Caravaggio secondo la psicanalisi; il processo creativo del Genio. Cap. IX: Agli albori della Rivoluzione e Cap. X: L’ultimo spartito.

di Giiuseppe RESCA

Termina con questi due ultimi importanti articoli, il contributo che il Dottor Giuseppe Resca, psichiatra e psicoterapeuta, ma qui nella veste di noto e attento collezionista nonché fine e preparato conoscitore di Arte antica, ha dedicato al “processo creativo” di Caravaggio sulla base di una precisa analisi scientifica secondo un percorso interpretativo della genesi delle opere dell’artista alla luce della psicanalisi. Giuseppe Resca ha già dedicato a questo tema un primo contributo nel libro presentato anche in questa sede (cfr https://www.aboutartonline.com/caravaggio-profiling-una-sorprendente-rilettura-delle-opere-del-genio-un-movente-inconscio-unisce-tutti-i-comportamenti-delittuosi-del-pittore/ ), è intenzione dell’autore riproporre in una pubblicazione completa anche i 10 capitoli che cortesemente ha concesso ad About Art in anteprima. 

Capitolo nono: agli albori della Rivoluzione.

In questa fase della sua pittura, che coincide con le prime commissioni pubbliche, Caravaggio perde i soggetti per lui abituali: le nature morte, i quadri di figura, le scene di genere. Ora deve dipingere storie.

E non più per i suoi committenti colti, i Del Monte, i Giustiniani, rappresentanti di quella cerchia intellettuale che rivestiva una élite di prestigio, persino internazionale. Ora dipingeva per il popolo, perché il popolo riempiva le chiese e ad esso erano destinati i suoi quadri.

La cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi (1600), e solo poco dopo la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo (1601) erano ora i suoi palcoscenici. E proprio i quadri dipinti per queste due chiese ci indicano la trasformazione del suo processo creativo, che precede di un attimo la mutazione che sta insorgendo nel suo animo.

Nella psiche la pulsione a portare-spada sta convertendosi in quella a dare-morte; nella mente creativa la Storia prende il posto della Natura.

Prima che la Spada detti legge nella sua pittura, la Storia impone ai quadri una lettura che sia coerente con l’anima del popolo (la Fede), senza essere infedele allo spirito turbato dell’artista (l’Istinto di Morte che procede spedito). Si vedrà in seguito se Caravaggio sia mosso o no dalla Fede nel dipingere le storie sacre. Ora ci serve capire come procede il suo Intelletto nell’indagare la Storia al posto della Natura. E non è un passaggio da poco.

Cappella Contarelli, 1600, Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesci

Nell’esecuzione dei quattro laterali delle due cappelle (Vocazione di Matteo, Martirio di Matteo, Crocefissione di Pietro, Conversione di Saulo), Caravaggio pensa scientificamente. Lo fa applicando ai quadri un metodo di indagine che appartiene a lui solo tra i pittori, ma tra gli uomini di scienza è ormai d’uso comune: il metodo scientifico, appunto. Osservare, ipotizzare, verificare, teorizzare. Cosa c’è di più semplice?

Cappella Cerasi, 1601, Roma, Santa Maria del Popolo

Ma è una particolare forma di talento naturale, precipua a lui solo, che lo guida nell’opera: la capacità di visualizzare qualsiasi, seppur minima, percezione sensoriale. È da questo pattern neuropsicologico che deriva la sua straordinaria facilità pittorica, che ha fatto gridare al miracolo. Ma è nell’applicarlo indifferentemente a realtà così diverse, Natura e Storia, che si misura il suo genio.

E quando diciamo che Caravaggio ora pensa, oltre che vedere, cosa intendiamo con ciò? Semplicemente che

Caravaggio sa tradurre in immagine non solo quel che vede, ma anche ciò che sente, ascolta, tocca o percepisce, e pensa. Ciò significa che la complessità della percezione, fatta di una molteplicità di sensi, viene da lui riunificata in un’unica immagine. In una parola, egli dipinge non la cosa in sé, ma la totalità delle cose che una cosa contiene.

Nella Crocifissione di Pietro in Santa Maria del Popolo dipinge il sentimento di vertigine provato dal Santo all’innalzamento della croce cui è affisso a testa in giù. Lo fa attraverso l’inquadratura sghemba dell’intersezione delle diagonali (la corda tesa e il braccio corto della croce), che risultano disassate tra loro, e con le bisettrici dei corpi di cui il quadro abbonda.

Fig. 3 Caravaggio, Crocifissione di San Pietro 1601 ca., Cappella Cerasi, chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma

Ma non basta: aggiunge lo sguardo del santo perso nel vuoto, come percorso da un tremito, quello che in semeiotica medica si chiama nistagmo, ossia movimento coniugato degli occhi involontario.

Ecco fatto. Con un’unica immagine illustra la paura che assale il poveraccio all’innalzarsi della croce, che pure aveva accettato spavaldamente, richiedendo lui stesso di essere crocefisso a testa in giù perché immeritevole di subire lo stesso supplizio del Cristo.

La vertigine è la chiave di volta della rappresentazione, e Caravaggio intinge il pennello nella vertigine, se intende rappresentare il coraggio con cui si affronta il martirio.

L’immediatezza della percezione sensoriale nasconde la verità della cosa percepita, perché la verità è spesso inapparente a prima vista. Caravaggio ha nel suo istinto lo strumento adatto a rivelare verità inapparenti. E questo è il fondamento del suo Naturalismo, diverso da ogni altro. Perciò continueremo a parlare di naturalismo anche ora, che di natura non vi è più traccia nella sua opera, perché si tratta di un metodo che si applica scientificamente.

E ne abbiamo conferma anche nel secondo laterale della cappella Cerasi, la Vocazione di Saulo. Dipinto che ebbe anch’esso una gestazione contrastata, come il Martirio di Matteo; le autorità, infatti, ebbero a ridire su una prima versione, giudicata troppo innaturale.

Verissimo, ma soltanto perché Caravaggio si era preso il lusso di illustrare una propria allucinazione, nell’apparizione di Cristo a Saulo della prima versione, ora Odescalchi.

Caravaggio, Conversione di Saulo, Roma, coll. Odescalchi

E ciò che sembrava apparizione innaturale allora (un Cristo in carne ed ossa, vestito da frate) non disturberebbe affatto oggi, che conosciamo la fisiologia delle allucinazioni: impressioni che si stampano negli occhi senza staccarsi più, al punto che, anche coprendoli, come fa Saulo nella prima versione, si continua a vedere, e a torturarsi.

Nella seconda versione, ancora in situ nella cappella Cerasi, Caravaggio, per niente piccato dal rifiuto ufficiale, non fa altro che trasformare l’allucinazione in visione: fenomeno che appariva molto più normale all’epoca, soprattutto ai prelati ammaestrati da Santa Teresa d’Avila.

Fig. 21 Caravaggio Conversione di San Paolo 1601 ca. cappella Cerasi, chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma.

La nuova raffigurazione del personaggio principale non è più quella di un guerriero disarcionato che vede la morte negli occhi (prima versione), ma quella di un Santo che si scioglie nell’estasi (le braccia aperte, come di un amante all’innamorata). La Luce divina lo sta penetrando, al posto dell’uomo-Cristo che lo infilzava. Saulo non muore affatto, percosso e sbalzato: rinasce in Paolo, l’Apostolo, sceso in terra non per perseguitare i cristiani, ma per salvarli. E come poteva non affascinare i credenti e i sacerdoti, loro guide spirituali, una tale lettura dei testi sacri (Atti degli Apostoli)?

Ma se ci dimentichiamo da dove deriva questa immediatezza di cogliere l’attimo, il fulcro di una scena, e tradurlo come un’istantanea sulla tela dipinta, non comprendiamo perché sia altrettanto scientifico indagare una percezione sensoriale (analisi dell’allucinazione) come un testo biblico (analisi della visione del Santo). E ci perdiamo la ragione per cui il suo processo creativo sia l’esatto corrispettivo del suo sentirsi perennemente offeso nella vita. E che nascano entrambe, creatività e suscettibilità, da una spiccata sensibilità della sua indole naturale. Ora elaborata culturalmente, ora no.

Per concludere: in questa sua fase artistica, il processo creativo di Caravaggio non appare ancora coinvolto dalla spirale istintuale che gli macchierà l’anima fino all’omicidio. Ma è comunque drammatico, perché è a metà strada tra l’anelito alla purezza e il sentore della tragedia imminente.


Capitolo decimo: l’ultimo spartito

 Nell’anno 1602 Caravaggio dipinge quello che è senza dubbio il suo capolavoro profano: l’Amor vincit omnia della Gemaldegalerie. Il dipinto è anche l’ultimo in cui sia presente uno spartito musicale.

Caravaggio, Amor vincit omnia, 1602, Gemäldegalerie, Staatliche Museen, Berlino

Non crediamo sia casuale che sia proprio a questo momento storico che egli concepisce il quadro, proprio all’intersezione tra la prima fase di produzione pubblica di limpida concezione (San Luigi dei Francesi e Santa Maria del Popolo), e una seconda fase in cui la sua opera si farà torva e oscura.

L’Amor vincitore di oscuro non ha proprio niente: ma, a suo modo, torvo lo è. Ma andiamo con ordine. Sappiamo ormai come la Musica sia per Caravaggio la forma d’arte che guida il suo processo creativo, nel periodo di produzione artistica che va dall’anno 1595 al 1599.

In tale fase egli adotta uno stile che definire musicale è quasi riduttivo: i suoi quattro dipinti cardinali dell’epoca, quelli che presentano spartiti musicali, non sono soltanto rappresentazioni live di concerti (come da prescrizione precisa del suo committente dell’epoca, il Cardinal Del Monte, intellettuale sublime particolarmente portato alle esecuzioni musicali), ma costituiscono una vera e propria sinestesia tra musica e pittura. Vedere tali dipinti significa anche ascoltarli: e questo era il senso che i fruitori dell’epoca recepivano in sincronia con la visione. Naturalmente, oggi non è più così automatico: si è persa la sincronia, e le musiche che noi ascoltiamo abitualmente non sono certo i madrigali di un tempo.

Per i contemporanei di Caravaggio non serviva nemmeno leggerli quegli spartiti che lui inseriva nei quadri. Se per noi oggi essi valgono come didascalie, come sottotitoli che ci permettono, al massimo, di comprendere il significato segreto della narrazione, per loro servivano proprio a cantarli quei madrigali, a intonare la voce alle note, a eseguire il concerto anche in assenza di concertisti.

E questa era la vera meraviglia che il Cardinal Del Monte proponeva ai suoi ospiti: guardare quei quadri come se si stesse a concerto, seduti in un auditorium, facendo a meno di cantanti e strumentisti. “È dell’Arte il fin la maraviglia” si dirà in seguito al fine di promuovere ai posteri lo stile barocco ormai morente: stupire, meravigliare oltre ogni limite. Con ciò si ha ragione di dire che questi di Caravaggio sono i primi quadri barocchi dell’epoca, nonostante il loro stile pittorico sia assolutamente classico. Non classicista, alla Guido Reni ad esempio, ma proprio classico, alla Raffaello, per intenderci. Classicista è chi imita lo stile che per convenzione si definisce classico (e in questo caso più che il termine imita si dovrebbe usare orecchia). Ma Caravaggio non orecchia. Inventa uno stile del tutto nuovo, che rappresenta al contempo l’apice supremo dell’Arte Rinascimentale e l’esordio dell’Arte Moderna, proprio come noi la intendiamo.

Ma subito dopo l’ultimo di questi dipinti (il Riposo al ritorno dalla fuga in Egitto, del 1599), compaiono nel corpus d’opera di Caravaggio due quadri che, al posto dello Spartito, presentano come icona chiave la Spada: la Santa Caterina d’Alessandria (1599) e il Martirio di Matteo (1600).

Caravaggio, Santa Caterina d’Alessandria, Madrid, Museo Nacional Museo Thyssen-Bornemisza

Da questo momento in poi sarà proprio la Spada a regnare sovrana nella vita e nell’opera di Caravaggio: arma volta a intimidire (e a uccidere) tanto nell’una che nell’altra.

Un sommovimento tellurico si è verificato nell’animo e nella coscienza di Caravaggio, tanto da fargli abbandonare quello stile che gli aveva fin lì aperto le porte del Gran Mondo dei Principi della Chiesa, e che gli avrebbe di certo consentito un fantastico sviluppo della sua carriera di artista (proprio in quell’anno 1599 gli fu dato l’incarico di sostituire l’Arpino nell’esecuzione dei tre teleri in San Luigi dei Francesi).

Con la comparsa nella sua psiche della compulsione a portare spada, non poteva più essere la Musica il motore del suo processo creativo. Troppo esili erano la forma e il contenuto del Madrigale per sorreggere la tensione emotiva che lo induceva a fare giustizia dei tanti torti subiti, delle umiliazioni che avevano lasciato una traccia profonda nel suo sentire, e che non perdonava mai al suo prossimo irrispettoso. Tanto è vero che l’ultimo quadro che contiene uno spartito (l’Amore vincitore, del 1603?) presenta sì un foglio vergato, ma è privo di un testo musicale identificabile. E lo stesso significato del quadro illustra come Amore (quello che gli psicoanalisti definiranno Eros, ossia la Pulsione creatrice per eccellenza) faccia strame di tutte le arti, di pace e di guerra che siano (ma soprattutto degli strumenti musicali), sconfitte e inerti come cadaveri ai suoi piedi. Un Amore sguaiato, perverso nella sua nudità impudicamente esibita ma ammantato da due ali imperiali, fa mostra irrispettosa di ciò che ritiene sia stato il mondo prima della sua discesa in terra: un coacervo di cose inutili. Verrebbe da dire che con la musica si sia ormai spenta in Caravaggio qualsiasi forma di empatia: risultato confermato dal seguito degli eventi della sua vita (a partire dal 1600 Caravaggio comincia a delinquere, in una escalation che lo condurrà all’omicidio nel 1606).

Non serve una grande dottrina per intuire che la musica dell’epoca di Caravaggio era genere artistico infinitamente più arretrato rispetto alle corrispettive forme visuali. Pittura, scultura, architettura avevano assunto nel Rinascimento un primato ineguagliato e ineguagliabile per un’arte sonora ancora legata ai canoni dell’Autunno del Medioevo (Huizinga). Non esisteva allora una musica al passo coi ritmi festinanti di Caravaggio, col suo incedere impetuoso, fatto di mutazioni e variazioni improvvise e imprevedibili, di anno in anno, di secondo in secondo. E, a parte la Camerata dei Bardi (comunque di epoca successiva), la stessa formazione musicale del concerto dell’epoca era cameristica: pochissimi esecutori e pubblico di soli veri esperti.

Caravaggio, invece, si era improvvisamente trovato a manovrare grandi masse di uomini per i dipinti storici che ormai dipingeva a partire dal 1600: il Martirio di Matteo ne è il primo esempio.

Caravaggio, Martirio di San Matteo, 1599-1600, Cappella Contarelli, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma.

Si dovrebbe dire che il Concerto non poteva essere più la forma di rappresentazione adatta a Caravaggio: lui aveva ormai bisogno del Teatro. Se nella sua opera pittorica (quella destinata al pubblico) le grandi Chiese romane erano un palcoscenico naturale per i suoi dipinti di storia, ispirati tutti alla feroce ideologia del Martirio, grondante Istinto di Morte, nella sua vita privata i suoi spettacoli si svolgevano nell’oscurità della notte, tra vicoli e piazzette di difficile accesso per la gendarmeria. Forse proprio in uno di questi, via di Pallacorda, ancora percorribile ai giorni nostri, si svolse il duello fatidico che lo consegnò all’imperitura fama di assassino. Quale musica avrebbe mai potuto accompagnare questo sviluppo? La musica del sussurro?

Pur essendo egli stesso un discreto esecutore musicale (nell’inventario dei suoi beni sequestrati figuravano chitarra e violino), erano tempi in cui l’agguato e il duello necessitavano di ben altro strumento: la spada. E quella violenza selvaggia che riscontrava nella storia dell’uomo, e che indefettibilmente illustrava nella sua pittura sacra, la ritrovava in se stesso per quella pulsione vendicativa che cresceva in lui di ora in ora.

Anche se aveva per soggetti pittorici i martirii, lui in realtà rappresentava se stesso, immedesimato nella stessa ferocia.

Ora, se la forma musicale conclusa sparisce dallo spartito di Caravaggio, i suoi dipinti mantengono comunque una colonna sonora. Perché, come in qualunque rappresentazione scenica che si rispetti, è sempre questa che veicola allo spettatore lo stato d’animo che la storia vuole infondere. E se si osservano a uno a uno tutti i quadri successivi di Caravaggio, si troverà per ognuno un corrispettivo sonoro. Che sarebbe difficile definire musicale, come è altrettanto difficile per un melomane tradizionalista accettare per musica la dodecafonia o forme affini di composizione.

Perché è proprio questo che si riscontra nei quadri posteriori di Caravaggio: un coacervo di suoni, rumori, grida e clangori dissonanti, che si vanno attutendo man mano che il pittore declina la sua parabola umana verso l’esecuzione a morte. Negli ultimi quadri (penso soprattutto al Seppellimento di Santa Lucia o al Martirio di Sant’Orsola), si è molto vicini al silenzio, intervallato soltanto dallo schiocco degli oggetti (le vanghe sul duro terreno) o dal sibilo, impercettibile quasi, nel breve percorso della freccia mortale.

Caravaggio, Martirio di Sant’Orsola, 1610, Napoli, Palazzo Zevallos Stigliano, collezione Intesa San Paolo.

È difficile, pertanto, trovare il musicista (l’autore della colonna sonora, diremmo oggi) che sta dietro al nuovo spartito di Caravaggio, il corrispettivo dei vari autori e poeti madrigalisti (Arcadelt, Layolle, Petrarca) i quali onoravano con la grandezza del nome le opere che il Cardinal Del Monte o il Marchese Vincenzo Giustiniani mettevano in scena (su libretto di Caravaggio s’intende).

Ma se si conosce il percorso psichico che la pulsione a dare-ricevere morte traccia nel processo creativo dell’artista (altrettanto che se si conosce la logica che sottende qualunque brano di dodecafonia, quasi predeterminato strutturalmente), non si avrà difficoltà a riconoscere come musica quella sequenza di suoni. Con tutto che la musica di Caravaggio (perché appunto tale la si deve intendere) non è assolutamente dodecafonica, che questa piaccia o no. Primo perché essa è profondamente passionale, quanto l’altra è intellettuale. Ma soprattutto perché è musica corale, e come tale la si deve intendere.

Nell’universo mentale di Caravaggio è istituito un grande processo, in cui lui è imputato, ma anche pubblico ministero, e giudice, e giuria. Manca soltanto una figura: l’avvocato difensore. Caravaggio, infatti, si autoaccusa, ed emette da sé la sentenza: la stessa già inflittagli dal tribunale ecclesiale. Vale a dire sentenza di morte. L’unica cosa ancora incerta è la data dell’esecuzione, che pare sfuggire al corso delle peregrinazioni della sua vita, e che nessuna autorità pubblica sembra volergli realmente infliggere, proprio grazie alle sue straordinarie valenze di inimitabile artista.

È del tutto evidente che tale processo mentale è corale, allo stesso modo dei tribunali reali, anche se non investe la coralità sociale. E non va valutato sul metro del senso di colpa, come verrebbe spontaneo immaginare: Caravaggio non si sente in colpa verso il suo prossimo, e non ha rimorso per le sue vittime.

Egli, piuttosto, si sente predestinato, come se assumesse la sua ragion d’essere dal registro della Predestinazione, se vogliamo rapportarla al tema religioso che aveva contrapposto la cristianità nella generazione che aveva immediatamente preceduto la nascita di Caravaggio. Ma meglio sarebbe inquadrarla nel registro del Fato, del Destino che presiede alle fortune degli uomini, e che resta immutabile qualunque siano le azioni di noi mortali.

La terribile ineluttabilità che assumono le sue azioni in vita, i suoi pensieri (perlomeno quelli documentabili, come l’affermazione riportata dal biografo Susinno: “i miei peccati son tutti mortali”), le sue pitture, che non lasciano margine al riscatto così come al perdono, rimandano concettualmente alla Tragedia Greca prima che a qualsiasi pregressa forma d’arte. E, a ben pensarci, la Tragedia stessa non era presso i Greci una forma d’arte, ma una lezione di vita: si frequentava il Teatro per imparare, non per divagarsi.

Caravaggio vive e opera come se fosse il protagonista di una Tragedia, e le sue opere sono come il diario dei suoi misfatti, veri o immaginari che siano. E se conoscessimo il tenore dalla musica delle opere di Eschilo, sono certo che non differirebbe affatto da quello di cui ci occupiamo.

Ecco quindi servita un’altra prerogativa dell’autore, di cui dobbiamo tener conto se vogliamo farci un’idea sensata della sua musica finale. Caravaggio è uomo e artista Tragico, nel senso greco della parola. E il personaggio che lui interpreta, inconsciamente non differisce dall’ultimo personaggio eschileo che compare nella Tragedia moderna: Macbeth di Shakespeare, cieco, come Edipo, di fronte a un Destino ineluttabile.

Né si può sottovalutare il peso che assume la Morte nella tragedia della sua vita: le opere di Caravaggio, dal 1600 in poi, trasudano sentimento di morte. E, se proprio volessimo cercare una colonna sonora che le accompagnasse degnamente allo sguardo, non dovremmo far altro che compulsare i Requiem che conosciamo: primo fra tutti il Requiem di Giuseppe Verdi. Vi sono parti di questo infinito capolavoro che ho sempre immaginato abbinate ad alcune opere di Caravaggio: nel Dies Irae riscontro lo sgomento (o terrore?) di ogni credente di fronte alla Morte, lo stesso che ritrovo nel volto del Gigante Golia, decollato ma ancora pulsante incredulità e panico.

Vorrei credere che nemmeno sia un caso che esso sia stato scritto in occasione della morte di Alessandro Manzoni: sono convinto che questi ben conoscesse la parabola terrena di Caravaggio (e forse anche qualcuna delle sue pitture). Ne fanno fede parecchie “coincidenze” che rimandano a Caravaggio nei suoi scritti, a partire dal titolo “Fermo e Lucia” che aveva dato alla prima stesura dei Promessi Sposi. Non sono Fermo e Lucia anche i nomi dei genitori di Caravaggio, Fermo Merisi e Lucia Aratori? E fra’ Cristoforo non si macchia dello stesso delitto di Caravaggio, per questioni di onore? Per non parlare dell’Innominato, dei tanti don Abbondio che circolavano nella cerchia caravaggesca (l’indimenticabile notaio Pasqualone), dei mille altri personaggi di cui sono piene le cronache giudiziarie di lui, della peste (una delle tante), del “susiego” dei nobili, della precisa ambientazione del romanzo nelle stesse aree pedemontane su cui si svolse la giovinezza del pittore. Se così stessero le cose, non va da sé che Caravaggio, nonostante l’eclissi secolare della sua figura nella storia dell’arte, finisca con l’essere l’ispiratore occulto del principale romanzo della letteratura italiana?

Caravaggio, dunque, tramite inconscio ai due grandi dell’Ottocento italiano? Una significativa rivincita perché, per quel che ne so, Verdi nemmeno lo conosceva. Di Caravaggio, infatti, si erano perdute le tracce a pochi anni dalla sua morte, e la riscoperta ufficiale della sua opera va fatta risalire a Roberto Longhi, nel Ventesimo secolo.

Ma le Idee trascendono i protagonisti, e si tramandano nella mentalità a prescindere da chi le professa. Vero è che la sconfinata desolazione dello spirito caravaggesco trova riflessi in quasi tutti i Requiem che ho ascoltato negli anni, anche solo per il sentimento di morte che li pervade. Persino nelle musiche funeree di Prokofiev per l’Alekxandr Nevskij riscontro le note della solitudine umana del pittore, soprattutto in quell’inizio plumbeo e disperato, che bene descrive la temperie della sua tragica fine.

Caravaggio, Davide e Golia, Roma, Galleria Borghese

Perciò, non è il caso di ricercare chi, tra i musicisti, gli è debitore di cosa: sarebbe più giusto chiedersi chi, tra gli artisti moderni, non gli è debitore di nulla. Perché Caravaggio, proprio per il suo solitario individualismo, è storicamente il primo artista per cui la soggettività dell’Io si fa contenuto essa stessa. E trapela in ogni frammento della sua opera, fino a prevalere su ogni altro significante nel doppio autoritratto dell’estremo dipinto, il Davide e Golia tuttora Borghese. Che, a buon diritto, si candida ad essere il primo quadro “moderno” della Storia dell’Arte.

Giuseppe RESCA   Roma  Giugno 2023