e il 1606. Rimase pochissimo nella cappella del committente, Laerte Cherubini, in Santa Maria della Scala a Roma; giusto il tempo di accorgersi dell’effetto deflagrante che avrebbe avuto un’iconografia così poco ortodossa, e subito dopo fu rifiutata. Quindi venne immessa sul mercato. Provò ad acquistarla il medico e collezionista senese Giulio Mancini ma alla fine la spuntò Pietro Paolo Rubens per conto del duca di Mantova, Vincenzo I Gonzaga, che se l’aggiudicò per 280 scudi. Il duca avrebbe voluto che il dipinto gli fosse inviato subito dopo l’acquisto, soprattutto per impedire che fosse copiato, ma le continue richieste da parte dei colleghi del Caravaggio, impazienti di poter vedere quest’opera così “chiacchierata” e straordinaria (al punto da essere tirata giù dal suo altare…), costrinsero Giovanni Magni, ambasciatore del Gonzaga a Roma, a tenerla esposta nel suo palazzo per una settimana dal 7 al 14 aprile 1607. Un periodo di tempo comunque piuttosto esiguo per permettere a un qualunque copista di riprodurre l’opera anche solo in una sua parte, fermo restando il divieto assoluto imposto dal Gonzaga di far copiare il dipinto.
La pala, com’è noto, nel 1627 passò nelle mani di Carlo I d’Inghilterra per poi approdare nel 1649 alla corte di Luigi XIV, in Francia, dove rimase. Furono eseguiti alcuni disegni e una copia (attribuita a Simon Vouet) che comunque riproducono l’intero dipinto, non la sola figura della donna in sedia o altre parti singole del quadro. Né si conoscono, a oggi, altre copie o disegni o incisioni di questo particolare della pala caravaggesca. Peraltro, le varie versioni del soggetto “Maddalena” dipinte negli anni dal Caravaggio e di cui abbiamo notizia dalle fonti biografiche e documentali, o sono semplicemente indicate come “Maddalena”, e dunque ben poco identificabili, o sono molto diverse dalla figura ritratta nel dipinto in oggetto. Una è, ad esempio, la Maddalena in estasi versione Klain intorno alla quale ruotano innumerevoli copie di soggetti analoghi tra cui quella ritenuta autografa da Mina Gregori nel 2014; abbiamo poi una Maddalena dipinta a Malta non ancora identificata; una Maddalena, “nuda e scapigliata nel deserto”, presente negli inventari della famiglia Giustiniani anch’essa mai ritrovata. In ogni caso, nessun dipinto con caratteristiche anche solo lontanamente riconducibili a questo. Infine, un altro “dipinto di S. Maria Maddalena senza cornice del Caravaggio”, attestata nel lascito testamentario di Giovan Battista Tomassini del 1674, con inventario redatto da Bernardino Cesari (figlio del cavalier d’Arpino), noto intenditore e serissimo inventarista, per il quale si è considerata la possibilità che si possa indentificare con la nostra Maddalena addolorata.
Ma il documento (fig. 3) che sembrerebbe attestare con un buon margine di credibilità la paternità dell’opera, è stato rinvenuto nel 2019 all’Archivio di Stato di Roma, come foglio sciolto all’interno di uno dei protocolli dell’Officio 37, contrassegnato dalla segnatura “51”, rogati tra il 1601 e il 1612 dal notaio Giuseppe Frasciante (fig. 4). Il foglio è oggetto della recente pubblicazione su AboutArt da parte di Fabio Scaletti.
Questo il testo del documento:
“Ill. Sig de Renes, come volevasi su sua indicatione, si vide giovedì scorso il quadro del Caravaggio raptnte una dona piangente assisa colla faccia ascosa, di palmi cinque per alto. La tela fu tenuta per opera buona dal Donadei, da voi istesso nominato. In quanto al prezzo, s’è risolto per 80 scudi, ma si doverà altri dieci per la mancia al pittore qual credo sarà di vostra sodisfatione. Secondo il vostro ordine, disporrò la lettera de credito da voi mandatami.
di Roma li 28 novembre 1607
Jacopo Fossano”
Sembrerebbe, quindi, che il dipinto sia stato acquistato, mentre Caravaggio era in esilio (poco tempo dopo la vendita della Morte della Vergine) da un non meglio identificato personaggio, l’Ill. Sig de Renes, probabilmente di nazionalità francese, per una somma piuttosto cospicua.
Un primo studio condotto dalla dottoressa Nadia Bagnarini nel giugno del 2019, aveva appurato l’identità di alcuni personaggi in esso menzionati. Riguardo il de Renes, dall’Archivio capitolino era emerso solo il conto del sarto romano che per lui aveva confezionato diversi capi di abbigliamento. Jacopo Fossano risultò essere anch’egli di nazionalità francese, indicato come “Giacomo Fossano Parisiensis” in un documento d’archivio datato 15 dicembre 1606. Fossano fu suocero, nonché curatore finanziario, di un certo Antonio Noisot (o Noizzotto), per conto del quale tenne una sorta di registro delle spese, ritrovato proprio alla fine del protocollo che conteneva il foglio sciolto. Il Donadei, a cui fu affidata la perizia sul dipinto, è identificabile, probabilmente, con l’artista “indoratore” Fabio Donadei, che nel 1602 aveva lavorato alle rifiniture degli affreschi del Cavalier d’Arpino presso Villa Aldobrandini a Frascati, e che nel 1606 aveva bottega a Sant’ Agostino.
Da una prima analisi del testo del documento si nota anzitutto che il soggetto del dipinto non viene indicato precisamente come “Maddalena” ma più genericamente come “dona piangente assisa colla faccia ascosa”; ciò potrebbe voler dire che il dipinto, evidentemente sul mercato, non veniva proposto come soggetto sacro e che quindi, probabilmente, non era stato concepito con l’idea che quella figura dolente dovesse intendersi come una “Maddalena”. Il che avvalorerebbe l’ipotesi del dipinto nato senza uno scopo preciso e che solo in seguito, l’artista avesse deciso di inserire la figura ritratta nella pala della Morte della Vergine. Inoltre, si potrebbe ipotizzare che il de Renes avesse già chiaro l’oggetto del suo acquisto.
L’aspirante compratore francese avrebbe potuto già aver visto (durante un possibile soggiorno romano, dal momento che in città aveva anche un sarto) o essere in qualche modo venuto a conoscenza del dipinto, poiché nella lettera, il Fossano dice di agire “come volevasi su sua indicatione”; ma trattandosi verosimilmente di un collezionista, è anche probabile che, come spesso accadeva, lasciasse al suo agente la discrezione sulla scelta delle opere da acquistare.
Tuttavia è lo stesso de Renes che risulta aver assunto il perito Donadei (“da voi istesso nominato”), e questo farebbe pensare ad un suo coinvolgimento più diretto nell’affare. In ogni caso, l’esistenza stessa della lettera, indica che il de Renes doveva essere in quel momento in Francia (forse rientrato dopo l’ipotetico soggiorno romano) e che avesse lasciato a Fossano il compito di condurre la trattativa sul prezzo da pagare per il dipinto, nonché il compenso da corrispondere al perito Donadei. Spese per le quali aveva già inviato a Fossano una “lettera de credito”, che l’agente si preparava a disporre “secondo il vostro ordine”.
Servirebbe capire “da chi” il de Renes stesse acquistando il dipinto del Caravaggio. E sarebbe, questa, un’informazione fondamentale, perché la descrizione che, nel documento, viene data del soggetto raffigurato sulla tela, con dovizia di particolari e recante il nome di Caravaggio come esecutore, non lascerebbe margine di dubbio: corrisponde, in effetti, alla Maddalena addolorata. Ma è chiaro che, in assenza di ulteriori notizie, né di altri quadri conosciuti recanti il medesimo soggetto (autografi o copie), a cui fare riferimento per un opportuno confronto, resta problematico stabilire che il documento rinvenuto si riferisca solo ed esclusivamente a questo dipinto. In ogni caso, l’aderenza della descrizione fornita nel documento alla figura rappresentata nel dipinto è un dato assolutamente incontestabile, così come il riferimento alla misura di “cinque palmi per alto” che quasi del tutto corrisponde.
Fermo restando che, sia nel periodo dell’esilio che dopo la sua morte, l’attribuzione a un pittore ricercatissimo come Caravaggio, di dipinti stilisticamente riconducibili alla sua mano, era pratica furbesca ma diffusa, oltre che fruttuosa; così come, anche quando non vi fosse stato “dolo” nell’attribuzione, un dipinto di impronta “caravaggesca”, in documenti e inventari, poteva essere indicato sommariamente come “Caravaggio”, pur senza volerne definire l’autografia. Cionondimeno, il documento del 28 novembre 1607 parla di un “quadro del” Caravaggio, e dunque, nonostante i dubbi legittimi e le perplessità che possono sussistere sull’opera e sul documento, ritengo che entrambi meritino un serio e approfondito studio in ambito scientifico.
In ogni caso, che il dipinto avesse suscitato un tale interesse da essere venduto a un prezzo notevole, certifica – se non altro – il valore sul mercato delle opere del Caravaggio e il grande prestigio di cui il pittore godeva, nonostante le sue vicissitudini personali. D’altra parte i riferimenti presenti nel quadro sono riconducibili alla più alta e potente produzione artistica caravaggesca, a cominciare dalla Maddalena penitente conservata alla Galleria Doria Pamphilj che piange pentita e riconoscente su una seggiola molto simile a quella raffigurata in questo dipinto, fino alla Maddalena in piedi, affranta, dietro al Cristo morto della Deposizione, dalle quali con ogni evidenza il Merisi trasse l’idea “di sintesi” che questa singola figura estremamente dolente rappresenta. Il soggetto sacro è lo stesso, la seggiola è un’idea mutuata dalla tela Pamphilj, la modella (o la tipologia di donna) è decisamente quella della pala dei Musei Vaticani. Come si possa spiegare però il “ruolo” di questo dipinto nella produzione artistica del Caravaggio, se una replica parziale o un soggetto a sé stante, è stato argomento dibattuto dagli studiosi che ne hanno valutato la possibile autografia.
Le dimensioni, come accennato 112 x 92, risultano essere perfettamente in scala con l’identica figura presente nella pala del Louvre, alla quale questa Maddalena è pressoché sovrapponibile. Anche per questo motivo Denis Mahon, in una scheda datata 22 aprile 2004, inviata all’attuale proprietario dell’opera, la definì un “try-out del maestro per la stessa figura nel grande quadro”; ovvero uno studio di figura in scala, dipinto però probabilmente come soggetto a sé stante, forse nello stesso periodo in cui venne eseguita la Morte della Vergine e che, a un certo punto, per qualche motivo, Caravaggio decise di inserire nella composizione della grande pala d’altare; come oggi sembra confermare il testo del documento rinvenuto. E se, tra le altre cose, venisse dimostrato che il periodo di esecuzione del dipinto è precedente o contestuale a quello della pala del Louvre, la tela della Maddalena addolorata potrebbe ipoteticamente rientrare tra quelle menzionate nell’inventario dei beni sequestrati al pittore il 26 agosto 1605, in seguito alla denuncia per insolvenza operata dalla sua locataria Prudenzia Bruni, ossia:
“un quatro […] due quadri grandi da depingere”, “tre altri quadri più piccoli”, “tre talari grandi […]”.
Ebbene, escludendo i due “quadri grandi da depingere” e i “tre talari grandi”, che per dimensioni non sarebbero assimilabili al nostro dipinto, tra “un quadro” e i “tre altri quadri più piccoli”, si può ipotizzare che alcuni fossero già dipinti, e dunque vendibili. Tra questi potrebbe, forse, inserirsi la Maddalena addolorata.
Le indagini diagnostiche eseguite sulla pala del Louvre nel 2006, che nella parte riguardante la donna seduta in primo piano evidenziarono l’assenza di incisioni o pentimenti e, in sostanza, una “sicurezza” di esecuzione piuttosto evidente, mostrarono che una figura nello spazio occupato dalla Maddalena era effettivamente prevista. È come se l’artista avesse costruito la sua scena intorno a quello spazio dove poi pose la sua Maddalena in lacrime, la cui figura è l’unica che, a bene vedere, può essere inserita o rimossa senza inficiare l’armonia della composizione.
Un dipinto dunque più che mai imponente, questo, estremamente curato, definito in molti dettagli anche più di quanto non lo sia l’identico soggetto nella pala del Louvre; il che farebbe pensare a un quadro pensato singolo ma che per dimensioni, composizione e riferimenti stilistici potrebbe anche essere stato eseguito in vista di un lavoro più esteso.
Sarebbe il primo “studio” conosciuto di un pittore del quale si è sempre detto che “non disegnava mai” né che preparasse bozzetti. La qual cosa, a prescindere dall’autografia o meno di questo dipinto, risulta davvero impossibile se pensiamo che già per le prime opere pubbliche (le tele Contarelli, le tele Cerasi e la stessa Natività palermitana), come da prassi e come risulta anche dai documenti d’archivio, le committenze chiesero espressamente all’artista dei bozzetti preliminari da approvare; e in ogni caso, composizioni complesse e articolate come quelle, come la stessa Morte della Vergine o le Sette opere della Misericordia o la Resurrezione di Lazzaro, eseguite su piani sovrapposti e con molte figure al proprio interno, avrebbero necessitato di modelli in presenza tutti insieme, in posizioni spesso scomodissime per ore e giorni fino a che l’artista ne avesse avuto bisogno. È invece molto più probabile (oltre che logico) che egli eseguisse dei lavori preparatori (eventualmente col modello in presenza) in cui definiva struttura, geometrie e suddivisione degli spazi e, per le figure principali o quelle più complesse, con un dinamismo più accentuato, preparasse degli studi in scala del tutto aderenti al soggetto da dipingere, così da averli pronti quando fosse stato il momento di inserirli nella composizione.
Questa Maddalena addolorata, trattata in tutto e per tutto come un dipinto autonomo, pensato e prodotto come opera a sé, incredibilmente potente per il tono drammatico, il pathos, l’accentuato realismo nella evocazione del dolore, totalmente scevro da qualunque connotazione “teatrale” o enfatica, potrebbe essere “diventata” uno studio nel momento in cui Caravaggio si accorse della straordinaria potenza di questa figura che avrebbe conferito alla sua pala d’altare una tensione emotiva altissima. Non dimentichiamo che, nonostante si continui a dare credito ai tendenziosi biografi del Merisi sulla storia del rifiuto occorso alla pala del Louvre, per aver ritratto la Vergine con le sembianze di una prostituta annegata nel Tevere, il vero problema di quel dipinto fu probabilmente di carattere iconologico.
Quella Vergine del Caravaggio “non era morta come doveva”, ovvero l’artista non si era attenuto all’iconografia tradizionale della “Dormitio Virginis” in cui Maria si addormenta in Dio per poi assurgere al Cielo in anima e corpo, ma aveva ritratto una Vergine irrimediabilmente morta. E che fosse irrimediabilmente morta lo attestavano proprio le espressioni estremamente dolenti dei convenuti al triste evento, ovvero gli apostoli e, per l’appunto, quella Maddalena senza volto, il cui dolore acuto, feroce al punto da farla ripiegare su se stessa, non lasciava presagire alcuna possibile “resurrezione”.
Una figura profondamente umana, monumentale nella sua fragilità, per la quale Caravaggio sembra provare una tenerezza quasi parentale, con quella tenerissima ciocca scomposta che le sfugge sulla nuca e strappa una carezza a ogni sguardo. Quel volto che Caravaggio affonda nell’ombra, nel buio pesto della disperazione, è come un interruttore che spegne ogni speranza. E in questo dipinto non c’è altro che quella disperazione e, per l’appunto, il buio, tutto intorno. La luce che piove dall’alto, forse proprio da quel lucernario che l’artista aveva aperto nel soffitto dell’appartamento di Prudenzia Bruni in vicolo di San Biagio, serve solo a palesare all’osservatore l’espressione “definitiva” del dramma.
E forse Caravaggio la volle lì, Maddalena, seduta sulla sua seggiolina come la prima volta nella tela Pamphilj, come la seconda a piangere di nuovo con in mano lo stesso fazzoletto che aveva nella Deposizione, proprio a incarnare l’essenza stessa del dolore, perché nel “suo” ordine delle cose, la perdita di una madre – anzi della Madre – non è evento umanamente risolvibile con la sola idea della resurrezione. Qualunque soggetto sacro abbia dipinto Caravaggio lo ha sempre interpretato dal punto di vista umano, non tanto per reale empatia quanto per una specifica esigenza artistica: dipingere “dal naturale” anche i sentimenti. Forse è per questo motivo che la Maddalena addolorata si ritiene uno “studio”, un quadro che l’artista dipinge inizialmente per se stesso, per fissare sulla tela un’idea assolutamente personale; d’altra parte è difficile pensarla come un soggetto eseguito su commissione (non ci sono, al momento, riscontri documentali).
La figura ritratta, presa da sola, non reca un’iconografia tale che la caratterizzi in modo da renderla riconoscibile come “Maddalena” e vendibile in quanto tale; né, come abbiamo visto, se ne fa accenno nel documento del 28 novembre 1607. L’unico riferimento potrebbe essere costituito dall’acconciatura, quelle trecce raccolte che nell’antica Roma portavano le giovani spose. Trecce che ritroviamo quasi identiche anche nella Maddalena piangente della Deposizione, che Caravaggio posiziona in maniera strategica, esattamente accanto alla Vergine e dietro al Cristo morto; il suo “sposo celeste”, da cui, per la Maddalena, l’appellativo di sponsa Christi. E da cui la possibilità per il soggetto di essere inserito successivamente anche nella pala d’altare della Morte della Vergine in quanto componente della “famiglia” e in quanto unica donna preposta alla composizione della salma dopo il trapasso. Ma è chiaro che questo genere di immagine non poteva arrivare immediata come “Maddalena” se non all’interno di quel particolare contesto; singolarmente sarebbe risultata molto meno identificabile.
Ed è per questo, forse, che il documento del 28 novembre 1607 non lo identifica come soggetto sacro. In questo caso specifico Caravaggio la sua Maddalena non “la finse” ponendole accanto monili e unguenti come nella tela Pamphilj perché la sua identità fosse ravvisabile (e dunque anche “commercializzabile”), ma non è escluso che possa averla pensata appositamente per un ruolo di primaria importanza. Un’intuizione, un lampo, uno squarcio dell’anima… chi può dirlo? Ciò che ne scaturì fu un dipinto eseguito con estrema attenzione e risultato talmente intenso da meritare un respiro più ampio. E a ben vedere nella pala del Louvre la figura della Maddalena in lacrime, in primo piano, risulta se possibile anche più protagonista della stessa Vergine.
Da quale orizzonte abbia tratto la sua “visione” il Merisi non è dato sapere, ma è come se l’artista avesse voluto fissare un’idea, reinterpretare un ricordo e fermarlo in una figura potente, sulla quale il tempo non avesse lasciato traccia. Come se la redenzione evocata in quella prima stesura pittorica (la tela Pamphilj) ne avesse fermato l’azione corruttiva sul corpo. Caravaggio pone quel soggetto su una seggiola simile. Le rimette in mano il fazzoletto e indosso lo stesso vestito che aveva nella Deposizione e ne fa una figura intimamente afflitta, come in uno step successivo a quel momento della redenzione dov’era stato il sentimento di commossa gratitudine a prevalere, passando per l’atroce distacco dall’amato Maestro, mentre qui è la “summa” di tutto. È dolore profondo, viscerale. Quel genere di dolore che ti piega e ti contorce fino a prostrarti. Ineludibile al punto da volerne eternare la memoria e riverberare la potenza in quella incredibile pala d’altare che fu la Morte della Vergine.
Il presente saggio, certamente non vuole avere carattere assertivo (soprattutto rispetto alla esegesi del documento del 28 novembre 1607 che, com’è ovvio, necessita di opportune conferme), ma si propone soltanto come ulteriore sguardo analitico su un’opera che, a mio avviso, merita senz’altro grandissima attenzione, nella speranza che studiosi e ricercatori accreditati possano portare avanti studi storiografici e indagini documentali che possano far luce sulle vicende relative al dipinto.
Francesca SARACENO, Catania, Ottobre 2022.
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA