di Valentina CERTO
Francesco Susinno, cappellano della chiesa di S. Cristoforo, nelle Vite de’ pittori messinesi[1] manoscritto del 1724, dedicò una importante biografia a Caravaggio. Il manoscritto si trova al Kunstmuseum di Basilea ed è composto da 295 fogli compresi diciannove disegni, di cui diciassette si trovano all’inizio della “vita” corrispondente.
La prima attestazione delle Vite è quella dello storico Caio Domenico Gallo che per la stesura del tomo II degli Annali della città di Messina, edito nel 1756, disse di aver visto e consultato una copia autografa dell’opera presso Luciano Foti.
Il prezioso manoscritto messinese in seguito fu venduto a Achille Ryhiner, amico di Winckelmann ed instancabile viaggiatore. Da qui, giunse al Kunstmuseum di Basilea dove fu scoperto e pubblicato, nel 1960, a cura di Valentino Martinelli. Scomparso dunque per duecento anni, da qualche decennio è tornato alla luce e si presenta come la più interessante testimonianza per conoscere il dibattito critico-artistico. Susinno, infatti, non si presenta semplicemente come storico, ma anche come pittore, come appassionato d’arte, come critico che discute e scrive in base a ciò che ha visto, sentito e studiato. Le vite sono un testo, quindi, biografico e critico. Un testo in cui emerge la visione artistica dello scrittore, improntata in primis, sia per la formazione che per il suo “mestiere” di religioso, sull’elogio del classicismo e del manierismo.
Susinno, come riferì Caio Domenico Gallo negli Annali, nacque tra il 1665 ed il 1670 e studiò filosofia, pittura a Roma, presso la scuola di Carlo Maratta, ed Napoli e sicuramente, per scrivere la sua opera, si recò “nei centri maggiori e minori della sua isola e probabilmente nella vicina Calabria”[2], per dare informazioni dettagliate, anche di carattere tecnico, su molte opere e molti artisti che operarono nella città di Messina da Antonello da Messina fino a Filippo Tancredi detto il Giordano della Sicilia.
Essendo artista, nella sua opera commentò lo stile, l’uso dei colori e dei materiali delle opere, riconobbe le varie scuole e non mancò di confrontare molti dipinti tra di loro non solo dello stesso artista ma anche di pittori diversi seppure affini per individuare e stabilire presunte autografie.
Per quanto riguarda la biografia sul Caravaggio, Susinno trasse molte informazioni da Giovan Pietro Bellori[3], specie sul concetto di maniera intesa come coincidenza con i canoni della poetica classica di natura accademica e ancora come graziosità e gentilezza dalle quali Caravaggio si discostava. E si ispirò, soprattutto per quanto riguarda il periodo romano, alla biografia di Baglione.
Così come il ritratto del pittore delle biografie del Susinno, purtroppo, non presenta nessuna novità rispetto ai precedenti, anzi risulta un buon disegno ricalcato quasi interamente dal ritratto delle Vite di Bellori[4] del 1672, tratto da un disegno di Ottavio Leoni, in cui Caravaggio fu raffigurato con la croce di Malta, ma senza la mano che impugnava l’elsa della spada. Forse Susinno considerava Bellori come unica fonte attendibile del Caravaggio, o forse mancava in città un ritratto del pittore a cui ispirarsi.
Susinno, pur considerando il Merisi pericoloso esempio ai giovani, non mancò di lodarne le opere messinesi, anzi riferì aneddoti che non essendo sempre di veridicità e precisione storica, dimostrano come l’ambiente artistico (e non) siciliano a distanza di una secolo ne avesse ben presente la figura.
Per quanto riguarda il soggiorno messinese dell’artista scrisse che fu chiamato in città per essere “impiegato per alcuni lavori”. Menzionò come prima opera La Resurrezione di Lazzaro, informandoci che fu commissionata “da certi signori ricchi di casa Lazzaro” per un prezzo di mille scudi e che fu proprio il Caravaggio a suggerirne il soggetto che “ideossi” l’iconografia. Se così fosse si ha testimonianza del fatto che il pittore avesse molta libertà di esecuzione non solo per quanto riguarda lo stile ma anche per l’iconografia e che la sua fama doveva essere così grande da giustificare un così alto ed esorbitante compenso, mai avuto prima d’ora.
Nel primo documento riguardante la cappella, nella chiesa di San Pietro dei pisani retta dai Padri Crociferi, il quadro voluto e desiderato dal committente era molto diverso, dal momento che doveva rappresentare la Madonna, San Giovanni Battista e altri santi e solo nella successiva nota a margine del 1609 si riferisce il cambiamento di soggetto. Caravaggio avrebbe, quindi, mutato l’iconografia per onorare tutto il casato dei Lazzari e non solo il committente Giovan Battista. L’opera fu apprezzata ed ammirata, i signori ne ebbero “molto gradimento” anche perché “l’artefice aveva aperto campo da potervi felicemente condurre la sua ideata fantasia”.
Per la prima volta abbiamo anche un’informazione inedita. Secondo Susinno le tele per Lazzari furono due con soggetto analogo. Eseguito il lavoro, infatti, al momento della consegna ci fu chi criticò la tela, “tra la comitiva” infatti “fuvvi chi ne facesse qualche picciolo motivo, non già per criticare la perizia del Caravaggio, ma per così paregli”, così subito dopo:
“Michelagnolo colla solita impatienza sguainò il pugnale che in ogni tempo al fianco portar soleva; gli die’ tanti infuriati colpi che ne restò miseramente squarciata quell’ammirabile pittura.”
Caravaggio distrusse, con molta violenza, la prima versione della tela per poi rassicurare, “con l’animo all’apparenza sedato” i committenti, “smarriti galantuomini” di eseguirne un’altra “secondo il loro gusto e più perfettamente compiuta” che dipinse in brevissimo tempo. Di questa presunta prima versione oggi non rimane traccia, anzi probabile che si tratti di un’invenzione del biografo, dovuta al fatto che, essendo tutta la parte superiore del dipinto molto scura, monocroma e vuota, l’opera appariva eseguita in breve tempo ed in modo frettoloso, al punto che molte parti sembravano essere state lasciate apparentemente e totalmente incompiute. Il gesto “barbaro e bestiale” di Caravaggio potrebbe anche essere stato raccontato per alimentare il mito nero che da subito caratterizzava le biografie a lui dedicate ed amplificare la sua natura “impaziente ed invidiosa”.
Nel descrivere l’opera, eseguita interamente presso i locali dell’Ospedale Grande, Susinno si soffermò sullo stile “naturalesco” del “mentecatto” pittore e su come dipingesse “dal vero”. Ci raccontò che mentre per le due sorelle di Lazzaro prese come modello “le più belle idee di bellezza”, per dipingere il morto che sta risorgendo “fe’ dissepellire un cadavero già puzzolente di alcuni giorni, e poselo in braccio ai facchini, che non potendo resistere al fetore, volevano abbandonare quell’atto”, ma Caravaggio, impugnato il pugnale, minacciò i modelli che, a malincuore, continuarono a posare anche se “ebbero quasi a morire al pari di que’ miseri condannati dall’empio Mezzentio a perire litigati co’ cadaveri”. Il pittore aveva quindi l’esigenza non solo di poter disporre di modelli dal vero, ma di avere dei locali, in questo caso una stanza dello spedale, dove poter lavorare, che furono gentilmente concessi grazie a Lazzari in persona. Anzi “per secondare il suo capriccioso volere e per vieppiù contentarlo, ebbe il migliore salone”.
Successivamente raccontò il biografo che nella chiesa di Santa Maria del Gesù a Messina, il lombardo trovandosi ad osservare le opere che la abbellivano, schernì i dipinti di Antonio Catalano l’Antico e lodò quello di Filippo Paladini, raffigurante la Madonna tra Sant’Antonio di Padova e Santa Caterina d’Alessandria, dicendo: “or questo è quadro e l’altre tele son carte da giuoco”. Emerge il ritratto di un pittore che denigra[5] le opere altrui e, soprattutto, quelle lontane dal suo stile. Lo stesso scrittore ci informò, infatti, che lo stile di Catalano era molto diverso e “oppostissimo” perché mancava “di quell’ombre gagliarde” ed era “troppo delicato e dolce” mentre quello del Merisi “troppo aspro e fiero”.
La seconda opera eseguita a Messina, secondo il frate, fu L’adorazione dei pastori. Commissionata “per il suo ben operare dal senato di Messina” per l’altare maggiore della chiesa dei Padri Cappuccini. Fu questa l’opera che, come scrisse Susinno, diede molta fama al Caravaggio, ed è stata descritta, infatti, come “la migliore”.
Le parole del biografo cambiano, non parla più di opere terribili, dal gusto troppo naturalistico ma di un quadro degno di stima, bello da guardare, sicuramente vicino alle sue istanza accademiche e classiciste e soprattutto distante da “quel tingere di macchia, furbesco, ma rimostrossi naturale senza quella fierezza d’ombre”. Anche in questo caso leggiamo una notizia molto particolare, la tela, infatti, aveva maggiori dimensioni ed il campo nero in alto “fu tagliato per potersi incastrare nella cappella”. Nell’attuale quadro, quindi, manca una parte della sezione superiore. Questa decurtazione[6], molto probabilmente, fu eseguita alla fine del 1600 durante alcuni interventi di ristrutturazione degli ambienti della chiesa dei Cappuccini.
Susinno si soffermò ampiamente nella descrizione dell’opera, scrivendo:
“Vedesi quivi nel piano terreno una sporta con strumenti di falegname alludenti a S. Giuseppe, nel secondo nella parte destra si vede distesa a terra la Vergine che vagheggia il pargoletto Gesù involto tra panni, facendogli vezzi. Ella sta appoggiata ad un fenile, dietro cui gli animali che vi pascono; nella sinistra parte a piè della Vergine, vi sta S. Giuseppe sedente pensoso in vaga panneggiatura ed in appresso li tre pastori che adorano il nato bambino, il primo con il bastone in mano vestito di bianco, il secondo in atto adorante colle mani giunte, con una spalla ignuda che rassembra di viva carne; e per fine il terzo ammirativo, con testa calva, ch’è miracolosa.”[7]
Susinno ci informò anche di molte altre opere eseguite dal Caravaggio a Messina, dicendo che presso il Conte Adonnino vi erano due San Girolamo: “uno del buon gusto”[8] rappresentato mentre sta scrivendo, ed un altro “di maniera secca, che tiene nelle mani e medita un teschio di morte.” Queste due tele, di commissione privata, purtroppo non ci sono pervenute ma proprio in queste si notava “la varietà della sua maniera, sempre diversa” perché “mentre una è secca, l’altra è buona senza quelle ombre”. Per brevità scrisse di tralasciare volutamente tutte le altre opere del pittore che si trovavano in città, commissionate da privati cittadini messinesi.
Caravaggio è descritto come un uomo che aveva acquistato molta fama e ricchezze e che non mancava di dissipare in “valenterie e bagordi”. Si mostrava litigioso miscredente e poco pio ed un giorno entrando con altri galantuomini nella chiesa della Madonna del Pilero di Messina,
“fattosi infra questi innanzi il più civile per apprestargli l’acqua benedetta”, Caravaggio domandò a cosa servisse. L’uomo rispose che serviva per cancellare i peccati veniali ed il pittore prontamente disse: “Non occorre! Perché i miei son tutti mortali”.
Il biografo raccontò questo episodio per avvalorare la tesi di un Caravaggio miscredente[9] che andava questionando di cose di natura religiosa. Il pittore, infatti, conosceva benissimo la risposta alla sua domanda, ma desiderava sorprendere i suoi accompagnatori rifiutando l’acqua benedetta
Nelle ultime righe della biografia raccontò che, negli ultimi giorni della sua permanenza a Messina, il Merisi “andava appresso[10]” ad un maestro di grammatica, chiamato Carlo Pepe, quando quest’ultimo portava gli scolari vicino la zona dell’arsenale vecchio, all’estremità meridionale del porto dove si fabbricavano le galee. Durante queste giornate Caravaggio osservava da lontano i ragazzini “per formarne le sue fantasie[11]”. Accortosi di ciò il maestro, insospettito, lo ammonì e dopo un’accesa discussione in cui chiedeva spiegazioni sul perché “gli era di attorno[12]”, Caravaggio “per non perdere il nome di folle”, senza rispondere alla domanda, con furore e ira ferì don Carlo Pepe in testa. Dopo questo grave litigio il lombardo, suo malgrado, fu forzato e costretto a lasciare la città e fuggire da Messina. Fuggiasco e con il “forsennato cervello”, secondo Susinno, si diresse verso Palermo e poi verso Napoli.
Trascrizione della biografia dedicata a Caravaggio dalle Vite de’ pittori messinesi (1724) di Francesco Susinno:
“Tutto che si vedesse Michelagnolo colla croce in petto, non solo non lasciò la torbidezza del suo naturale, anzi vié più lasciò acciecarsi dalla pazzia di stimarsi cavaliere nato. La marca de’ cavalieri non ostentasi con l’orgoglio, ma rendesi commendabile colla piacevolezza. Divenne egli però così ardito che ardì un giorno competerla con alcuni cavalieri, ed affrontatone uno di giustizia, fu astretto il medesimo Vignacourt serrarlo in un castello. Ma di notte tempo, scalati i muri fuggì in Sicilia, e ricovratosi nella città di Siracusa fu ivi accolto dall’amico suo e collega nello studio di pittura, Mario Minnitti pittore siracusano, da cui ricevette tutta la compitezza che poté farle la civiltà di un tal galantuomo. Lo stesso supplicò quel senato della città acciò impiegasse il Caravaggio in qualche lavoro, e così potesse aver campo di godere per qualche tempo l’amico ed altresì osservarsi a qual grado di altezza erasi portato Michelagnolo, mentre se ne udiva grande il rumore e ch’egli fosse in Italia il primo dipintore.
L’autorità di quel magistrato non pose in non cale l’occasione, ed insubito l’impiegò nella fattura di una gran tela della vergine e martire S. Lucia siciliana. Oggi giorno ammirasi nella chiesa de’ Padri Riformati di S. Francesco, dedicata alla stessa gloriosa santa, fuori le mura della medesima città. In questa gran tela il dipintore fece il cadavere della martire disteso in terra, mentre il vescovo con il popolo viene per sepellirlo e due facchini, figure principali dell’opera, una di una parte ed una dall’altra, con pale in azzione che fanno un fosso acciò in esso lo collochino.
Riuscì di tal gradimento questa gran tela che comunemente vien celebrata, ed è tale di questa dipintura il meritato concetto che in Messina ed altresì in tutte le città del regno se ne veggono molte copie.
L’inquietissimo cervello di Michelagnolo, amando vagare pel mondo, lasciò gli agi della casa dell’amico Minnitti. Portossi alla città di Messina: e perché da per tutto ogni novità basta sola per oscurare qualunque bello e vago, ancorché invecchiato, di faciule sortì attirarsi l’attenzione e la maraviglia con la novità. In que’ tempi fiorivano Cattalani l’Antico, il Cumandeo, pittori molto celebri, ed altri. La nuova fama del Caravaggio, giungendosi al genio simpatico de’ messinesi molto inchinanti a’ forastieri, e l’effettivo merito di un tal uomo ferono che restasse nella medesima città e quivi fusse impiegato per alcuni lavori.
Dovendosi da certi signori ricchi di casa Lazzaro erger una nuova cappella nell’altare maggiore della Chiesa de’ Padri Crociferi, pensarono commettere la gran tela a questo virtuoso con cui si aggiustarono pel prezzo di mille scudi. Il pittore ideossi la Resurrezione di Lazzaro, pensiero allusivo al loro casato. N’ebbero i predetti signori molto gradimento, imperoché aveva l’artefice aperto campo da potervi felicemente condurre la sua ideata fantasia. Ragionevol cosa si è che i grand’ingegni si lascino operare a loro bell’aggio, giacché quasi legate sono amendue le mani a que’ pittori, allorché vengono richiesti di qualche opera in tale o tal maniera, o in tal forma. Soleva fra Mattia Preti calabrese (Caravaggio del secolo passato, e detto volgarmente il cavalier Mattia) tutte le volte che gli veniva commessa qualche pittura colla strettezza di tale e tale figura, allorché alla sua perfezione l’aveva portata, stupirsi come avesse potuto terminare colle mani tra’ ceppi tal cosa. Portatasi alfine dal Caravaggio la gran tela rappresentante la Resurrezione di Lazzaro, come dianzi si è detto, opera così sospirata da coloro che l’avevano commessa, sempre tenuta secreta dall’autore nell’andarla perfezionando, ammirossene il compimento. E perché della facoltà pittrice ognuno ardisce e prosume discorrere secondo il costume, tra la comitiva fuvvi chi ne facesse qualche picciolo motivo, non già per criticare la perizia del Caravaggio, ma per così parergli. Michelagnolo colla solita impatienza sguainò il pugnale che in ogni tempo al fianco portar soleva; gli die’ tanti infuriati colpi che ne restò miseramente squarciata quell’ammirabile pittura. E dopo aver in tal guisa sfogata la colera su quell’innocente lavoro, coll’animo all’apparenza sedato, rincorò que’ smarriti galantuomini che non si attristassero mentre fra brieve tempo gliene darebbe un’altra secondo il loro gusto e più perfettamente compiuta.
Né ci dobbiamo meravigliare in udire sì fatte sciocchezze, perché se ne leggono molte di uomini assai più sensati del Caravaggio. Di Giovan Cimabue pittor fiorentino si riferisce esser stato così stizzoso, che scrive un pittor poeta [Salvator Rosa]:
Gian Cimabue quando mostrava un’opera / S’alcun lo riprendea montato in rabbia / Gettava il quadro in pezzi e sotto sopra.
Parimenti Michelagnolo Bonaroti avvertito da un cavaliere modesto sopra le nudità dipinte nel suo tanto acclamato Giudizio nella cappella Paolina, fu sopraciò frezzato dallo stesso poeta:
In udire il pittor queste proposte / Divenuto di rabbia rosso e nero / Non poté proferir le sue risposte:
/ Né potendo di lui l’orgoglio altero / Sfogar il suo rancor per altre bande / Dipinse nell’inferno il cavaliero.
L’esser il Caravaggio devenuto ad una azzione cotanto barbara e bestiale, fu effetto della sua natura impaziente ed invidiosa. L’udire qualche encomio convenevole de’ pittori messinesi struggevalo e particolarmente lo trafiggeva il concetto del Cattalani l’Antico, la cui dote speciale fu una gentilezza di colore ed una grazia di belle idee ridenti, sul fare di Federico Barocci di Urbino suo maestro. Tale fu l’astio che aveva contro questo suo rivale che un giorno andò a visitare li quadri che sono nella basilica di S. Maria di Gesù, fra quali osservandone alcuni del prenarrato Cattalani, colla solita satira diessi a celebrare un tela fra quelle di Filippo Paladino fiorentino e pittore raffaellesco, come di sopra si è detto. In essa si rappresenta la Vergina in gloria con al di sotto S. Antonio di Padova e Caterina vergine e martire, figure amendue in piedi. La satirica lode fu questa: Or questo è quadro e l’altre tele son carte da giuoco, intendendo così rovesciare la vaghezza del Cattalani, perché il Caravaggio volevasi di quell’ombre gagliarde che nel Cattalani non s’osservano, essendo un altro stile oppostissimo: uno troppo delicato e dolce, e l’altro troppo aspro e fiero.
Dee dunque sapersi che prima che dasse principio all’opera de’ sudetti signori di Lazzaro, volle questo mentecatto pittore procurata una stanza per mezzo degli stessi nello spedale. Per secondare il suo capriccioso volere e per vieppiù contentarlo, ebbe il migliore salone. Dato di mano all’opra fece nella parte destra il Salvatore voltato di schiena, con gli apostoli in atto di chiamare nel defonto e quattriduano Lazzaro lo spirito già partito, e nel mezo sonovi due facchini che alzano una gran lapide. Il cadavero di Lazzaro vedesi in braccio ad un altro facchino, e sembra come volesse svegliarsi. Dal capo del Lazzaro nella parte sinistra, vi sono le sorelle che istupidite osservano il fratello che si sveglia. Ne’ visaggi delle sorelle Michele rappresentò le più belle idee della bellezza, e per condurre la principal figura del Lazzaro, e di gusto naturalesco, fe’ dissepellire un cadavero già puzzolente di alcuni giorni, e poselo in braccio ai facchini, che non potendo resistere al fetore, volevano abbandonare quell’atto. Ma questi colla solita ira impugnato il suo pugnale, l’atterrì avventandosi su di loro, finché gli infelici proseguirono per forza l’azzione, ed ebbero quasi a morire al pari di que’ miseri condannati dall’empio Mezzentio a perire ligati co’ cadaveri. Altresì la stanza pittoresca del Caravaggio poteva in qualche modo dirsi la carnificina dello stesso tiranno.
Né mi sarebbe parsa verisimile una tale barbarie, se non l’avessi rincontrato nel morale Seneca. Racconta l’istesso dell’antico Parrasio un fatto non guari dissimile allo accennato. Al solo scriverlo mi si aggrinzano della destra i nervi e quasi mi si gela dentro le vene lo spirito e la natura soprafatta rimane all’inaudito tormento.
Parrasio fu quel luminare maggiore della scuola greca, il quale oscurò dello stesso Zeusi lo splendore col renderlo ingannato e deluso col dipinto velo. Il medesimo barbaramente voglioso di comparire vieppiù celebre di quel ch’egli era, dipinse in tela un Prometeo, a cui l’avoltoio beccava il cuore, che per esprimerlo col viso al sommo afflitto e lagrimevole, comprò un vecchio schiavo Olindo e spogliollo e legollo come se fusse il vero Prometeo. Applicogli ne’ fianchi alcuni tizzoni di fuoco. Gemeva il misero e mostrando l’intero dolore nel volto, guardollo Parrasio ed osservatolo, esclamò: «parum tristis est»; il di lui affanno parvegli poco. Onde vieppiù raddoppiatigli i tormenti, sveniva il misero maggiormente con sincopi mortali, torcendosi per ogni parte con dolorosi atteggiamenti. Dandole di nuovo un’occhiata gridò il pittore: «parum tristis est»; né contento di così martorizarlo, gli aggiunse più tizzoni con fiamme maggiori, onde l’infelicissimo già mostrava nel sembiante smarrito tutto il pallor della morte. Parrasio in vedendolo già quasi per spirare, die’ di piglio a’ pennelli, se ne compiacque come desiava vederlo: «placuit Parrasio vultus infelix». Delineò allora il volto di Prometeo così eccellentemente, che vinto rimase dall’arte della pittura il naturale del moribondo, e parve che il vero Prometeo cedesse al dipinto. Dicesi altresì di Michelagnolo Bonarota [io son di parere che fosse favola] aver conficcato con veri chiodi un pover’uomo ad un legno per avergli quindi trapassato il cuore con una lancia, per dipignere un crocifisso.
Inoltrossi vieppiù del Caravaggio il concetto, colla sperienza del suo ben operare, di modo che il senato di Messina gli commise una gran tela per l’altare maggiore della Chiesa de’ Padri Capuccini della medesima città. In questa tela sta figurato il Natale di Nostro Signore, con figure al naturale, e tra le opere suo a mio credere questa si è la migliore, perché in esse questo gran naturalista fuggì quel tingere di macchia, furbesco, ma rimostrossi naturale senza quella fierezza d’ombre. Il sentire celebrare la dolcezza del Cattalani l’Antico lo fece rientrare in se stesso. Questa sola grand’opera l’averebbe reso memorabile ne’ secoli avvenire, come lontana affatto dalle seccaggini e dagli oscuri cotanto gagliardi. Vedesi quivi nel piano terreno una sporta con strumenti di falegname alludenti a Giuseppe, nel secondo nella parte destra si vede distesa a terra la Vergine che vagheggia il pargoletto Gesù involto tra panni, facendogli vezzi. Ella sta appoggiata ad un fenile, dietro cui gli animali che vi pascono; nella sinistra parte, a pie’ della Vergine vi sta S. Giuseppe sedente pensoso in vaga panneggiatura ed in appresso li tre pastori che adorano il nato bambino, il primo con bastone in mano vestito di panno bianco, il secondo in atto adorante colle mani giunte, con una spalla ignuda che rassembra di viva carne; e per fine il terzo ammirativo, con testa calva, ch’è miracolosa. Il rimanente di questa tela consiste in campo nero con legni rustici che compongono la capanna: anzi il campo era più alto e ne fu tagliato un gran pezzo per potersi incastrare nella cappella.
In diversi vari principi si sono invaghiti dell’accennato Presepe ed hanno cercato involarlo, ma non gli è riuscito perché li padri capuccini ne fecero ricorso al senato, in que’ tempi che più fioriva, e colla solita autorità li fecero consapevoli che que’ religiosi ne son semplicemente custodi. In tal guisa è restata in Messina e posso con verità affermare esser questa l’unica e più maestrevole pittura del Caravaggio.
Appresso al signor conte Adonnino sonovi dello stesso pittore due mezze figure in tele d’imperadori, rappresentanti amendue S. Girolamo, uno del buon gusto, che sta in atto di scrivere colla penna in mano, in profilo assai naturale; l’altro di maniera secca, che tiene nelle mani e medita un teschio di morte. Nel discernere di queste tele del Caravaggio il valore, vedesi la varietà della sua maniera, sempre diversa, mentre una è secca e l’altra buona senza quelle ombre.
Potrebbesi far ricordanza di altre belle opere sue private, che per brevità tralascio. Avendosi addunque il nostro dipintore acquistato una gran fama, guadagnossi altresì molti quatrini che dissipava in valenterie ed in bagordi: faceva il rompicollo ed il contenzioso, e quel ch’è peggio, mostravasi poco pio. Un giorno entrato con certi galantuomini nella chiesa della Madonna del Pilero, fattosi infra questi innanzi il più civile per apprestargli l’acqua benedetta, egli domandatogli a che ciò servisse, gli fu risposto per cancellare i peccati veniali: Non occorre! dissegli, perché i miei son tutti mortali. L’aver voluto altresì fuor della sua professione andar questionando le cose della nostra sacrosanta religione, gli dà taccia di miscredente, quando che gli stessi Gentili hanno mostrato una gran modestia ne’ misteri di essa: «Sanctius ac reverentius » (dice Tacito) «de actis Deorum credere quam scire». Tertulliano anche fra’ padri dice: «Ignorare tutissimum est»; e Sisto Sanese: «de Deo etiam vera loqui periculosum est, scrutator Maiestatis opprimetur a gloria». Fu uomo inoltre astratto, inquieto, poco accorto sulla sua vita, e molte volte andava a letto vestito e col pugnale al fianco che mai lasciava; per l’inquietitudini dell’animo suo più agitato che non è il mare di Messina colle sue precipitose correnti che or salgono, or scendono. Vestiva mediocremente, armato sempre, che più tosto sembrava uno sgherro che un pittore. Soleva mangiare su di un cartone per tovaglia, e per lo più sopra una vecchia tela di ritratto: era così scimunito e pazzo che non può dirsi di più; sempre portava con esso lui un cane nero, che avvezzatolo avea a far vari giuochi, di che egli molto trastullavasi. Andava perduto nei giorni festivi appresso a un certo maestro di grammatica detto don Carlo Pepe: guidava questi li suoi scolaj a divertimento verso l’arsenale: ivi fabbricavansi le galee, oggi giorno ridotto ne’ magazzini di Portofranco. In tal luogo Michele andava osservando gli atteggiamenti di que’ ragazzi scherzanti per formarne le sue fantasie. Insospettitosi di ciò sinistramente quel maestro, ispiava perché sempre gli era di attorno. Questa domanda disgustò fieramente il pittore, e quindi in tal ira e furore trascorse che, per non perdere il nome di folle, die’ a quell’uomo dabbene una ferita in testa; per il che viddesi suo malgrado forzato partir da Messina. Insomma ove andava, stampava l’orme del suo forsennato cervello.
Fugiasco se ne passò in Palermo ed in quella città lasciò altresì opere lodevoli; di lì poi di nuovo andò a Napoli ed ivi inseguito dal suo antagonista offeso, fu malamente ferito nel viso e disperando di potersene vendicare, frappose l’autorità del cardinal Gonzaga, ottenne la grazia dal pontefice Paolo V acciò potesse ritornarsene in Roma. Partitosi addunque arrivò alla spiaggia romana e colà per errore fatto prigione, fu ben tosto rimesso in libertà, né trovando più la barca né i suoi arnesi, diessi in braccio alla disperazione per proseguire il viaggio di Roma in tempo di sole in lione. Perlocché fu assalito da febbre maligna che in pochi giorni ed in su il meglio della sua giovanezza, cioè in età di anni 40, portollo all’altro mondo, lasciandolo nella spiaggia infelicemente l’anno 1609. L’anno stesso parve funesto alla pittura mentre morirono Federico Zuccaro ed Annibal Caracci. Un nostro poeta di quella stagione scrisse alla morte del Caravaggio nella seguente guisa:
«Epitafio a Michelagnolo Morigi o Amerighi da Caravaggio morto sul suo viaggio della spiaggia romana».
Su le sterili arene / L’huom più fecondo, il fertil Caravaggio ? / Hor qui in braccio alle pene / Qual rio destin, qual hoste, empio e malvagio. / Nella più verde etade / Crudo il ferì ? Chi il manigoldo è stato ? / Passagier te ‘l dirò: più fortunato / Forse e più lungo Caravaggio il fine / Avuto avrebbe, se al suo merto innato, / E a sue fragranti rose matutine, / Come altretante spade / Opposte non si fossero, ed ostato / D’inquieta mente le pungenti spine.
Se il Caravaggio non fusse sì tosto morto, avria fatto gran profitto all’arte, per la buona maniera che presa avea nel colorire dal naturale, bench’egli nel rappresentare le cose non avesse molto giudizio di scegliere il buono e lasciare il cattivo. Valevasi del naturale colle sue mancanze: lo sprezzare ch’egli fece in sul principio l’antichità de’ marmi fecelo restare un semplice naturalista mancante di maniera. La maniera altro sì non è se non quella graziosità e gentilezza che dassi al naturale, il quale viene per essa spogliato da tutte le rusticità nella pittura. Acquistò non di meno gran credito, e più si pagavano le sue teste che le altrui storie. O quanto importa l’aura populare, che non fa giudizio con gli occhi, ma guarda coll’orecchie. Tale fu il concetto in che salì questo pittore, che da per tutto cercarono molti di approfittarsi sulla vivacità delle sue dipinture. Que’ che diedero ad imitare la sua maniera furono non pochi, come il Guercino da Cento, Bartolomeo Manfredi nativo di Mantova, Giuseppe Ribera detto lo Spagnoletto, il quale per rendersi inventore di cosa se ne fece su quella maniera forte una sua tutta di trattoni, Gherardo Honthorst nato in Utrech. Valentino nativo di Brié francese, città poco distante da Parigi, Carlo Saracino, Mario Minnitti siracusano, seguendo lo stile del Caravaggio con maniera vigorosa e tinta, avanzossi più d’ogn’altro naturalista nella disposizione delle figure; Alonzo Rodriguez, Andrea Suppa, amendue messinesi pittori, li quali assai si compiacquero delle opere del famoso Caravaggio”.
Valentina CERTO Messina, 22 agosto 2021
NOTE
[1] F. Susinno, Le Vite de’ pittori messinesi, a cura di V. Martinelli, Firenze 1960.
[2] V. Martinelli, in Introduzione alle Vite de’ pittori messinesi di Francesco Susinno, Firenze 1960, p. XXII.
[3] G. P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, cit., p. XXXIII.
[4] G. P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, cit., p. 2010
[5] Già Baglione ricordava che “ed uscia tal’hora a dir male di tutti li pittori passati, e presenti per insigni, che si sussero;poiché a lui parea d’haver solo con le sue opere avanzati tutti gli altri della sua professione”
[6] V. Merlini – D. Storti, Caravaggio. Adorazione dei Pastori, Roma 2010 ed anche in V. Merlini – D. Storti, Il restauro e la conservazione dell’Adorazione dei pastori, in L’adorazione dei pastori restaurata e le “osservazioni” del Caravaggio in Sicilia, Messina 2010, p. 15.
[7] Susinno F., Le vite de’ pittori messinesi, cit., pag. 112.
[8] Ibidem.
[9] M. Calvesi, Caravaggio, cit., pag. 13.
[10] F. Susinno, Le vite de’ pittori messinesi, cit., p. 114.
[11] Ivi, p. 114.
[12] Ibidem.
BIBLIOGRAFIA
- VV., Caravaggio in Sicilia, il suo tempo, il suo influsso, Palermo 1984.
- VV., Sulle orme di Caravaggio, tra Roma e la Sicilia, Palermo 2001.
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