di Giuseppe RESCA
Capitolo XI: i Mattei
Il nuovo stile caravaggesco emerso nelle opere di commissione pubblica a partire dal 1600, da noi descritto con il termine “scientifico”, perché scientifica è l’indagine delle emozioni, dei sentimenti, della fisiologia stessa della percezione sensoriale, non viene meno negli anni che seguono.
Si sovrappone negli stessi anni a una sua ulteriore nuova maniera, che definiremo “oscura” e analizzeremo in un prossimo capitolo. Come se il pittore si sdoppiasse in due: quello che rimane lucido artista naturalista e quello che si introflette nelle spire di una realtà inconscia persecutoria. E il percorso di ciascuna delle due parti procede parallelo, esattamente parallelo all’altro, come fosse opera di due artisti diversi. Nel corso del 1601 Caravaggio lascia Palazzo Madama, in cui vive presso il Cardinal Del Monte, e accetta l’ospitalità del Cardinal Girolamo Mattei, amico del primo. Le ragioni sono ignote, ma è indiscutibile che Caravaggio abbia coscienza ormai di dipingere per la storia e non per un gruppo di intellettuali. Con le commissioni pubbliche Caravaggio è diventato un pittore politico, e Roma vive da sempre di politica.
I fratelli Mattei comunque sono tre, e il Cardinale non è il collezionista tra loro, ma un rigido francescano molto timorato di Dio e da ciò motivato al tema politico centrale dell’epoca nella Città Eterna: la rappresentazione di Cristo.
Che aveva in precedenza fatto la sua comparsa nell’opera di Caravaggio solo una volta, nella Vocazione di Matteo, dove il protagonista non era il Salvatore, ma il gabelliere vestito, come i suoi pari, di indumenti sgargianti dal taglio naturalista. La figura del Cristo, tuttavia, pur marginale al cospetto del vistoso gruppo dei convitati, incarnava ugualmente lo spirito del messaggio: il vecchio mondo (la Bibbia) che parla al nuovo (gli affari).
In ogni modo, chiunque sia il committente, Caravaggio nel periodo Mattei dipinge ben quattro quadri cristologici: la Cena in Emmaus della National Gallery, l’Incredulità di Tommaso di Potsdam, la Coronazione di spine di Vienna e la Cattura nell’Orto di Dublino. A questi si devono aggiungere almeno due altri quadri profani: l’Amor vincitore e il San Giovannino dei Capitolini Tutta questa serie ha sì in comune una fenomenale resa pittorica, la cui concezione si avvale però di un elemento non nuovo, ma reinterpretato: la ricerca dell’illusionismo, che si aggiunge al bagaglio esecutivo dell’artista, quasi a evidenziare ancora di più lo speciale naturalismo di cui è dotato. Il capolavoro assoluto di questa serie è la Cena in Emmaus.
Il soggetto del quadro è un episodio misterioso di storia sacra: la straordinaria riapparizione di un uomo che è certamente morto e sepolto, il Cristo appunto:
“Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede a loro. Allora si aprirono loro gli occhi, e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista” (Luca, 24,30-31).
Ma quell’evento era stato preceduto da una prima apparizione:
“Dopo ciò, apparve a due di loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna” (Marco, capitolo 16).
Cosa intende l’evangelista con sotto un altro aspetto? Che certamente Cristo non vuole farsi riconoscere subito. Ma in che modo ha fatto per non farsi riconoscere? Si è mascherato o ha subito una metamorfosi risorgendo in un’altra persona? Conoscendo il suo modo di pensare, credo che Caravaggio abbia dato la risposta escatologica: non è da lui fare inganni. E poi chi dice che si risorgerà con l’aspetto che abbiamo in punto di morte? E se uno muore crocifisso, risorgerà anche la croce con lui?
Fino a questo punto Caravaggio mostra di dar credito alla storia evangelica, che lo vuole risorto prima del giorno del Giudizio. Perciò lo dipinge in forma di un giovane, a simboleggiare l’uomo nuovo che è: capelli sciolti e senza barba. Nessuno lo aveva mai prima rappresentato così, sotto questo aspetto.
Ma questo aspetto può convincere noi, che non l’abbiamo conosciuto di persona; molto più difficile ingannare chi ha passato con lui gli anni migliori della propria vita e, soprattutto, lo ha visto morire in croce. E qualcuno lo ha visto anche morto e sepolto, al punto che l’apostolo mima il gesto delle braccia in croce, nel ricordo di quando lo vide per l’ultima volta.
Tutta la scenografia che Caravaggio imbandisce sulla tavola è volta a convincere noi spettatori di oggi, ed è puro illusionismo: un trucco un po’ dozzinale, ma scodellato da un inimitabile mago. Il pane, il vino dell’eucaristia, la brocca dell’acqua del Battesimo, il gesto benedicente. Non mancano nemmeno i simboli cristologici: la cesta di frutta della redenzione, un già visto nella stessa pittura di Caravaggio, la Canestra per San Carlo. O l’ombra del pesce sul bianco della tovaglia, simbolo di lui tra i primi cristiani. Noi, non si può dubitare: si tratta del vero Cristo.
Ma insisto: tutto questo non basta a convincere chi l’ha visto morire; e tutto quel caravanserraglio men che meno avrebbe convinto Tommaso, che avrà bisogno di mettere il dito nella piaga per credere.
Perciò Caravaggio ricorre nel quadro, per far sobbalzare dalle sedie gli astanti, a un espediente che ha provato mille volte nella propria percezione allucinatoria: dipinge una apparizione mistica. Uno di quei fenomeni che, in psicopatologia, vanno sotto il nome di “falsi riconoscimenti”, quando crediamo di riconoscere qualcuno dai suoi modi, anche se l’aspetto fisico è quello di un altro. Che avvengono sì quando la mente è turbata, ma dipendono dal fatto di due realtà che si sovrappongono. Quali realtà nel quadro?
Il Cristo emette ombra, quella del braccio disteso in benedizione. E la emette perché egli è reale, perfettamente risorto. Ma l’ombra che lo circonfonde non è la sua: è quella dell’oste che si stampa sul muro. Ecco due realtà: credere e non credere. Perché l’oste non crede, e per questo non vede, ma la sua ombra sì, è lì per testimoniare. E diventa l’ombra che certifica la reale presenza del Cristo.
Un trucco anche questo? Piuttosto un altissimo magistero. Perché Caravaggio sa fare del miraggio una verità, della favola una realtà. In un attimo l’illusione si fa realtà, certificata dal perfetto illusionismo del quadro, che fa persino dubitare che sia dipinto sul piano, tanto è pieno di finti scorci prospettici.
Finzione o realtà? Illusione al servizio della realtà, sembra specificare Caravaggio, che si permette persino di filosofeggiare: verità attraverso uno specchio magico, come quelli dei maghi.
L’illusione che si fa realtà simula l’approccio propriamente scientifico nell’Incredulità di Tommaso, dove un gruppo di apostoli sperimenta la realtà del corpo di Cristo come farebbe un anatomopatologo in un’autopsia. Perché è certo che Caravaggio condivide fino in fondo l’atteggiamento di Tommaso, dal momento che lui stesso esamina fino all’ultima parola la dizione “sotto un altro aspetto”, che non lo convince a priori. E Cristo che dice a Tommaso: “Perché mi hai veduto hai creduto; beati quelli che pur non avendo visto crederanno”, non ha un approccio scientifico. Ma Caravaggio non si espone, sapendo che, facendolo, subirebbe la fine di Giordano Bruno. Lo farà Rembrandt al posto suo. E sono certo che abbia studiato questo quadro nel progettare la Lezione di Anatomia del dottor Tulp: rappresentazione di scienza medica a tutti gli effetti, ma con poesia infinitamente minore del Nostro.
Nella Coronazione di spine la tridimensionalità della scena diventa addirittura spettacolare. Viene ripresa una soluzione di ingegneria meccanica, già applicata alla Crocifissione di Pietro, ed è aggiunta in primo piano la figura dell’armigero seduto sulla balaustra, in un trompe-l’oeil di sapore tizianesco.
Nella Cattura di Cristo nell’orto, Caravaggio inserisce sé stesso, con l’autoritratto, mentre sporge in avanti una lampada per illuminare la scena. È la seconda volta, dopo il Martirio di Matteo, che si fa partecipe in prima persona: quando è così, vuole comunicare qualcosa in presa diretta. Filosofeggiare, in questo caso.
La lampada, grazie alla quale dovrebbe far luce, emette in realtà un fioco chiarore che non illumina la scena, la cui fonte di luce è altrove. E perché Caravaggio si esprime così? Se volesse davvero vedere, la luce della lampada sarebbe più forte.
Credo che invece egli voglia sincerarsi: essere sicuro che si tratti proprio di Giuda, che fu l’amico di un tempo, come fu il traditore per lui (l’Arpino). E siccome si tratta di tradimento, lo ritiene talmente impossibile da non volere nemmeno vederlo.
Ma il tradimento agisce nell’ombra, non alla luce, e il tradimento si insinua, parallelo, anche nell’animo di Caravaggio. Per questo egli soffre, ma di nascosto, progettando forse il delitto di cui si macchierà di lì a poco. E darà conto di questa premonizione in quella serie di quadri alla maniera oscura, di cui parleremo.
Quanto ai due quadri profani, sono talmente carichi di simboli che l’illusionismo diventa vitale. Nel San Giovannino ai Capitolini usa addirittura l’artefatto di sostituire la tradizionale raffigurazione del Battista con una insolita rappresentazione di Isacco, il figlio di Abramo. Nudo, anziché rivestito della solita pelle di pecora; allegro, persino ridanciano, anziché pensoso e sofferto; privo del bastone con la scritta ecce homo, e abbracciato a un montone, anziché all’agnello.
Non si era mai vista una simile impostura: i pittori erano fedeli all’iconografia tradizionale. È evidente che i due quadri, Amor vincitore e San Giovannino, procedono in coppia, a rappresentare quel che al momento Caravaggio pensa di sé: di essere un eversore, disceso nell’Arte per rivoluzionarla nei suoi stessi principi fondanti.
Se la pittura è nella sua essenza illusione, non è la realtà altrettanto illusoria? Amore che distrugge le arti, e San Giovanni che sopprime il passato (non è forse colui che è venuto ad annunciare al mondo la venuta di Cristo?) non sono dunque eresia, se li si rappresenta siffatti. Nudi, ma nuovi. Non come i Nudi di Michelangelo, nella Volta della Sistina, che li idealizzava, ma nudi davvero, come sono i ragazzi. Persone, non personaggi: protagonisti di una nuova stagione pittorico.
Cap. XII Caravaggio indecente
Tutti i dipinti citati nel precedente capitolo sono indirizzati a una committenza privata, i Mattei soprattutto.
Ma non per questo il pittore cessa la sua attività pubblica; continua a dipingere anche per chiese, seppure in modo saltuario. Sono di questo periodo le due versioni del San Matteo e l’angelo, pala centrale della cappella Contarelli; la Madonna dei Pellegrini, in Sant’Agostino; la Madonna dei Palafrenieri, per San Pietro; la Morte della Vergine, per Santa Maria della Scala; la Deposizione, per la chiesa della Vallicella. Un lavoro immane, come si vede, inframezzato da un indefesso procedere anche per commissioni private.
La più parte di queste opere venne ricusata, e poche sono quelle rimaste nei siti cui erano destinate. La ricusazione vale per la prima versione del San Matteo e l’angelo, per la Madonna dei Palafrenieri, per la Morte della Vergine, e pure per la Deposizione. Perché tale rifiuto? Le ragioni addotte nei documenti sono svariate, e probabilmente alcune pretestuose (erano in molti gli intenditori d’arte che cercavano di speculare su Caravaggio), ma è innegabile il fatto che il più delle volte si trattava di questioni di decoro.
Due erano le principali obiezioni: le tipologie dei Santi e i costumi delle Madonne. I modelli erano persone reali, gli uni scelti tra la povera gente che popolava quel mondo; le altre erano in genere prostitute, qualcuna persino molto in vista tra gli aficionados, qualcun’altra raccolta a casaccio nel popolino minuto.
Nel caso della prima versione del San Matteo (distrutta nel secondo conflitto mondiale), indubbiamente la figura del vecchio non aveva nulla di nobile, come si addice a un santo: è un villico un po’ anzianotto, dalle forme sgraziate, completamente privo di cultura, che appena appena sta imparando a scrivere. Un proletario (allora si era in parecchi) che non conosce l’educazione, e infila i piedi proprio sotto il naso dello spettatore. In san Luigi dei Francesi i laterali, sempre dipinti da Caravaggio, già presentavano il Santo ora come un coscienzioso gabelliere di alto lignaggio intento al mestiere, ora come un eroico sacerdote caduto sotto i colpi di un assassino prezzolato. Non si poteva accettare di vederne una terza versione, anche se questa era la più realista di tutte: il popolino dei fedeli alla Messa era esattamente come lui, e avrebbe apprezzato di vederlo in campo a rappresentarlo.
Ma c’è una ragione sottile che non va trascurata, anche al prezzo di ingenerare parecchi malintesi: la posa equivoca dei protagonisti. Potrebbe sembrare che l’angelo, nel guidargli la mano, lo stia in realtà carezzando, e lo sguardo attonito del santo, anziché ignoranza, potrebbe significare sorpresa. E le nudità che ostentano i due, in quell’abbraccio, potrebbero valere come un implicito accordo per una unione immorale, che coinvolge un vecchio e un fanciullo.
Se c’è da prendere partito tra una ragione teologale (non erano i poveri i prediletti da Cristo?) e una sessuale, sappiamo bene da quale parte pende la bilancia. Comunque, il quadro fu ricusato, per due motivi anziché uno solo.
Se mi dilungo su tali questioni epistemologiche, che sembrano esulare dal tema del processo creativo, è perché esiste più di un sospetto che sia proprio la componente sessuale quella che sta alla base dello stesso. È stato ipotizzato da alcuni, non molti in verità, che Caravaggio fosse omosessuale, e da altri che disprezzasse le donne. È facile smontare queste posizioni. Non so se lo fosse (una o entrambe le cose), ma è certo che queste non c’entrano niente con il suo processo creativo.
Quando Caravaggio dipinge ha una sola meta, e una sola matrice: la verità delle cose. E se dipinge dei nudi (l’Amor vincitore, il San Giovannino ai Capitolini) è perché la nudità è un tramite per rivelare una verità della cosa dipinta.
E questo vale anche nel caso della
il cui seno imponente fa mostra di grande potenza salvifica, nella battaglia contro il Male (il Serpente).
E pure la Madonna dei Pellegrini, col suo passo di danza sul portone di casa, esercita un’attrazione, sui poveri pellegrini in preghiera, non di natura erotica, ma anch’essa salvifica (e infatti è l’unica ad essere stata lasciata in situ).
Diverso il caso della Morte della Vergine. Può essere vero l’aneddoto per cui Caravaggio dipinge, nel personaggio della Vergine morta, una prostituta annegata nel Tevere. Egli, infatti, aveva vissuto una terribile alluvione del fiume, che aveva sterminato buona parte della popolazione, e di morti affogati ne aveva visti parecchi. E nella sua retina di pittore naturalista i loro lineamenti enfiati dovevano essergli rimasti particolarmente impressi.
Ma nel quadro, l’indefinitezza dei contorni vale a svelare l’attimo del trapasso: la morta ha appena esalato l’ultimo respiro, e gli astanti non se ne sono ancora accorti, immersi come sono in una cupa disperazione. Nessuno di loro si è ancora mosso a ricomporre le membra, abbandonate a se stesse in un istante.
Ma se proprio si vuole inferire qualcosa dai quadri a proposito della sessualità di Caravaggio (e non del suo processo creativo), si può confermare la sua forte pulsione erotica verso le prostitute, difficilmente, però, immaginabile come perversa. Perché in realtà egli tratta la donna sempre con infinito rispetto, in un atteggiamento che è quasi di adorazione: non dipinge mai un nudo, non un particolare lascivo (non lo sono nemmeno i capezzoli induriti di Giuditta). E soprattutto, tra le tante denunce a suo carico non ve n’è una per maltrattamenti a una donna.
La forza della pulsione erotica (sempre Giuditta), combinata con la gelosia per gli amanti della prostituta che la impersona (Fillide), se proprio deve indurre a immaginare qualcosa è una forma di impotenza, di cui prova vergogna. Così da covare vendetta, al punto di uccidere (Ranuccio Tomassoni, l’amante).
Conclusione: Caravaggio è indecente per come dipinge, non per quel che dipinge
Giuseppe RESCA Roma 25 Giugno 2023