“Caravaggio Napoli”; iniziata la grande mostra a Capodimonte; About Art apre la discussione.

di Viviana FARINA

Viviana Farina (Napoli, 1972) è Dottore di ricerca in Discipline Storiche dell’Arte presso l’Università Federico II di Napoli, dopo il Diploma di Specializzazione; ha insegnato “Storia della Critica d’Arte” e “Letteratura Artistica” presso le Università di Catania (Siracusa) e della Calabria (Cosenza-Arcavataca di Rende); “Storia dell’Arte Barocca” presso la SISSIS di Catania; è stata collaboratore alla cattedra di “Storia dell’Arte Moderna” (Prof. A. Ballarin) presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli (2003-2006); da anni studia la pittura e il disegno a Napoli tra Sei e Settecento nonchè la storia del collezionismo e i rapporti storico-artistici tra Napoli e Genova nel XVII secolo; ha collaborato e collabora con varie riviste italiane ed internazionali, ha partecipato ed ha curato personalmente convegni e mostre, l’ultima delle quali  Artemisia e i pittori del conte. La collezione di Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona a Conversano (Conversano, Castello e chiesa di San Giuseppe, 14 aprile-30 settembre 2018). Numerosi i suoi contributi in cataloghi di esposizioni e in volumi miscellanei, come pure i suoi studi monografici, di cui non è possibile dar conto in quersta sede. Attualmente è Professore di II fascia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli

(S)Punti di vista: pensieri in margine alla mostra “Caravaggio Napoli

L’atteso e importante evento espositivo “Caravaggio Napoli”, curato da Maria Cristina Terzaghi e Sylvain Bellenger, dal 12 aprile sino al prossimo 14 luglio presso il Museo di Capodimonte di Napoli (Sala Causa), e il relativo catalogo, a firma curatoriale esclusiva della Terzaghi (Milano, Electa Mondadori, 248pp, ISBN 978889182400-4, Euro 32,00), invitano alla discussione, secondo altra ottica, di alcuni dei temi di caravaggismo partenopeo presentati con l’occasione.

  • Louis Finson

Prendiamo le mosse da Louis Finson, maestro di Bruges, giunto nella capitale del Viceregno prima del 1605. È da tempo uno dei cavalli di battaglia della feconda ricercatrice Maria Cristina Terzaghi, che ha il merito di esporre, per la prima volta in Italia, il Martirio di san Sebastiano della minuscola chiesa Parrocchiale di Rougiers, vicino Var (nel Dipartimento Provenza-Alpi-Costa Azzurra, nell’area di Tolone). Pulita per l’occasione, la pala – che sulla parete della Sala Causa appare più imponente che sul povero muro della sede collocataria – ha posto la questione di revisionarne la cronologia. Il cartiglio, recante la firma di Finson e la data sin qui interpretata «1615», potrebbe leggersi «1610» (Cat. 18).

Fig. 1. Louis Finson, Martirio di san Sebastiano (part. ante restauro), 1610, Rougiers (Var), chiesa parrocchiale, ©Viviana Farina
Fig. 2. Louis Finson, Martirio di san Sebastiano (part. post restauro), 1610, Rougiers (Var), chiesa parrocchiale, ©Viviana Farina

Allego l’immagine da me scattata anni or sono in chiesa (Fig. 1) al fianco di quella presa in mostra (Fig. 2): come si vede, lacune pittoriche e rivoli grafici autorizzavano tre possibili lectiones:  «1610», «1615», «1616». Chi scrive – non se ne fa menzione in catalogo – aveva optato di recente per accogliere il  «1615», sostenuto da Didier Bodart (V. Farina, Louis Finson e Martin Faber tra Napoli e Roma, in Artemisia e i pittori del conte. La collezione di Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona a Conversano, a cura di V. Farina, Cava De’ Tirreni 2018, pp. 100-101 e fig. 14). Ma se si trattasse piuttosto di un’opera condotta nel 1610, dunque eseguita a Napoli – ciò che incrementerebbe il valore del prestito – essa verrebbe a precedere pure i portentosi Quattro Elementi, autografati da Finson nel 1611 (già presso la galleria Smeets); nonché a corrispondere nella data con la Resurrezione di Cristo della chiesa di Saint-Jean ad Aix-en-Provence, dotata di un cartiglio «1610» che ne lascia intendere o la spedizione dal Viceregno o la vendita susseguente al trasferimento dell’artista in Provenza, sul finire del 1612 [i pareri di Giovanna Capitelli e di Viviana Farina sono riassunti ivi, p. 94, nota 4].

Invero, il dialogo del San Sebastiano di Var sembrerebbe intessersi ancora meglio con altre due opere che possono ascriversi al momento napoletano di Louis Finson, quali il Sansone e Dalida del Musée des Beaux-Arts di Marsiglia e la Salomé con la testa del Battista del Herzog Anton Ulrich-Museum di Braunschweig. Le perplessità, sulla necessità di tenere separati nel tempo il dipinto della Bassa Sassonia da quello provenzale, le avevo frattanto già espresse. Prendendo le mosse dal primo, scrivevo :

«Il punto di stile del quadro tedesco coincide con quello del Martirio di san Sebastiano a Rougiers, frazione di Var, opera firmata da Finson nel 1615 [con rinvio a Didier Bodart], sino a ritenere che la storia del Battista sia stata eseguita in Francia ancora sotto il forte influsso della maniera messa a punto da Finson in Italia. Alla ricostruzione si oppone, però, l’esistenza di altre due opere che parrebbero attestare la conoscenza in àmbito partenopeo della tela oggi conservata a Braunschweig».

Alludevo alla Salomè con la testa del Battista del giovane Massimo Stanzione, edita da tempo da Riccardo Lattuada in collezione privata romana  [l’attuale Cat. 16, su cui tornerò oltre], e all’unica prova pittorica sinora certa di Andrea Azzolino, figlio del pittore e ceroplasta Giovanni Bernardino, quale la Giuditta e Oloferne firmata dall’artista nel 1641 (Palermo, Palazzo Abatellis, depositi: cfr. V. Farina, Louis Finson…cit, pp. 100-101, 103).

Sotto altro aspetto sarebbe stato, forse, di utilità esporre in mostra, in dialogo con le Flagellazioni del Merisi, specificamente con quella proveniente da San Domenico Maggiore, e a ulteriore segno del rapporto immediato stabilitosi tra Finson e Caravaggio, così ben argomentato dalla Terzaghi, una tela che a mio avviso costituisce una importante aggiunta per l’overture del brugense a Napoli (Fig. 3; con l’occasione ringrazio John Gash e Paul Smeets con i quali ho avuto modo di discutere l’attribuzione).

Fig. 3. Louis Finson, San Giovanni Battista si prepara al martirio, 1607 ca., collezione privata, ©Viviana Farina

Interpretazione peculiare del soggetto, dall’innegabile potere seduttivo per lo splendido nudo, la scena presenta un remissivo San Giovanni Battista a pochi istanti dalla sua decollazione, con le teste biforcate di Salomé e della vecchia fantesca emule del prototipo di Caravaggio a Londra (che ritengo antecedente all’esemplare di Madrid; cfr. V. Farina, Louis Finson…cit, pp. 92-94 e Fig. 1).

  • Battistello Caracciolo

Veniamo ora al grave patriarca bronzeo della pittura napoletana. Stefano Causa firma solo il Cat. 14 (Fig. 6), la Salomè riceve la testa del Battista di collezione privata napoletana, originale risposta alla Salomé di Madrid del Merisi, che il grande esperto di Battistello Caracciolo data sul 1617/1618. Sempre penna emozionata, egli così segnala la «protagonista del dramma», «poco più di una bambina che sollecita l’attenzione di chi guarda con ferocia incoscienza», il volto della quale la luce inquadra «in una falsa finestra sul muro». Per delimitare l’area di un ritratto seppur parzialmente idealizzato, aggiungerei. E la tela non rappresenta un unicum nel catalogo del Caracciolo solo per il «virtuosistico rendimento del chiaroscuro», ma anche per il brano intenso della senescente fantesca, reduce dall’idea di vecchiaia dipinta da Caravaggio e non ancora dal nuovo faro dell’arte a Napoli, ossia Ribera. Il passaggio potrebbe far meditare ulteriormente sulla datazione, che lo studioso precisa infatti allo stato «orientativa», seppur ribadendone –  a ragione – l’antefatto alla partenza per Firenze (1618); e, si direbbe, almeno pure alla Trinitas Terrestris della chiesa napoletana della Pietà dei Turchini, documentata al 1617. Il confronto, a pochi passi di distanza in sala consente, dunque, di esser certi che l’episodio biblico di collezione privata non condivida la cronologia con la Salomé con la testa del Battista del Museo de Bellas Artes di Siviglia, sempre opera di Battistello, che Roberto Nicolucci colloca tra il 1615 e il 1618 (Cat. 15; Fig. 4).

Fig. 4. Battistello Caracciolo, Salomè riceve la testa del Battista, 1612/1614 ca., Sevilla, Museo de Bellas Artes, ©Pepe Morón
Fig. 5. Carlo Sellitto, Salomè riceve la testa del Battista, 1613 ca., collezione privata, ©Davide Le Grazie

 

Fig. 6. Battistello Caracciolo, Salomè con la testa del Battista, 1615/1617, Napoli, collezione privata, ©Fabio Speranza

Sembra piuttosto che se ne sarebbe dovuto (ri)mettere in luce il rapporto con una invenzione nota di analogo tema di Carlo Sellitto, il cui prototipo – l’unico interamente autografo sinora rintracciato – è stato di recente presentato al pubblico (Fig. 5; V. Farina in Artemisia e i pittori del conte…cit., pp. 174-177, Cat. 4); debole l’edizione, proveniente da una raccolta privata campana, esposta quale originale alla mostra Oltre la notte. Da Curia a Solimena. Capolavori di pittura meridionale, a cura di don Gianni Citro, Trentola-Ducenta (Ce), Centro Commerciale Jumbo, 5 dicembre 2018-5 febbraio 2019). Ne ho già illustrato in dettaglio il ruolo di forte controbattuta alla Salomé di Londra di Caravaggio; altrettanto il legame con il quadro di Battistello a Siviglia (ivi, p. 174, fig. 2), che decolla nell’eroina biblica, dal volto di profilo parzialmente mangiato dall’ombra e dal peculiare disegno scultoreo della manica (osservazione, questa ultima, accolta da Maria Cristina Terzaghi: Caravaggio a Napoli: un percorso, pp. 31-59:42 e nota 94).

 

Il parallelo pone «l’interessante quesito sulla priorità di invenzione» tra Sellitto e Caracciolo. L’opera del primo è stata da me ambientata sul 1613, in parallelo con la Santa Cecilia all’organo del Museo di Capodimonte e ricorrendo alla vecchia proposta di datazione, tra il 1612 e il 1614, che era stata avanzata per il Battistello andaluso (S. Causa, Battistello Caracciolo. L’opera completa, Napoli 2000, p. 181, Cat. A27, il quale, con somma ragione, si richiamava alla Tersicore del coevo ciclo delle Muse nell’omonimo Casino di Palazzo Rospigliosi a Roma, non collocando, quindi, il quadro «tra l’intervento al Pio Monte e l’esperienza fiorentina», come scrive ora Roberto Nicolucci con rinvio alla p. 46 della monografia di Causa, lì dove il riferimento dell’autore è piuttosto all’altra Salomé di Caracciolo già nel corridoio vasariano). E il nesso della tela biblica di Sellitto emerge evidente anche nel confronto con la Salomé di Caracciolo in collezione privata a Napoli (Fig. 6), nell’arto piegato al gomito dell’aguzzino e nella posa del braccio e della mano che mantiene il bacile della figliastra di Erode Antipa.

  • Giovanni Bernardino Azzolino

Il Martirio di sant’Orsola della Pinacoteca di Siena (in deposito presso Palazzo Piccolomini, già sede della Soprintendenza BSAE, insieme con l’intera ex collezione Pratesi) rappresenta uno dei più importanti ritrovamenti per comprendere il colloquio con Caravaggio e il caravaggismo da parte del poi suocero di Jusepe de Ribera. Il merito dello spostamento attributivo dalla cerchia di Francesco Rustici al napoletano Azzolino spetta a Stefano Causa (Due schede per Giovan Bernardino Azzolino, «Paragone», 42, 497, 1991, pp. 77-80); ma, a differenza di quanto dichiarato al Cat. 22 (autografato da Antonio Iommelli), la correzione della lettura iconografica da «Martirio di Santa Cristina» a «Martirio di Sant’Orsola», fondamentale a comprendere il valore testimoniale del quadro nell’ambito del rapporto con Marcantonio Doria, il patrizio genovese committente della celebre tela di Caravaggio di Intesa Sanpaolo e mecenate d’affezione di Azzolino, spetta ad altri (V. Farina, Giovan Bernardino Azzolino: il mancato soggiorno genovese e l’interesse per Ribera, in Omaggio a Fiorella Sricchia Santoro, «Prospettiva», 93-94, 1999, pp. 158-164: 161-162). In quel contesto si metteva in evidenza la traduzione a posteriori del prototipo di Caravaggio da parte del Siciliano – che dovette studiare nel 1610 l’originale in casa di Lanfranco Massa, procuratore del Doria dimorato a Napoli e anch’egli protettore di Azzolino –  argomentando il confronto stilistico con un’altra edizione, ritenuta precedente, del Martirio di Sant’Orsola in raccolta privata, già nota agli studi (Fig. 7),

Fig. 7. Giovan Bernardino Azzolino, Martirio di sant’Orsola, 1610/1612, collezione privata, ©Dorotheum Wien

e con il Martirio di Sant’Apollonia delle Monache Figlie di San Giuseppe di Genova, questo documentato da una lettera che il pittore aveva indirizzato non a Marcantonio, ma al fratello di questi Giovan Carlo, il 21 marzo 1616 (cfr. V. Farina, Giovan Carlo Doria. Promotore delle arti a Genova nel primo Seicento, pp. 144, 174, L19). Il quadro non poteva, dunque, trovare spazio prima dell’arrivo a Napoli del genero di Azzolino, Jusepe de Ribera (1616), e, a riprova dell’interesse del maestro per i tipi ‘grotteschi’, si fornivano confronti con opere utili documentate al terzo decennale. Da ultimo, in altro contributo sfuggito all’estensore della scheda (V. Farina, El arte en Nápoles en la época del gobierno del III duque de Osuna (1616-1621), in Italia en Osuna, catalogo della mostra (Colegiata de Nuestra Señora y Monasterio de la Encarnación de Trápana -Osuna, 26/10/2018-28/04/2019) a cura di P. Moreno de Soto, Osuna 2018, pp. 45-81: 74-77 e fig. 25), l’opera di Siena è stata discussa anche in rapporto alla maniera di Louis Finson e la proposta cronologica meglio argomentata, supportata dal confronto con un caposaldo del catalogo del maestro, quale la Madonna d’Ognissanti della Cappella Muscettola al Gesù Nuovo di Napoli, di cui è stato possibile rintracciare l’importante e dettagliato documento di incarico che ne attesta la lavorazione tra il maggio e il Natale del 1617 (ivi, pp. 77, 79).

Tanto più sembrerebbe ancora rappresentare la prima risposta di Azzolino a Caravaggio, forse anche pressoché immediata nel tempo, il Martirio di Sant’Orsola di collezione privata che era stato edito da più autori, a partire da Pierluigi Leone de Castris (vedi Fig. 7), e pochi mesi or sono andato all’asta (Dorotheum Vienna, 23 ottobre 2018, lotto 224). Esso sarebbe stato quanto mai utile alla discussione nel contesto della mostra di Napoli (la replica presentata in dialogo col Caravaggio di Palazzo Zevallos da G. Porzio in Tanzio da Varallo incontra Caravaggio: pittura a Napoli nel primo Seicento, catalogo della mostra (Napoli 2014-2015), a cura di M. C. Terzaghi, Cinisello Balsamo 2014, pp. 144-145, Cat. 16, è evidentemente successiva ed eseguita con la partecipazione della bottega), pure per le strette connessioni rilevabili nell’interpretazione pittorica, più che con Caravaggio in persona, con Louis Finson, tenuto parimenti d’occhio dal Siciliano nella forza icastica dei ritratti e nel vigore muscolare neorudolfino, evocativo di analoghi passaggi delle tele del brugense presso i Musei di Marsiglia e Braunschweig o dei Quattro Elementi richiamati in precedenza.

  • Jusepe de Ribera

Dello Spagnoletto si presenta esclusivamente il cosiddetto Cristo legato alla colonna del Monumento Nazionale dei Girolamini. Piace ricordare, visto che non se ne rintraccia menzione nella relativa scheda (Cat. 11), che anni or sono si aveva già avuto la premura di correggere la lettura iconografica comune di «Cristo flagellato», sottolineando di essere in presenza di un momento di scherno precedente all’atto della flagellazione; nonché di avanzare la cronologia dell’opera sino a seguire le tele di Ribera per i duchi di Osuna, poi nella Collegiata della cittadina feudataria, del periodo 1616-1618. Si era fatto altresì presente che il quadro e parimenti il celebre Sant’Andrea della stessa Pinacoteca oratoriana andassero separati dall’Apostolato costituito dai santi Pietro, Paolo e Giacomo di medesima ubicazione e che le due opere non costituissero, a loro volta, un secondo Apostolato (V. Farina, Al sole e all’ombra di Ribera. Questioni di pittura e disegno a Napoli nella prima metà del Seicento. 1, Castellammare di Stabia, 2014, paragrafo 1.12. Altre invenzioni del periodo 1618-1620: un ‘evangelista’ per Marcantonio Doria, i quadri dei Girolamini, pp. 182-188: 185-186; il Cristo dei Girolamini è riprodotto a p. 178, fig. 226, e la didascalia relativa recita «1620 circa»).

  • Massimo Stanzione

Del più forte concorrente di Ribera sulla piazza locale, Massimo Stanzione, si apprezzano in mostra due sole opere, la Salomè riceve la testa del Battista di collezione privata romana e il Martirio di Sant’Agata del Museo di Capodimonte (Fondo d’Avalos), entrambe presentate da Antonio Iommelli con una pressoché identica datazione, rispettosa della tradizione critica: «1620 circa», la prima (Cat. 16), «1618-1620 circa», la seconda. In un saggio monografico sul maestro la complessa questione della cronologia del primo Stanzione era stata, però, ampiamente affrontata sotto una luce nuova (V. Farina, Nuove prospettive per la gioventù di Massimo Stanzione, in Artemisia e i pittori del conte…cit., pp. 110-139:  125, 127, 129, 131), ed egli avrebbe dovuto avvalersene o quanto meno menzionarlo (discute sinteticamente in catalogo il contributo Augusto Russo, Sulla prima ora del caravaggismo a Napoli, pp. 80-91: 90, 91, nota 79). Ne riassumo dunque per chiarezza i punti essenziali in relazione alle due tele: per dato di stile, la Salomé è oggi quadro da porsi nel corso del biennio capitolino del maestro (1617-1618), mentre la martire di provenienza d’Avalos presenta una fisionomia pittorica definita al punto da renderne necessaria un’ambientazione in tempi vicini all’Adorazione dei pastori della Sala del Capitolo della Certosa di San Martino di Napoli (del 1626 incirca, in accordo con la datazione degli altri quadri presenti nell’ambiente).

Nel corso delle ricerche per la mostra intitolata alla collezione dell’aristocratico napoletano Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona, conte di Conversano, documentato protettore anche di Massimo Stanzione, ero sulle tracce della medesima Salomé di collezione privata romana. Nella raccolta, della quale resta principale testimonianza un inventario del 1666, riscoperto a suo tempo da Renato Ruotolo presso l’Archivio di Stato di Napoli, erano presenti varie ripetizioni della storia del Battista, uno dei santi onomastici del Conversano. Amabilmente, anni fa, Riccardo Lattuada mi aveva donato copia del bel bianco e nero da lui edito alla fine degli anni Ottanta del Novecento; Sebastian Schütze – mi disse – non conosceva l’attuale ubicazione della tela. In maniera casuale quanto rocambolesca mi imbattei, poi, in una immagine digitale al cui fondo riconobbi l’agognata Salomé. Scoprì trattarsi di un quadro di proprietà dello Stato olandese depositato presso il Museo della Bibbia di Amsterdam, giunto in Olanda circa nel 1970, ciò che fece sorgere il dubbio di una possibile identità con la tela edita da Lattuada, tanto che più seppi subito la nuova Salomé analogamente proveniente da Roma. Il quadro in oggetto (oltre alla pagine appena sopra indicate, si rinvia a V. Farina in Artemisia e i pittori del conte…cit., pp. 214-217, Cat. 14), con alacre disinvoltura ora divenuto opera di assoluto secondo rilievo, merita, invece, attenzione, vista anche l’ubicazione presso un ente pubblico.

Grazie alla feconda collaborazione con i funzionari del Rijiksdienst voor het Cultureel Erfogoed  e alla direttrice del Bijbels Museum ho potuto condurre un lungo studio sul dipinto, sino allora sconosciuto agli esperti di Seicento italiano, ed ottenerlo in prestito al castello di Conversano. La giovane restauratrice Malve Falk, coinvolta nella campagna di restauro del 2013, aveva radunato dati preziosi sulla sua storia. Si è proceduto ad una traduzione dall’olandese all’inglese e i punti essenziali sono questi: la tela fu acquisita a Roma da Timon Henricus Fokker (1880-1956), storico dell’arte perito di arte olandese e fiamminga, giunto nella Città dei papi, dove fu ospite del NIR (Istituto Olandese di Roma) tra il 1922 e il 1931, divenendo successivamente direttore della Galleria Doria Pamphilj (1932-1946). Nel 1938 Fokker aveva pubblicato un saggio dal titolo Roman Baroque Art. The History of a Style e la sua amicizia con G. Johannes Hoogewerff, direttore del NIR tra il 1923 e il 1950, è ben nota. Si intende che i due studiosi credessero, almeno in principio, l’opera potenzialmente di Caravaggio e che le assegnavano un certo valore. Fokker, che non ebbe figli, lasciò il dipinto in deposito presso il NIR; di qui esso fu all’Ambasciata di Olanda a Roma e poi finalmente ad Amsterdam, dopo la necessaria verifica circa una sospetta confisca avvenuta in era nazista.

La stesura pittorica in termini asciutti e vigorosi ha confermato l’ipotesi dell’antichità della prova, supportata negli studi precedenti, ma ha altresì consigliato di retrodatare l’inventio di poco rispetto al termine del circa 1620 sino a quel momento attestato, «innanzitutto in considerazione del fatto che la composizione riambienta l’eleganza con cui Caravaggio venne letto a Roma, più che a Napoli, nella seconda parte del secondo decennio del Seicento». Lo schema, sebbene ribaltato, discende, naturalmente, dalla Salomé riceve la testa del Battista di Caravaggio delle collezioni reali di Madrid ed esso potrebbe, così, essere stato ideato anche nella capitale del Viceregno, dove il quadro del Merisi aveva avuto grande fortuna presso Battistello, maestro di assoluto riferimento per il giovane Stanzione. Ne ho ancora rilevata l’affinità con la Salomé riceve la testa del Battista del Caracciolo agli Uffizi, registrata nel Seicento nella Guardaroba medicea, che se però manufatto davvero del 1618, al tempo del soggiorno toscano del napoletano, non potrebbe a rigore costituire un testo studiabile nella città meridionale. Anni dopo – Sebastian Schütze lo evidenziava – anche l’altra Salomè riceve la testa del Battista di Stanzione presso il Manchester City Art Gallery avrebbe recato i segni del quadro spagnolo di Caravaggio.

La Salomé giovanile di Massimo ha però alle spalle anche un altro riferimento: la cover eseguita da Finson sull’originale del grande lombardo quale la Salomé riceve la testa del Battista dell’Herzog Museum di Braunschweig. Se ne era già avveduto Stefano Causa (Il “Maestro delle Virtù di Viareggio” di Roberto Longhi: un’ipotesi per gli esordi di Massimo Stanzione, «Paragone», 46, 50 (541), 1995, pp. 68-73: 71). La figliastra di Erode e l’aguzzino sono stati, di fatto, rispettivamente situati da Stanzione ai margini destro e sinistro di una scena nella quale pure il plasticismo estremo del nudo di schiena ricorda quasi meglio i «sacri culturisti» dell’artista di Bruges che i modi di Battistello Caracciolo.

Queste, in definitiva, le mie riflessioni tese a sostenere l’ipotesi, più ragionevole, dell’elaborazione del tema da parte di Massimo Stanzione nel contesto romano:

«Si direbbe… che, in questo caso precoce della sua attività, Stanzione non abbia tenuto d’occhio il Vouet della chiesa romana [San Francesco a Ripa, del 1620 circa], già così elaborato nella pagina, prezioso e decorativo, bensì i modi più secchi e i cenni di lusso della prima maniera caravaggesca del francese. Anche l’ancella inturbantata in bianco, che sbuca in un abile controluce alla sinistra di Salomè, mentre porta in avanti la mano a sfondare lo spazio di rappresentazione, è passo che Massimo dové concepire più facilmente a Roma, impressionato da Carlo Saraceni prima che dal più tardo Gerrit van Honthorst [solitamente] invocato… Uno spazio siderale separa, in definitiva, questa Salomé dalla pala dell’Annunziata di Giugliano, finanche nei passaggi più moderni e modaioli del berretto alla nordica del rigido ed elegante gentiluomo che entra da sinistra nella Presentazione al tempio [Fig. 17]
Fig. 17. (a sinistra) Massimo Stanzione, Salomè con la testa del Battista (part.), 1617/1618, Amsterdam, Rijiksdienst voor het Cultureel Erfogoed in deposito a Amsterdam, Bijbels Museum (Biblical Museum), ©Davide Le Grazie / (a destra) Massimo Stanzione, Presentazione di Maria al tempio (part.), 1615 ca., Napoli, Palazzo Reale, depositi, ©Viviana Farina
sicché pare quasi doveroso interpolare una giusta distanza temporale tra i primi due numeri superstiti del catalogo di Stanzione…» (Nuove prospettive… cit., pp. 127, 129).

Resta a parte l’attività da ritrattista del napoletano, sulla quale rinvio al contributo di cui sopra (ivi, pp. 110, 116, 118). Ritornerò a momenti, invece, sulla Presentazione al tempio già incastonata nel soffitto ligneo della chiesa dell’Annunziata di Giugliano.

È primario riaffrontare il confronto tra le due edizioni della Salomé riceve la testa del Battista ora che mi è stato possibile visionare entrambe dal vivo.

L’infaticabile autore della scheda così liquida la mia analisi:

«La studiosa, da un semplice confronto fotografico delle due opere, sostiene l’autografia del dipinto [intuisco quello romano, ma l’ultimo soggetto da lui indicato è il dipinto olandese], proponendo la stessa data di esecuzione… Ma l’esistenza di alcune differenze tra la Salomè in esame e l’opera olandese [già da me rilevate], la cui qualità appare fortemente inferiore, induce a sospettare della sua piena autografia».

Sarebbe stato più scientifico e veritiero riferire che, sulla base della foto in suo possesso, chi scrive non aveva smentito, bensì confermato i pareri dai colleghi più anziani e periti nel mestiere emessi a riguardo dell’esemplare capitolino. Né corrisponde al vero che io abbia rintracciato il quadro olandese «in seguito alla campagna di restauri»; come pura invenzione è che il medesimo sia stato «disseppelit[o] dai depositi del museo olandese», una informazione non ricavabile dal mio testo, tanto più che, in seguito al dispendioso restauro, l’opera si vede esposta da anni.

Le due tele, identiche nelle misure, presentano entrambe parti di qualità e parti scadenti, messe in evidenza dallo stato di conservazione di numerosi brani pittorici, abrasi e appiattitisi nel tempo; ma sono entrambe da ritenersi prove autografe di un maestro ancora privo di quella grazia che poi caratterizzò la sua intera carriera. I confronti fotografici approntati per l’occasione (Figg. 8-9-10)

Fig. 8. (a sinistra) Massimo Stanzione, Salomè con la testa del Battista (part.), 1617/1618, Roma, collezione privata, ©Manusardi srl Artphotostudio, Milano; (a destra) Massimo Stanzione, Salomè con la testa del Battista (part.), 1617/1618, Amsterdam, Rijiksdienst voor het Cultureel Erfogoed in deposito a Amsterdam, Bijbels Museum (Biblical Museum), ©Davide Le Grazie
Fig. 9. (a sinistra) Massimo Stanzione, Salomè con la testa del Battista (part.), 1617/1618, Roma, collezione privata, ©Manusardi srl Artphotostudio, Milano; (a destra) Massimo Stanzione, Salomè con la testa del Battista (part.), 1617/1618, Amsterdam, Rijiksdienst voor het Cultureel Erfogoed in deposito a Amsterdam, Bijbels Museum (Biblical Museum), ©Davide Le Grazie
Fig. 10. (a sinistra) Massimo Stanzione, Salomè con la testa del Battista (part.), 1617/1618, Roma, collezione privata, ©Manusardi srl Artphotostudio, Milano; (a destra) Massimo Stanzione, Salomè con la testa del Battista (part.), 1617/1618, Amsterdam, Rijiksdienst voor het Cultureel Erfogoed in deposito a Amsterdam, Bijbels Museum (Biblical Museum), ©Davide Le Grazie

mostrano una schiena ancora più portentosa e plastica nel quadro di Amsterdam, mentre il volto più riuscito di Salomè è nella tela di Roma. In ambedue i casi, invece, le mani della giovane e la testa del Battista sono deboli. E che la composizione sia stata un successo è ribadito dall’esistenza di una terza ripetizione già da me edita (Wannenes Genova, 1 luglio 2016, lotto 808; Fig. 11),

Fig. 11. Bottega di Massimo Stanzione, Salomè con la testa del Battista, attuale ubicazione ignota

questa sì di qualità inferiore e che ora scopro provenire altrettanto da Roma. La questione delle repliche o ripetizioni, che non sono copie, è, d’altronde, oramai tema à la page negli studi.

Come ho avuto modo di ribadire alla curatrice Maria Cristina Terzaghi, lievemente perplessa dinnanzi al dipinto romano esposto in mostra, il senso per così dire di delusione suscitato dall’acerbo risultato non deve spingerci a posizioni estreme sino al rigetto dal catalogo delle opere. Siamo tenuti a valutare la singola attribuzione in considerazione dell’ancora lacunoso, primigenio corpus del pittore. Questi non sarà, con evidenza, membro della classe 1585 come riferisce il biografo napoletano Bernardo De Dominici, lo lamentava già Ulisse Prota Giurleo; ma almeno di un quinquennio successivo (l’argomentazione è indirettamente accolta dallo Iommelli nell’intestazione del suo Cat. 16, ma non in quella del suo Cat. 19; la notizia, poi, che il maestro sia oriundo di Frattamaggiore, riferita unicamente al Cat. 16, è solo del settecentesco Onofrio Giannone).

La pala di Giugliano da me prima menzionata, che si è rintracciata nei depositi di Palazzo Reale a Napoli (Figg. 12, 14-17),

Fig. 12. Massimo Stanzione, Presentazione di Maria al tempio, 1615 ca., Giugliano, Santissima Annunziata (foto precedente al 1980)
Fig. 14. Massimo Stanzione, Presentazione di Maria al tempio (part.), 1615 ca., Napoli, Palazzo Reale, depositi, ©Viviana Farina
Fig. 15. Massimo Stanzione, Presentazione di Maria al tempio (part.), 1615 ca., Napoli, Palazzo Reale, depositi, ©Viviana Farina

tutto sommato mal nota, per quanto fortemente menomata, racconta di un maestro cresciuto all’ombra di Battistello Caracciolo ma con l’occhio rivolto al vecchio Giovan Vincenzo Forli, colui che andava coordinando il cantiere del soffitto della basilica dell’Annunziata. Era il 1615, come narra la data iscritta nel medesimo soffitto ligneo (Fig. 13),

Fig. 13. Volta del soffitto della Santissima Annunziata di Giugliano, dettaglio con la data «1615»

forse anche poco prima; e la nota di conto del 1618, trascritta dall’erudito ottocentesco Agostino Basile, sarà da ascriversi non al momento dell’esecuzione, ma possibilmente al pagamento procrastinato della Presentazione al tempio. Com’è, d’altronde, pensabile che Stanzione ‘parlasse’ il dialetto di Giugliano anche una volta rientrato da Roma dove egli fu entro la Pasqua del 1617? Nello statico e imponente racconto religioso il pittore, che sarà stato poco più che ventenne, mostrava infatti grave impaccio nell’organizzare la scena e nel disporre le figure, ancora prive dell’armonia che siamo soliti riconoscere al Guido di Napoli.

È da qui che bisogna partire per non stupirsi delle incertezze della Salomé. Ipotizzare il ritrovamento di un originale ancora mancante significherebbe al momento spezzare le reni a un gracile corpus pittorico che verrebbe privato del tassello riempitivo al passaggio dalla pala di Giugliano alla Pietà di Palazzo Barberini, oramai somma riflessione sulle gravi masse battistelliane che cade al di là dell’apertura del terzo decennale.

Viviana FARINA   Napoli  aprile 2019