Caravaggio secondo la psicanalisi; il processo creativo del genio. Cap. XIII: la maniera oscura; Cap. XIV: i crani.

di Giuseppe RESCA

Capitolo XIII: la maniera oscura

Questa fase straordinariamente feconda di capolavori è una seconda età dell’oro nel processo creativo di Caravaggio.

Le sue opere, invece di nascere immerse nella luce apollinea della sua prima fase giovanile, vivono dentro una luce mentale, esatta e implacabile, che ne sviscera e sviluppa le forme, quasi guidata da una nuova divinità: Minerva. È per tale ragione che il suo lavoro assume un registro scientifico: diventa indagine clinica degli episodi storici, o delle allegorie rappresentate, che si configura ormai come una critica marcatamente esibita del buon senso comune.

È per tale ragione, e nient’altro, che Caravaggio va incontro ai peggiori insuccessi della sua carriera pubblica: una per una le sue opere vengono rigettate e non più sostituite, come una volta in San Luigi dei Francesi, da commissioni riaffidate a lui: la Morte della Vergine per Santa Maria della Scala viene affidata dagli Oratoriani a Carlo Saraceni. La Madonna dei Palafrenieri, destinata alla nuova Basilica di San Pietro, culla della cristianità, vi rimane solo per pochi giorni: come si può dipingere la Vergine Maria nei panni di una puttana che espone un seno voluttuosamente florido, rinnegando a sé il ruolo di seconda Eva che riscatta il peccato originale, per affidarlo al figlio nudo, cui sembra stia insegnando a camminare?

1 Caravaggio Madonna con Sant’Anna (dei Palafrenieri) 1606, Galleria Borghese, Roma
2. Caravaggio, Morte della Vergine (part.), Parigi, Louvre

Va bene il naturalismo, vanno bene gli interpreti proletari, ma qui si passa decisamente il segno: guai a toccare la Vergine Maria, glorificata a Roma alla faccia dei Protestanti. Oltretutto, il pittore insiste nel suo peccare: rieccolo dipingere la Vergine nei panni smorti di una puttana, ripescata, suicida, dal Tevere.

Caravaggio ha stancato. Il rifiuto delle opere nemmeno gli viene comunicato: le caricano su un carretto e le portano via. Voleva essere consacrato a nuovo Michelangelo, sceso in terra a ribaltare il mondo delle arti, e si dimostra infine per quello che è, ed è sempre stato: un iconoclasta, con pericolosi spunti eretici. La Chiesa si sta irrigidendo. Il pauperismo borromaico non è più di moda e si va verso la celebrazione del nuovo primato universale: la Roma dei Papi.

Così Caravaggio si chiude in una protesta. Un silenzio pubblico, in cui la sua voce si fa sentire attraverso una nuova serie di quadri a devozione privata: immagini di Santi, eremiti e anacoreti, che vivono la propria solitudine umana immersi in un mondo ostile, notturno, intricato. È lo stesso processo mentale che lui sta attraversando: l’incoercibile impulso a fare vendetta. Non sul mondo, da cui ancora aspira favori, ma sui singoli uomini che l’hanno tradito. Caravaggio sta progettando omicidio.

Il primo dipinto di questa serie è un San Giovanni Battista, ora a Kansas City: quadro esaltante per l’efficacia dell’uso di luce di cui fa prova. Luce fredda, che modella forme perfette, ma allude ancor più a pensieri reconditi che nulla hanno di luminoso. Pensieri di morte (san Giovanni sarà decollato), di solitudine (san Giovanni abita i deserti), di confusione mentale (fin dove dovrà spingersi la sua professione di fede?).

3. Caravaggio, San Giovanni Battista nel deserto, 1604 ca., Kansas City, The Nelson-Atkins Museum of Art

Anche Caravaggio la pensa così: fin dove dovrà spingersi la sua arte, così estranea al corretto o la sua mente assassina con le sue fantasie?

Le orbite oscure degli occhi nascondono alla luce le ruminazioni dell’anima: una soluzione formale che applicherà d’ora in poi alle creazioni di questa serie pittorica. Che prosegue in un secondo San Giovanni Battista, in Galleria Corsini: luce più dolce, ma animo altrettanto turbato.

4. Caravaggio, San Giovanni Battista, 1603 – 1606, Roma, Galleria Corsini

La bellezza suadente del corpo nasconde l’intrico dell’anima, che è ben rappresentato da quei mostri informi che sbucano appena dalle ombre notturne: radici, tronchi spezzati e lontane voci di bestie indistinte. Si è lontani anni luce dal San Giovannino (o Isacco che sia) ai Capitolini, dipinto da pochi mesi soltanto. La chiarezza è la stessa, ma l’oscurità ha prevalso.

5. Caravaggio, San Giovanni Battista, Galleria Borghese, Roma

Per la prima volta si nota come il processo mentale e il processo creativo in Caravaggio divergano: è questo il momento esatto della scissione. Forse il quadro che meglio la illustra è il Cristo nell’orto (distrutto a Berlino nell’ultima guerra): Cristo cerca di svegliare gli apostoli, così come la sua coscienza critica (quella artistica) fa nei riguardi del sordo mondo interiore. Da questo punto in poi Arte e Pulsione non viaggeranno più parallele, ma la prima diventa lo specchio impotente dell’altra.

6. Caravaggio, Cristo nell’orto degli ulivi, già Berlino, Kaiser Friedrich Museum (distrutto durante l’incendio del Flakturm Friedrichshain)

E la serie continua con il San Girolamo a Montserrat, in cui Caravaggio dà un saggio della sua tanto decantata invenzione luministica: la luce che piove dall’alto in una stanza oscura.

7. Caravaggio, San Gerolamo penitente, Monastero di Santa Maria, a Montserrat

Già i primi biografi pongono l’accento su questa sua nuova maniera. Scriveva Bellori che Caravaggio si serviva di “un lume alto che scendeva a piombo”, e ribadiva Sandrart che il pittore amava lavorare in un locale buio illuminato dall’alto. Ma questi sono solo espedienti, perché per Caravaggio la luce è sempre formante, da dovunque provenga. Ma quello che conta davvero non è l’effetto formante, comunque presente, bensì la capacità di rivelare quel che sta sotto, o dentro, la superficie.

Nel caso degli incubi, che sempre più assaltano dal profondo la sua mente debilitata, la luce può poco, come ben poco poteva la luce fioca della lampada illuminare il tradimento di Giuda (nella Cattura di Cristo).

8. Caravaggio, La Cattura di Cristo nell’orto, Dublino, Galleria Nazionale

L’artista (Cristo) non riuscirà a svegliare l’uomo (gli apostoli) che dorme. L’uomo trascinerà l’artista in fondo all’abisso. Una profezia che già adesso intravede, con lucidità.

Ultimo della serie, il San Francesco in meditazione, di Cremona, aggiunge allo schema ormai classico un nuovo elemento iconologico: il cranio di un morto.

9. Caravaggio, San Francesco in meditazione, Cremona, Museo civico “Ala Ponzone”.

Per verità, qualcosa di analogo lo avevamo notato già nel San Girolamo Montserrat: ma lì si trattava di un teschio, un oggetto silente, un pochino anche in ombra, per nulla impegnato in un dialogo muto con il Santo. Era un puro elemento di complemento a rappresentare la classica iconografia dell’anacoreta.

Ma il cranio che ci appare ora non è una semplice comparsa: esso introduce addirittura un nuovo capitolo del processo creativo di Caravaggio. Capitolo cui fa da icona proprio il cranio, che vogliamo trattare a parte, affinché abbia la rilevanza cui ha diritto.

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Capitolo quattordicesimo: i crani

Nel mondo del collezionismo di arte antica, un filone ragguardevole di adepti si raduna attorno al soggetto della “Vanitas” con un atteggiamento ora elitario ora esclusivo, quasi una setta.

La Vanitas non si distingue tanto dal complesso della Natura Morta per il suo significato simbolico, ovviamente indirizzato al tema del memento mori; anche la Natura Morta, infatti, qualunque essa sia, vive e abbonda di significati simbolici. Come ben sa qualunque frequentatore del genere, persino il più elementare vaso di fiori allude virtualmente alla Morte, come del resto esplicita sufficientemente il nome stesso, Natura Morta.

Quello che distingue i due generi, e che è sufficiente e necessario da solo a definire il termine Vanitas, è la presenza del teschio nella composizione, quasi che esso diventi personaggio nel quadro, proprio per il rimando immediato al fattore umano cui allude. Ma si può estrapolare da ciò il concetto che qualunque quadro contenga un teschio è di per sé una Vanitas?

Come è noto, nella pittura antica, e in quella a tematica religiosa in particolare, c’è abbondanza di teschi nelle iconologie tradizionali; moltissimi Santi, ad esempio, hanno in tale elemento il proprio carattere distintivo: San Girolamo, San Francesco, la Maddalena, solo per fare tre esempi. E si può dunque affermare che tali rappresentazioni di Santi siano definibili Vanitas? A rigor di logica sì, anche se i personaggi, protagonisti nel quadro, diventano due: il Santo e il teschio.

10. Caravaggio, San Girolamo scrivente 1605, Galleria Borghese, Roma

Eppure, diventa difficile immaginare di definire Vanitas un dipinto quale il San Girolamo scrivente di Caravaggio in Galleria Borghese o il San Francesco in meditazione dello stesso artista alla Pinacoteca di Cremona. Appare infinitamente riduttivo circoscrivere il significato di tali dipinti alla pura contemplazione della morte.

E allora, cosa fa la differenza tra dipinti, come i due citati, e altri, che tranquillamente potremmo definire Vanitas?

La risposta potrebbe risiedere nella considerazione che, forse, non tutti i teschi sono uguali, malgrado la forma, e che c’è teschio e teschio a fare la differenza. Ma, allora, in cosa consiste la differenza? Per me ci sono teschi e ci sono crani.

Con tale distinzione intendo dire che il teschio ha un valore prettamente simbolico, di ordine generale; il cranio, invece, aggiunge a tale valore una caratteristica fisica, e storica in particolare: il cranio ha un morto alle spalle. Ma se si è così convinti che quello dipinto nel San Girolamo scrivente è un cranio, e sia diverso da tutti i teschi dipinti in precedenza, chi mai può essere il morto alle sue spalle?

Andiamo con ordine: il teschio è una Idea, il cranio una Cosa. Il teschio è astrazione, il cranio realtà.

È vero, peraltro, che teschio e cranio sono sinonimi: a livello linguistico non c’è differenza, e nel linguaggio parlato si possono usare l’uno o l’altro indifferentemente. Ma a livello semantico un cranio è una cosa diversa da un teschio: non conosco nessuno studente di medicina che all’esame di osteologia dica di aver studiato su un teschio anziché su un cranio. E, all’opposto, le famigerate SS esibivano teschi nelle mostrine, non crani.

Semanticamente, quindi, il teschio ha valore di simbolo; il cranio rimanda alla persona che lo ha abitato, ignota o conosciuta che sia la sua storia. Rosmunda fu costretta dal consorte Alboino a bere vino nel cranio di Cunimondo, suo padre: se si fosse parlato di un teschio, nessuno avrebbe mai creduto alla storia.

In pittura, la valenza simbolica del teschio fu esaltata dalla Controriforma, nel Sedicesimo Secolo, e i suoi massimi interpreti furono i Carracci, allo scorcio del secolo stesso. E allora perché i teschi di Annibale sono impersonali, mentre il cranio del San Girolamo si fa riconoscere? C’è motivo per cui viene da pensare all’individuo che è stato, prima che alla vanitas che rappresenta?

11. Caravaggio, San Matteo e l’angelo (prima del 1602; olio su tela, 223 x 183 cm; già a Berlino, Kaiser Friedrich Museum; distrutto durante l’incendio del Flakturm Friedrichshain)

Perché il Cranio e Girolamo, separati e uniti, parlano in due, ma di cose diverse. Non vi è ispirazione dell’uno sull’altro, come era per Matteo e l’angelo nella prima versione, fusi insieme in un’unica persona. Rimane tra loro, cranio e scrivente, un esile filo a unirli: lungo e sottile, che sta per spezzarsi. La morte è più vicina che mai, e corre sul filo: ma non per il solo Girolamo, che presto udirà suonare la tromba del Giudizio, ma per lo stesso autore, Caravaggio, che sta per uccidere.

Caravaggio è dunque quel Cranio, e parla al Girolamo che forse è ancora presente accanto a sé stesso. Che non lo ascolta però, intento com’è a recitare la vita, attraverso i suoi testi (i suoi quadri). Percepisce il messaggio che gli perviene dal fondo dell’anima, la Pulsione a dare morte, che finge soltanto di non riconoscere, ma non sa che essa è tanto vicina a lui da superare d’un balzo l’esigua distanza che li separa. La breve stagione di Girolamo sta per finire. Caravaggio, la sua stagione, sta per farla finire con l’omicidio.

Altrettanto si può dire del quadro: un cranio così è la prima volta che appare in pittura, perché è la sua concezione che è innovativa. Uniti e divisi: l’uomo e le sue Pulsioni. Caravaggio precorre la psicoanalisi, l’Istinto di morte dell’Uomo, con la propensione a dar-morte dell’uomo che è lui. Per non correre troppo, parliamo di quello che pensa, e non dell’artista. Caravaggio ricerca la verità che sta dentro alle cose, perché queste smettano di ingannare e di illudere, e schiettamente proclamino il loro messaggio: è questo che afferma nella sua testimonianza al processo del 1603. Verità che ricerca anche quando si trova a indagare la Storia, che per lui è, inequivocabilmente, la propensione umana a dare morte: questo riscontra quando pensa di sé, della propria volontà omicida.

Negli anni si scopre fedele al destino di morte, e centuplica le sue malefatte; ma in quegli stessi anni dipinge forsennatamente figure sempre più torve, assillate da foschi pensieri e accecate nella falsa coscienza di sé. E poi, come d’improvviso, sul far della notte dell’anima (1606), compaiono i crani: severi, iconici, ammonitori.

Il San Girolamo scrivente della Galleria Borghese è forse l’ultimo anacoreta della serie, ma il più icastico di tutti. A giudicare dalla distanza che separa il cranio dalla testa pensante del Santo, lo si direbbe radioattivo, tanto è dirompente la forza che esplode da quelle orbite vuote. In tale forza, sembra significare, si concentra l’istinto di morte che percorre tutta la Storia umana, e che precorre l’intuizione freudiana in proposito. Caravaggio non fa sconti, ma premurosamente tiene il vegliardo a debita distanza dal fungo atomico di furia compressa. Non basterà, sappiamo: di lì a poco si abbandonerà egli stesso alla pulsione omicida.

Nel San Francesco in meditazione della Pinacoteca di Cremona la coabitazione del santo e del cranio è più meditata, e non dà corpo a conflitti. Ma l’impatto espressivo di quelle orbite vuote rimane immutato, benché incorporato nella santità di Francesco.

L’identità persecutoria che affligge in quegli anni la psiche di Caravaggio si manifesta proprio in quei crani, ed essi la esprimono a modo loro, variandone soltanto la virulenza.

Possiamo tranquillamente affermare che i due crani raffigurati nel San Girolamo scrivente e nel San Francesco in meditazione sono immagini di come Caravaggio vede sé stesso: equivalgono a due autoritratti. E appartengono quindi a buon diritto alla serie di raffigurazioni allucinate di quella sua specifica forma di autorappresentazione.

Essa inizia con la visionaria Testa di Medusa, per proseguire con il suo volto nel Martirio di Matteo e il suo profilo nella Cattura di Cristo, nella Resurrezione di Lazzaro, nel Martirio di Sant’Orsola. Continua con la sua testa mozzata nel Golia e il suo viso giovanile nel Davide, come doppio autoritratto del Davide e Golia tuttora Borghese.

12. Caravaggio, Davide con la testa di Golia, Roma, Galleroia Borghese

Escludiamo dalla lista il Bacchino malato, che è il primo di tutti, ma non è visionario; e contempliamo magari la firma nel sangue della Decollazione del Battista a Malta, forse il più specifico riferimento che Caravaggio rivolge a sé stesso.

13. Caravaggio, Decollazione del Battista, La Valletta (part.)

E possiamo già da adesso affermare che la visione di sé omicida, raffigurata nel cranio in cui Caravaggio si riconosce, fa il paio con il visionario spettacolo dei morti reali, Lazzaro e Santa Lucia, in cui lui si rispecchia. Omicida e morto lui stesso, e persino insepolto.

Il processo creativo di Caravaggio fornisce le icone con cui decifrarlo: e il cranio è una di queste.  Ognuna è una tappa del suo svolgimento, che mette fine a una fase o la inizia. Ed è cadenzato sui ritmi della sua vita; ma ancor più correlato ai moti della sua anima, che ne delineano il corrispettivo processo mentale. Poi di colpo il cranio scompare dall’opera di Caravaggio, all’improvviso, così come era apparso. Cos’è accaduto?

Caravaggio ha ucciso, è un assassino. Da questo momento apparirà la testa mozzata, sua, come icona nel suo processo creativo. E il corrispettivo del San Girolamo scrivente è il Davide e Golia, un attimo dopo.

Giuseppe RESCA  Roma Luglio 2023