di Pierluigi CAROFANO
Il Professor Pierluigi Carofano -che sentitamente ringraziamo- ha lavorato da lungo tempo intorno alle tematiche del caravaggismo, approfondendo in particolare le numerose questioni sorte intorno a quello che è unanimente considerato un capolavoro rivoluzionario giovanile di Caravaggio, da lui ribattezzato “Il Baro” (e non “I Bari“, come spiega nell’articolo); in questa sede presenta agli studiosi e agli appassionati gli ultimi risultati delle sue indagini.
Chiunque abbia letto l’agile monografia di Helen Langdon, Caravaggio’s Cardsharps o, meglio ancora, chiunque conosca anche per sommi capi la storiografia relativa al Baro di Caravaggio, sa quanto sia complicata la questione intorno a quell’opera celebre[i] [fig. 1]. Quesiti ancora aperti riguardano la sua data d’esecuzione, l’iconologia, anche i varî passaggi di proprietà (a fronte di un’esegesi puntigliosa delle fonti e dei documenti), lo stato di conservazione, finanche la piena accettazione dell’autografia caravaggesca: insomma, per molti aspetti – certo non secondari – possiamo dire che questo dipinto a tutt’oggi è ancora un rebus.
Fermo restando l’assoluta certezza che il Baro costituisce, per l’arte occidentale del tardo rinascimento, un punto di svolta a livello iconografico/iconologico, ma anche di organizzazione di un dipinto con la rappresentazione di ‘mezze figure’, sulla scia delle ‘pitture ridicole’ fiamminghe e veneto-lombarde, da qualche tempo, con alterne fortune, cerco di raccogliere intorno a quest’opera (e ad altre di Caravaggio) quante più informazioni possibili circa la sua fortuna figurativa attraverso la catalogazione di copie che talvolta, se in buono stato ed integre, possono fornire moltissime informazioni sul modello. Ricordo che Federico Zeri amava ripetere che quando un’opera d’arte diventa famosa, non c’è soltanto il desiderio di possederla, ma anche la volontà di moltiplicarla, spesso a scopo di lucro ma anche semplicemente (e non poi così raro) per diffonderne la conoscenza.
Negli ultimi anni, lo studio di questi argomenti ha subito un’accelerazione rapida al punto da diventare una sorta di leitmotiv della ricerca in ambito caravaggesco[ii]; tuttavia, devo dire che, a fronte del grande sforzo operato in termini di ricerca filologica e documentaria sul reperimento (o sulle notizie dell’esistenza) delle copie di opere di Caravaggio, che ha dato comunque i suoi frutti, ci si è meno interrogati sul loro status, sulla loro adesione più o meno fedele al modello, anche sulla loro datazione: particolare questo da non trascurare poiché potrebbe costituire – con tutte le cautele del caso – un utile monitoraggio temporale dei cambiamenti subiti dal modello stesso[iii].
Date queste premesse, non sarà inutile ad esempio ricordare che un quadro del Caravaggio con la rappresentazione di giocatori di carte con un baro all’opera non è citato da due fonti principali sul Merisi come quella del Mancini e del Baglione; soltanto molti anni più avanti l’iperclassicista Bellori ne darà una descrizione a tutt’oggi insuperata:
Ed un altro [quadro] degno dell’istessa lode nelle camere del cardinale Antonio Barberini, disposto in tre mezze figure ad un giuoco di carte. Finsevi un giovinetto semplice con le carte in mano, ed è una testa ben ritratta dal vivo in abito oscuro, e di rincontro a lui si volge in profilo un giovine fraudolente, appoggiato con una mano su la tavola del giuoco, e con l’altra dietro si cava una carta falsa dalla cinta, mentre il terzo vicino al giovinetto guarda li punti delle carte, e con tre dita della mano li palesa al compagno, il quale nel piegarsi su ‘l tavolino espone la spalla al lume in giubbone giallo listato di fascie nere, né finto è il colore dell’imitazione[iv].
Sulla scia di quanto sostenuto da Maurizio Marini e ultimamente da Claudio Strinati, tengo a precisare che, sebbene la tela oggi al Kimbell Art Museum di Fort Worth sia sempre presentata col titolo I Bari, a mio parere quello corretto in realtà è Il Baro perché nel dipinto un solo giocatore sta barando e in modo spudorato aiutato dal compare. L’altro, all’opposto, è un giovane ingenuo e compunto attirato dai due criminali in una situazione più grande di lui in cui è certo che soccomberà. Il gioco dello ‘sbaraglino’ o del ‘tuccatiglio’ (antenato del moderno backgammon) sul tavolo potrebbe essere lì a prova che, prima di giocare a carte, i due furfanti hanno intrattenuto l’ingenuo di turno con un gioco meno impegnativo e meno rischioso per conquistarne la fiducia.
È un soggetto che, a tutta prima, potrebbe sembrare tipico del Caravaggio: infatti, gran parte della manfrediana methodus si basa sulla rielaborazione dell’argomento dei giocatori di carte e talvolta dei bari[v]. Caravaggio peraltro è descritto come frequentatore di taverne e giocatore lui stesso. Ma in relazione alla storia artistica del maestro bisogna affermare con decisione che, invece, non è così. Caravaggio non ha mai neanche sfiorato quest’argomento nelle sue opere successive e il dipinto del Baro, originalissimo in sé e di notevole qualità, non è assolutamente tipico della sua parabola.
Non firmato né datato (ma questo è tipico del Merisi), Il Baro di Fort Worth è considerato un’opera giovanile sia perché vi sono raffigurati dei giovanissimi (quelli che giocano sono a mala pena adolescenti anche se uno ostenta lo spadino, mentre il ‘suggeritore’ è un uomo che potrebbe essere trentenne e alquanto male in arnese avendo un guanto bucato anche se veste con la stessa ostentata eleganza e raffinatezza dei due adolescenti), sia perché il modello del ragazzo che sta scrutando le sue carte sembrerebbe la stessa persona che Caravaggio ritrae sia nel Fanciullo che sbuccia il melangolo sia nell’angelo dell’Estasi di san Francesco oggi al Wadsworth Atheneum di Hartford [figg. 2-3]. Dato che entrambe queste opere sono considerate giovanili, anche il Baro è ritenuto giovanile[vi].
Inoltre la materia pittorica del Baro assomiglia molto a quella riscontrabile sulla Buona Ventura Capitolina oggi considerata autografa del Caravaggio e giovanile [fig. 4]. Peraltro, su entrambi i quadri (Baro e Buona Ventura) sul verso è presente lo stemma del Monte impresso con la ceralacca[vii].
Come è noto, il Baro è citato nell’Inventario del Monte del 1627; sarebbe poi passato ad Antonio Barberini dopo la vendita del Monte e poi al ramo Barberini Colonna di Sciarra. Scomparso dopo la vendita fallimentare Sciarra nel 1899, è stato poi riconosciuto nel quadro oggi al Museo Kimbell di Fort Worth[viii]. Gli inventari di altre famiglie nobili romane citano spesso versioni del Baro; infatti, di tempo in tempo, riemergono copie antiche (o almeno considerate tali, più che versioni autografe ulteriori) del quadro. Anche del Ragazzo che sbuccia il melangolo sono emerse molte copie antiche (in questo caso l’originale non è mai stato riconosciuto) e anche dell’Estasi di san Francesco si conosce una copia antica oggi a Udine Musei Civici[ix].
Ma il caso del Baro è il più clamoroso. Le copie antiche, infatti, superano la ventina e sono tutte scrupolose e sembrano gareggiare nell’avvicinarsi il più possibile all’originale in ogni aspetto, dimensioni comprese. Posto che l’originale sia veramente quello del Kimbell, questo fatto deve far riflettere e rimettere in discussione tutti gli aspetti della questione, oggi dati per scontati: datazione, esistenza di un unico autografo incontrovertibile, significato effettivo del quadro nell’ambito dell’opera generale del Caravaggio, possibilità di riconoscere i personaggi che sono tre evidenti ritratti[x].
Comunque resta l’eccezionalità assoluta di questo quadro nella carriera accertata fino a oggi del Caravaggio. Ci si può e ci si deve chiedere in quale ambito preciso siano nate tante, per lo più eccellenti, derivazioni.
Naturalmente quest’ambito non è unico; ad esempio la copia proveniente dalla collezione Mahon non sembrerebbe della stessa epoca della notevole versione già Knoedler Gallery a New York[xi] [figg. 5-6].
Di quest’ulteriore copia antica del Baro di Caravaggio non conosciamo la provenienza, né mi risulta che sia mai stata pubblicata e neanche ricordata nel fondamentale libro di Moir sulle copie da Caravaggio[xii]; è un olio su tela e misura cm 91×125,5 [fig. 7].
La sua storia recente è alquanto interessante perché vede coinvolto in prima persona Roberto Longhi, il massimo studioso di Caravaggio in tempi moderni in anni in cui non era ancora emersa dalle secche del mercato antiquario la presunta versione autografa del Baro, oggi a Fort Worth. Dalla documentazione in possesso dell’attuale proprietà sappiamo che il dipinto fu acquistato da tale Luigi Lancellotti nel febbraio del 1952 presso un’asta parigina (Prefettura de la Seine, 145, Bis rue d’Alesia; commiseur priseur Mo Boscher). In precedenza apparteneva alla signora Rey vedova Jourdan poi vedova Delinon che sosteneva di averlo ereditato dal primo marito Jourdan. In asta il quadro era corredato da una cornice ‘Luigi XIV’ in legno scolpito, separata dalla tela in occasione della vendita e rimasta a Parigi successivamente all’acquisto da parte di Lancellotti. Da Parigi il quadro poi fu spedito a Milano negli uffici della Pinacoteca di Brera per essere sottoposto alle pratiche di temporanea importazione.
Incuriosito dalla recente fortuna caravaggesca (la mostra di Milano del 1951; la monografia di Bernard Berenson su Caravaggio del 1951; Le dossier Caravage di Berne Joffroy del 1959, e soprattutto l’articolo pubblicato da Lionello Venturi nella rivista Commentari (1950) nel quale lo studioso attribuiva a Caravaggio una versione de Il baro in collezione privata a New York, subito rifiutata dalla storiografia successiva come autografo), il Lancellotti prese carta e penna e scrisse una lettera a Roberto Longhi (24 giugno 1960) – allegando fotografie non professionali del dipinto – e chiedendo un parere all’autorevole studioso. Questi gli rispose sempre tramite lettera datata 6 luglio 1960 (sulla carta intestata della rivista Paragone). Si tratta di un documento piuttosto interessante (che l’attuale proprietà possiede soltanto in xerocopia), scritto di pugno, del quale riporto di seguito alcuni passaggi:
Gent. Sig. Lancellotti, circa i suoi “Bari” caravaggeschi le foto da lei gentilmente inviatemi non mi permettono di giudicare; tuttavia posso dirLe che se, anche si trattasse solo di una copia antica, sarebbe fin qui la migliore da me vista (e ne conoscono almeno una ventina). Come Lei avrà visto dal mio articolo la foto che io pubblicai è certamente dall’originale perché fu eseguita dal Braun di Parigi nel 1899 quando il dipinto venne venduto con gli altri della coll. Sciarra […][xiii].
Allo scambio epistolare seguì un incontro nel quale il Lancellotti mostrò il dipinto a Longhi, consegnando allo studioso delle foto professionali effettuate dallo Studio fotografico Mario Perotti in Milano (notizia deducibile dalla lettera inviata da Lancellotti a Longhi in data 26 ottobre 1960). In seguito Lancellotti fece eseguire delle indagini radiografiche sul dipinto, forse anche delle indagini chimiche; questo materiale fu probabilmente inviato a Roberto Longhi, ma a questo punto della vicenda la documentazione da me consultata si interrompe (l’ultima missiva di Lancellotti a Longhi è del 2 novembre 1960). Dalla lettura del carteggio spicca l’apprezzamento di Longhi nei confronti del dipinto (“se, anche si trattasse solo di una copia antica, sarebbe fin qui la migliore da me vista”) che è anche la ragione di questa mia breve comunicazione.
Dunque, mi è sembrata una bella occasione di fare conoscere (e presentare alla comunità scientifica) un’opera che a livello qualitativo si colloca tra le migliori copie del Baro eseguite a Roma sull’abbrivio del Seicento da parte di un pittore di stretta osservanza caravaggesca. La lettura del dipinto, ed anche le sue peculiarità stilistiche, si leggono oggi molto meglio grazie anche all’ottimo intervento di pulitura da parte dello Studio di Restauro snc di Sassuolo e delle indagini fisiche eseguite dalla Diagnostica per l’Arte Fabbri di Davide Bussolari [figg. 8-9]
È importante sottolineare come le dimensioni del dipinto (cm 91×125,5) si avvicinino alla versione del Baro di Fort Worth (cm 91,5 x 128,2), ed anche le dimensioni delle figure, così come le distanze tra loro, coincidono sostanzialmente con il quadro di Fort worth. Ne deriva che il nostro autore è partito da un ‘lucido guida’ derivato dal dipinto oggi in America, quindi deve aver avuto accesso diretto al prototipo o informazioni precise su di esso.
Rispetto al modello si caratterizza per una maggiore ricerca psicologica (specie nel giovane ingannato) e da una maggiore adesione alla manfrediana methodus nella resa dei colori e delle ombre sfumate rispetto al modello, al punto da sospettare che il suo autore sia poi diventato un pittore di rango, forse da individuarsi proprio tra quei copisti di Caravaggio tanto ricercati dal Mancini?
di Pierluigi CAROFANO Agosto 2017