di Pietro di Loreto
Apre a Milano, a cura di Rossella Vodret, la mostra Dentro Caravaggio, ideale proseguimento del volume Caravaggio Opere a Roma (Silvana ed. ) incentrato sulla tecnica stilistica e sulle indagini diagnostiche di opere romane di Caravaggio, cui Beatrice de Ruggieri e Marco Cardinali furono coautori. Questa conversazione con loro ripropone il problema dell’importanza -ancora poco stimata in Italia- delle indagini scientifiche come supporto al lavoro dello storico dell’arte
1D- Vorrei chiedervi innanzitutto come nasce il vostro interesse per questa particolare disciplina della diagnostica applicata alle opere d’arte, sulla quale avete sviluppato competenze che vi sono riconosciute a livello internazionale.
R- Beatrice: Nasce inizialmente grazie a Corrado Maltese, un vero maestro, un’autentica punta intellettuale del suo tempo, appassionato di questo indirizzo di studi; poi con le esperienze in ambito universitario quando si verificavano i prototipi introdotti da Sebastiano Sciuti, noto fisico e scienziato, per rendere portatile la fluorescenza dei raggi X; in seguito, con la specializzazione post laurea a Siena; così, mano a mano abbiamo acquisito la consapevolezza delle profonde radici culturali di questi interessi e dell’importanza fondamentale di questo metodo di lavoro che è divenuto per noi il modo di fare storia dell’arte.
R- Marco: Aggiungo che la nostra prospettiva è completamente dentro la storia dell’arte e non nasce per chissà quale forte passione verso la tecnologia; quello che dobbiamo al nostro maestro –da cui, come solitamente è nell’ordine delle cose, ci siamo via via differenziati- è sostanzialmente l’abbrivio che è stato di carattere semiologico, cioè lo studio dei segni interni alle opere d’arte, strutture dotate di materia e di contenuto espressivo in funzione delle scelte tecniche e materiali di un artista.
2D- Tra poco approfondiremo questo discorso sulle tecniche e sui materiali, ma intanto vi chiederei un aggiornamento sugli ultimi strumenti e sui più recenti metodi d’indagine diagnostica applicata alle opere d’arte. Si parla di imaging di MA-XRF, ecc , come lo spieghereste ad un lettore di About Art amante delle belle arti ma magari non addetto ai lavori.
M– La domanda è importante. Credo di poter dire che da questo punto di vista, circa gli strumenti e i metodi di analisi, ci troviamo ad un punto che rappresenta una grande occasione per gli studiosi e in particolare per gli storici dell’arte; in effetti, alle indagini diagnostiche viene ora riconosciuto un ruolo significativo anche da parte di storici dell’arte meno propensi ad accogliere il contributo della tecnologia. A mio avviso ciò è dovuto alla recente grande spinta delle tecniche di imaging, in grado di produrre immagini dotate di una sorta di capacità sintetica sia nel senso formale che caratteristico, cioè analitico. Mi spiego meglio: la scansione MA-XRF, che noi abbiamo avuto possibilità di sperimentare, è un’analisi che ci consente di acquisire informazioni analitiche circa la presenza di un elemento attraverso la sua distribuzione formale, descrivendo le pennellate in cui è contenuto; per cui ad esempio è possibile rilevare un determinato metodo nella stesura di un pigmento, che viene individuato non solo da un’analisi chimica bensì descritto nel suo impiego figurativo. E’ evidente allora che nello studio di un dipinto stile e procedimento tecnico formano un binomio inscindibile.
B– Interessante è anche il fatto che le indagini di imaging, come la radiografia o l’ultravioletto, sono di tipo qualitativo, invece con alcune delle analisi recentemente introdotte si arriva perfino ad avere informazioni sulla forma cristallina di un composto senza fare prelievi ed ottenendo dati di notevole rilievo scientifico.
3D- Eppure, nonostante questi metodi ed i loro riscontri scientifici, entrambi esprimete a volte, nelle vostre pubblicazioni, la considerazione che ci si può sbagliare; come lo spiegate?
B– Certo, il fatto che si parla di indagini e rilievi scientifici può erroneamente far pensare che i risultati siano del tutto sicuri, ma non è così; come ama dire una simpatica restauratrice, per sapere davvero come dipingeva un artista occorrerebbe avere la sfera di cristallo e nessuno di noi la possiede. I dati che forniamo con le nostre indagini non possono valere in maniera assoluta e definitiva, ma sono dati che debbono essere comparati con altri dati; quindi, per parlare delle indagini su Caravaggio – per noi un campo di studio fantastico perché abbiamo ormai rilievi diagnostici su molti dei suoi dipinti- ma lo stesso vale per Raffaello, Rubens, Rembrandt e così via, le nostre indagini forniscono certamente risultati di compatibilità ma tanto per capirci non ci possono dare la data o la firma …
M- In effetti, noi non stiamo praticando una scienza esatta, e ammettere i propri errori, per tornare alla tua domanda, non intende nemmeno perseguire alcuna captatio benevolentiae; la scienza esatta si fa in laboratorio su dei campioni, e il dipinto non è un campione dato ma una struttura complessa, invecchiata, che noi possiamo cercare di capire attraverso una sorta di percorso a ritroso; semmai applichiamo –questo sì – una metodologia scientifica alla ricerca storica e documentale; insomma, il nostro specifico compito, ma è anche una sorta di personale battaglia che stiamo combattendo, è far accettare che noi stiamo lavorando su documenti, perché una radiografia è un documento, né più né meno come un contratto d’affitto di un pittore nella Roma del Seicento, o come una nota biografica, e come ogni documento va interpretato. Per capire bene un documento è necessario conoscere bene il contesto, ma non solo; come ha ribadito di recente Michele De Sivo, occorre conoscere anche chi ha scritto un documento, per capirne l’affidabilità; ogni documento ha la sua storia, la sua grammatica, la sua sintassi. Allo stesso modo per capire bene un dato radiografico, ci si deve dotare di varie conoscenze da affinare e verificare continuamente, mettendo nel conto che ci sono dei limiti alla conoscenza, e questo avviene quando le informazioni in tuo possesso sono al limite delle condizioni di lettura. A quel punto si entra in quel territorio grigio della lettura ‘forzata’ o per meglio dire ‘fantasiosa’. Facciamo un esempio: quando la radiopacità ‘base’ della preparazione è confrontabile con la radiopacità propria della stesura pittorica, si rischia di confondere delle tracce casuali radiopache della preparazione con una struttura dotata di segno, il cui significato finisce per essere solo intuito, o meglio indotto. Ed è qui appunto che possono nascere gli errori.
4D- Chiaro, ma passiamo ad esempi concreti. Nel tuo saggio sul catalogo della mostra Caravaggio nel patrimonio del Fondo Edifici di Culto. Il doppio e la copia, tenutasi alla Galleria Barberini lo scorso luglio dove sono stati messi a confronto il San Francesco in meditazione di Carpineto di Caravaggio e la sua più problematica copia, insieme alla Flagellazione di Cristo e alla sua copia, proprio tu riferendoti alla Crocefissione di sant’Andrea in collezione Back-Vega derivato dall’originale di Cleveland (del quale Gianni Papi e Pierluigi Carofano hanno sostenuto l’autografia) hai scritto – a proposito della pubblicazione da parte del Papi – che si era persa una buona occasione, essendo stati esclusi dal dibattito sull’autografia proprio gli aspetti cruciali per la distinzione fra replica e copia, quali la costruzione delle ombre e la sovrapposizione delle pieghe del panneggio, mancando l’analisi stratigrafica, nonché la documentazione scientifica di confronto sulla tecnica compositiva.
M– Credo proprio che si sia persa un’ottima occasione per decidere in modo anche più esauriente sull’autografia del dipinto. Il restauratore, Bruno Arciprete, in effetti ha riportato alcune informazioni sulla base di indagini tipo la fluorescenza ai raggi X che sono semianalitiche, semiquantitative …
D- Perché parli di indagini semianalitiche ?
M- Perché possono caratterizzare i materiali senza individuarne precisamente né la posizione nella stratigrafia né la percentuale reale, e perché, a seconda di come sono state eseguite le indagini, è possibile dare maggiore o minore valore alle rilevazioni di un elemento. Comunque “semi” non vuol dire “pseudo”, ci mancherebbe. Il problema investe la metodologia degli studi; nel caso del dipinto Back –Vega faccio riferimento proprio al metodo di acquisizione dei dati; non c’entra nulla Arciprete ovviamente: a mio parere è mancata una regia interdisciplinare.
D- Tuttavia sollevi un grosso problema, cioè cosa sia preminente nell’indagine di uno storico dell’arte. Sempre a proposito di questo dipinto infatti, poco prima di Gianni Papi anche Pierluigi Carofano in un saggio comparso sul volume di Scritti in memoria di Maurizio Marini (Ed. Etgraphiae, 2015) ne aveva riconosciuto l’autografia caravaggesca sulla base dei riscontri stilistici e storici; significa insomma che gli storici dell’arte magari possano temere i rilievi tecnico diagnostici? E perché ci sarebbe questa resistenza a prendere in esame la diagnostica che pure potrebbe aiutarli nel loro lavoro di ricerca ?
B– Personalmente mi sono posta più volte il problema di questa diciamo così discrasia che si determina in qualche caso tra il nostro lavoro e quello più caratterizzato in senso storico artistico. Credo che in parte sia un problema dovuto alla formazione, al fatto cioè che in Italia la prevalenza di una certa cultura idealistica porti inevitabilmente a ridimensionare quanto le si potrebbe opporre; al contrario di quanto avviene all’estero, soprattutto nel nord Europa dove l’impostazione è meno ideologica e questo metodo di lavoro incentrato sulla diagnostica entra nelle università e negli studi accademici; noi stessi abbiamo contribuito a progettare e a realizzare corsi di studio che invece in Italia non esistono neppure.
D- Dunque è un problema che concerne la formazione stessa degli storici dell’arte.
B- Beh, in larga misura sì, secondo me; in Italia praticamente non esistono corsi sulla tecnica diagnostica applicata alla Storia dell’Arte, non c’è alcuna formazione specifica in grado di consentire ai laureati in questa disciplina di interagire coin i conservation scientists, di dialogare coi restauratori, non ci sono iniziative in questa direzione. Nel campo del ‘lavoro sul campo’ vi sono alcune eccezioni. Proprio sul terreno degli studi caravaggeschi Rossella Vodret si è sempre impegnata e si sta impegnando molto; noi abbiamo lavorato molto insieme a lei sulle possibili utilizzazioni delle indagini tecnico diagnostiche per questo tipo di studi. Certo, anche qui determinate cose sfuggono …
D- Cioè, per esempio cosa sfugge?
M- Io sono del parere che sfugga a volte la complessità dei risultati, che -anche in questo nostro campo specifico- credo non si debbano mai leggere in modo univoco; in sostanza, è come quando ci si trova di fronte ad un documento archivistico inedito che può prestarsi a diverse interpretazioni; quante volte è accaduto che una ‘lettura’ venisse poi corretta da un’altra? E’ un problema serio, che può investire direttamente il campo attributivo, laddove le cose davvero si complicano. Un conto è la formulazione di ipotesi che siano storicamente attendibili e successivamente avallarle sulla base di risconti ‘ottici’, cioè stabiliti dal mio occhio, operando quindi sul piano della capacità intuitiva, sostenuta da competenze storico-filologiche e di riconoscimento visivo. Altro è istituire un team, percorrere prospettive pluridisciplinari e operare riscontri non solo stilistici. Insomma, lo storico dell’arte non può più rappresentarsi come “san Gerolamo nel suo studio” (la citazione è di Maxwell Anderson), perché l’attribuzione non si risolve solamente con il raffronto stilistico. Ma è una constatazione ancora difficile da far digerire, dal momento che lo storico dell’arte è, tra le figure umanistiche, quello che ancora non accetta l’ausilio o il passaggio ad una metodologia scientifica multidisciplinare e sostiene tuttora lo studio individuale, malgrado non sia sempre in grado di intrecciare molteplici fonti e documenti. Al momento esistono le condizioni oggettive per accogliere il confronto con altre figure professionali, dal momento che non si possono conoscere tutti gli elementi di una questione, anche quelli specialistici. Tuttavia sono pochi coloro i quali accettano di ridiscutere gli equilibri e il valore dei diversi contributi alla ricerca. Questo ci riporta alla questione della formazione che sollevava Beatrice e che investe alla radice l’introduzione delle ricerche tecniche nel dominio della storia dell’arte. Essendo anche storici di questa particolare disciplina, di cui abbiamo ripercorso gli esordi, riteniamo che la specificità italiana derivi da un lato dalla sopravvivenza di un’impostazione idealistico-crociana in molta parte degli studi storico-artistici e dall’altro dal contesto in cui è avvenuto nel nostro campo lo sdoganamento delle indagini tecniche. Esso è intervenuto nell’ambito delle pratiche di conservazione, grazie al magistero di Cesare Brandi, con la conseguenza – tutt’oggi riscontrabile nei programmi universitari – che le ricerche tecniche siano previste nei percorsi formativi per restauratori e tecnici di laboratorio, ma non per storici dell’arte:una separazione assurda.
D- Per entrare dentro questo aspetto della separazione, o meglio della mancanza di un lavoro di squadra, come rispondete a chi sostiene che le indagini diagnostiche non possono avere valore di prova in campo attributivo, visto che a quei tempi i pittori si servivano delle stesse sostanze, degli stessi colori, dal momento che frequentavano le stesse botteghe, gli stessi rivenditori ?
B– Dico che questa obiezione è troppo semplificata ed è frutto di una visione anch’essa troppo riduttiva delle cose ed ignora tutte le problematiche relative al contesto, cioè a cosa poteva avvenire quando –ad es. ai primi del Seicento- un artista doveva preparare la tela da dipingere, con l’entrata in gioco del rivenditore di colori (nessuno, a quanto ne so, ha ancora studiato approfonditamente questo aspetto del ruolo delle botteghe) e di altri particolari fattori; ad esempio il fatto che i pittori frequentassero più Accademie e botteghe in uno stesso momento; ecco dunque che affrontare lo studio delle preparazioni non può limitarsi al discorso puramente merceologico.
M- Vorrei aggiungere che a mio avviso la polemica tra studiosi favorevoli o contrari all’utilizzo delle tecnologie lascia il tempo che trova, perché da un parte –quella dei favorevoli, chiamiamoli così- non c’è spesso coscienza della complessità e capita che si veda la tecnologia come una scorciatoia. Ciò rappresenta perfino un rischio maggiore rispetto alle obiezioni di quanti –dalla parte degli scettici- sono contrari per una questione meramente ideologico-aprioristica. Questo comporta che non vi sia un vero dibattito, un vero confronto; ci si dice che le botteghe dell’epoca vendevano gli stessi prodotti, gli stessi colori? d’accordo, ma non è anche possibile che in certe botteghe li preparassero in un modo e in altre in un altro ? a seconda magari se la bottega fosse quella di Lorenzo Carli piuttosto che quella del cavalier d’Arpino ? In questo senso, come ricercatore, come studioso, come tecnico, posso aspettarmi determinati risultati, seguire certe tracce e quindi in primo luogo posso preparare uno studio scientifico dei materiali adeguato ad un preciso contesto piuttosto che ad un altro. In secondo luogo, procedo ad un lavoro di approfondimento relativo alle caratteristiche proprie di un certo artista, che ovviamente – per restare agli esempi di Carli e Arpino– non sono uguali, come ognuno può capire; insomma, la questione di dove si compravano i colori può essere stimolante ma in sé non porta lontano. Per essere ancora più chiaro faccio un esempio: se trovo tracce di rame diffuso nella preparazione di alcuni quadri di Caravaggio, che non è una struttura cristallina, non è un pigmento e nemmeno un colore, ma è tuttavia riconducibile a un contesto di tempi e luoghi di esecuzione, come posso ricollegarlo alla circolazione dei materiali noti? Devo tralasciarlo come dato accidentale o focalizzare il mio interesse e accettare che anche la storia dei materiali pittorici è ben più complessa di come la si rappresenta?!
D- Va detto comunque che, come sappiamo bene, Caravaggio non aveva una bottega.
B– E’ vero, però è molto probabile che qualcuno collaborasse con lui.
D- Eppure, a leggere le vostre pubblicazioni, mi pare che siate tra coloro che non credono che Caravaggio replicasse i suoi lavori.
M- Ti rispondo che personalmente desidero, anzi pretendo che –come ho ripetuto già varie volte in questo incontro- si tenga conto della complessità. Vogliamo ritornare sul ‘caso’ della Crocefissione Back Vega ? Vogliamo dire che si tratta di una “replica” e non di copia ? Si approfondisca seriamente, perché in casi come questo emergono problemi che lo storico dell’arte non può padroneggiare, per tutto quello che abbiamo detto finora: la formazione, la mancanza di specifici corsi di studio ecc. Fin quando non affronteremo tutti gli aspetti che ho riassunto come ‘complessità’ sarà poco proficuo continuare a dividerci sull’autografia del singolo doppio di Caravaggio.
D- Tra i casi di doppi caravaggeschi c’è quello del San Francesco confortato da un angelo, ovvero San Francesco in estasi, attualmente collocato al Wadsworth Atheneum di Hartford, di cui è ben nota la versione attualmente nei Musei Civici di Udine; la presenza rilevata su questa seconda versione di parti riprese a quadrettatura fece propendere a suo tempo Maurizio Marini per una parziale autografia del dipinto, da molta parte della critica ritenuto invece integralmente copia.
B– I sistemi di trasposizione dall’originale alla copia sono molti, e la quadrettatura è uno di questi; tuttavia nelle nostre indagini diagnostiche relative all’ambito caravaggesco questo lo abbiamo finora verificato solo sul san Giovannino della Galleria Doria Pamphilij, mentre risulta più frequente in ambiente diverso e in anni successivi, cioè negli anni venti/trenta e oltre del Seicento, in ambito classicista e barocco, laddove esistono anche disegni preparatori, a loro volta quadrettati, per l’appunto. E’ vero piuttosto che in assenza di tracce materiali di trasposizione, è probabile che si fosse utilizzato il riporto da lucido. In ogni caso è logico che queste copie o repliche -che sono del tutto identiche agli originali- debbano essere state eseguite utilizzando un sistema di trasposizione meccanica, ed è possibile che poi non se ne riscontrino le tracce materiali.
M- Posso aggiungere che nel caso della trasposizione da velo si è ai limiti della possibilità di individuare tracce materiali. E’ anche vero che studiando le copie seicentesche, ad esempio di Caroselli, alcuni procedimenti appaiono più chiari. Si affina la ricerca delle tracce di trasposizione, che possono presentarsi in modo diverso rispetto ai dipinti del ‘500: la pennellata di biacca può ad esempio aver sostituito la traccia di carboncino per fermare lo spolvero. In effetti la pennellata di biacca sopra il gesso trasmesso da un velo è certamente una trasposizione seicentesca di quanto si faceva nel ‘500, quando occorreva fermare il carbone; il fatto è che il ‘500 lo si è studiato più approfonditamente sotto l’aspetto tecnico, per di più con la contingenza favorevole di una migliore compatibilità rispetto alle tecniche scientifiche d’indagine, mentre i materiali che troviamo nelle opere seicentesche sono più ostici sotto l’aspetto dei rilievi tecnologici; ecco, tutte queste cose fanno parte della complessità.
D- La recente esposizione a Palazzo Barberini dei due san Francesco in meditazione davanti alla croce ha dato la possibilità di mettere a confronto due lavori su cui la critica non sempre è stata d’accordo, anche se ormai prevale l’opinione che l’originale sia il quadro in deposito a Palazzo Barberini (già Carpineto Romano) e copia il dipinto della Chiesa di santa Maria della Concezione. Leggendo le vostre relazioni tecniche molto circostanziate ho visto che nella preparazione che Caravaggio pare utilizzasse, in particolare quando –come scriveva Bellori– iniziò a “ingagliardire gli scuri”, non compare il “nero carbone”, in nessuna delle due versioni, cosa che ha rafforzato l’opinione di chi nega l’autografia di entrambi i dipinti e sostiene che un altro dipinto sia da ritenere originale.
M- In realtà il “nero carbone” non compare in nessuna opera di Caravaggio, se si escludono le Sette Opere di Misericordia dove nella preparazione c’è abbondanza di “nero carbone”, ma in questo caso siamo di fronte ad un quadro che presenta molte problematicità, dovute alla situazione stratigrafica assai complessa, che deve essere ancora studiata; e poi se parliamo di di mestica, questo dato si può leggere al contrario, cioè come diminuzione della biacca nella preparazione.
D- Quindi non si può dire che la frase “ingagliardire gli scuri” si riferisca ad una preparazione particolare basata sulla presenza massiccia di “nero carbone” ?
M- No, “ingagliardire gli scuri” per me significa utilizzare maggiormente il tono medio di fondo, che è quello che viene filtrato dalla preparazione, e quindi impostare una preparazione con caratteristiche cromatiche particolari. Quando si analizzano i dipinti del Merisi, ci si accorge effettivamente della diminuzione sempre più brusca della biacca nella preparazione, cosa che è compatibile con quanto descritto dalle fonti. Riguardo ai due san Francesco occorre considerare che nella versione da Carpineto -a differenza del dipinto della Chiesa dei Cappuccini – il bianco di piombo è sostanzialmente assente nella preparazione. Un singolo parametro non è ovviamente significativo in sè nel dibattito attributivo e va inserito nella ricostruzione di un insieme di tracce materiali e processi esecutivi. A tal proposito vale la pena ricordare la querelle sull’uso o meno del cinabro nella miscela degli incarnati che ha diviso per anni gli esegeti di Caravaggio. Generalmente non riscontrato, è poi comparso in maniera molto netta nei personaggi dei dipinti giovanili. Oggi lo riscontriamo anche nel San Francesco in meditazione che non è un dipinto giovanile … ma poi emerge mappato nello stesso modo anche nella Maddalena Doria (oggi grazie alle indagini MA-XRF possiamo descrivere i tocchi di cinabro sull’orecchio), con una somiglianza anche stilistica che lascia pochi dubbi.
B– Aggiungo che Bellori quando dice “ingagliardire gli scuri” sta guardando dei dipinti e seppure fosse un letterato preparato e ben addentro alla pittura – fu anche pittore – comunque sta guardando il dipinto finito e non all’interno dello studio del pittore. La famosa “preparazione a vista” che tanto viene citata nella letteratura caravaggesca di tipo tecnico, non si vede quasi mai “a vista”, dato che è quasi sempre velata con velature che scuriscono le ombre, fatta eccezione per quei dipinti in una condizione di conservazione precaria dove la preparazione è visibile perché si sono perse le velature. Tutto ciò per dire che quello che noi vediamo nei quadri di Caravaggio è la preparazione velata e questo è un punto di grande importanza che intreccia anche –cosa che spesso viene dimenticata- l’aspetto della tecnica esecutiva e del processo esecutivo con lo stato di conservazione.
M- Devo far notare come tutto ciò manca nella preparazione degli storici dell’arte perché non è oggetto di corsi o studi universitari, tanto è vero che uno studente di storia dell’arte ha generalmente difficoltà a giudicare il degrado di un dipinto non ben conservato; noi stessi, come storici dell’arte, abbiamo fatto tesoro dell’esperienza con i restauratori per acquisire una tale competenza,.
D- E la tecnica cosiddetta “ a risparmio” a quando risale ? E’ successiva al periodo romano di Caravaggio?
M- Si, possiamo dire che inizia allorquando l’artista comincia a rovesciare, diciamo così, quello che possiamo definire l’equilibrio chiaroscurale dei suoi dipinti; il fatto è che scurendo una preparazione le stesure pittoriche hanno il compito di schiarire, mentre, con una preparazione chiara la pittura scurisce. Il fine di tale trasformazione dei procedimenti esecutivi è essenzialmente stilistico; quindi andare a cercare una tecnica a risparmio nella sua prima produzione o nei suoi esordi lombardi è una falsa pista, eppure c’è chi la persegue; questo perché c’è chi valuta l’aspetto tecnico non nella sua dinamica evolutiva ma come dato caratteristico: c’è l’incisione ? allora è Caravaggio; la preparazione è impiegata a risparmio? è Caravaggio… e così via. Entrare ancora in queste pseudo categorie fa sorridere; può anzi capitare che l’incisione più ‘caravaggesca’ nei due san Francesco messi a confronto fosse per paradosso proprio nella copia. L’incisione del resto fu una pratica comune a vari artisti; noi l’abbiamo trovata in Regnier, in Spadarino, in Saraceni, i quali ultimi due, partecipi della Schola di Caravaggio, non è escluso a priori che possano averne avuto contezza osservando proprio il lombardo e che lo abbiano visto lavorare. Insomma, la presenza di questa tecnica non va sottovalutata ma neppure considerata come conditio sine qua non, come prova provata dell’autenticità di un quadro caravaggesco.
B- Per finire il discorso sul “nero carbone” voglio far rilevare come -a parte le Sette Opere del Pio Monte di Napoli- allo stato attuale degli studi Caravaggio sembra non averlo usato praticamente mai; usa il nero fumo, non il nero carbone che è caratterizzato da grani piuttosto grossolani !
D- Voi insistete molto –lo avete scritto e lo avete fatto anche in questa conversazione- sulla complessità dei lavori, sulla necessità dell’approccio interdisciplinare, sul confronto operativo, ma quando poi parlate della mancanza di formazione, della mancanza di studi e di corsi preparatori, come pensate di operare, di superare questi limiti, o anche solo di convincere i dubbiosi sull’importanza del supporto delle tecniche diagnostiche nello studio dei dipinti ?
M- Noi abbiamo sempre promosso ricerche interdisciplinari, cercando il confronto, il dialogo con le istituzioni e in qualche caso siamo anche riusciti a stipulare convenzioni e impegni ma talvolta transitori. Attualmente la nostra collaborazione con la Bibliotheca Hertziana per la costituzione di una banca dati che raccolga tutto quanto prodotto intorno al tema del caravaggismo è una prospettiva confortante per la diffusione di una metodologia di ricerca integrata con ricadute anche nella didattica e nella formazione. Il sostegno alla iniziativa da parte di grandi musei quali il Museo di Capodimonte o il Kunsthistorisches Museum di Vienna è un segno importante, anche se non possiamo non rilevare che il motore dell’iniziativa sia una istituzione non italiana. Riuscire a stabilire rapporti con le istituzioni in Italia non è affatto agevole per gruppi di ricerca privati e indipendenti, particolarmente se investono campi di studio che le istituzioni, universitarie e anche museali, hanno generalmente sottovalutato. Pensa che per ironia della sorte abbiamo a lungo sostenuto negli scritti e negli interventi a convegni, anche in ambito internazionale, una definizione – “diagnostica artistica” – che rispecchiasse il ruolo storico di alcuni studiosi italiani nei primi sviluppi della disciplina. E’ un fatto che la definizione maggiormente diffusa e accettata sia anglosassone –Technical Art History – e peraltro di difficile traduzione.
D- Vorrei ora chiedere ad entrambi un parere sulla prossima mostra curata da Rossella Vodret a Milano intitolata significativamente “Dentro Caravaggio” ed incentrata –a quel che se ne sa- proprio sul tema delle indagini diagnostiche; è un evento che potrà servire ad aprire meglio la strada a questi studi?
B- Beh, non ne sappiamo molto. Certamente vi sarà un incremento dei dati tecnici disponibili, ma in ogni caso è arduo ritenere che la mostra possa produrre un cambio di rotta rispetto a quanto abbiamo detto, forse un convegno avrebbe potuto – o potrà – avere maggiori riscontri; in ogni caso il problema della interdisciplinarietà non può essere risolto da singole, se pur lodevoli, iniziative, ma può essere affrontato solo tramite interventi istituzionali.
M- Per noi è stato molto importante il lavoro curato assieme al compianto Giorgio Leone, a Rossella Vodret e a Giulia Silvia Ghia intitolato Caravaggio Opere a Roma, Tecnica e stile (ed. Silvana, 2016) che considero un punto fermo nell’analisi dei modi pittorici dell’artista indagati tramite la ricerca tecnico scientifica. Credo anch’io che allo stato presente degli studi non si senta tanto la necessità di un’ulteriore mostra su Caravaggio, quanto della istituzione di centri di ricerca e Database in grado di fornire nuovi strumenti per integrare e visualizzare dinamicamente la grande quantità di dati e immagini che sono stati raccolti negli ultimi decenni.
D- L’ultima domanda riguarda il vostro specifico lavoro: quale è stata fino ad ora la ricerca che da un punto di vista professionale vi ha dato le maggiori soddisfazioni?
B- In ambito caravaggesco la ricerca sui ‘doppi’ e in particolare l’aver offerto alla discussione la proposta di attribuzione a Bartolomeo Manfredi delle copie del San Giovanni Battista della Galleria di Palazzo Corsini conservata al National Museum di Stoccolma e del San Giovanni Battista di Kansas City a Capodimonte, due copie di Caravaggio di grande rilievo filologico e notevole valore artistico.
M- Aggiungo a questo riguardo che gli elementi che abbiamo acquisito studiando la tecnica di Manfredi ci hanno consentito di estrapolare elementi che si ritrovano in alcune copie di Caravaggio così da consentirci puntuali osservazioni comparative. La questione dei ‘doppi’ di Caravaggio va ripensata mettendo al centro della ricerca le copie. Analogamente non si può studiare Caravaggio senza i caravaggeschi. Quindi è necessario partire dallo studio delle copie, degli strumenti di copiatura, ma anche della trasmissione delle immagini. Recentemente mi sono imbattuto in copie da Caravaggio che si trovano in Messico. Sono molto interessanti per molteplici motivi, a partire dalla ricostruzione del percorso che le ha condotte lì, visto che il transito delle iconografie dall’Europa al Nuovo mondo, in particolar modo le immagini sacre, era fortemente controllato; per cui non può non stupire la scoperta che l’unica copia di medesimo formato del San Girolamo Borghese che si conosca si trovi in Messico… Ecco la dimostrazione di quanto lavoro ci sia ancora da fare