di Giuseppe RESCA
Capitolo quindicesimo: appunti di un processo mentale
Con l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, nell’anno 1606, si chiude nella psiche di Caravaggio la Pulsione a dar morte che l’aveva fin lì motivato. Ma non si arresta certo il suo processo creativo.
È necessario a questo punto identificare appieno i sommovimenti dell’animo (le pulsioni) che si muovono dal profondo a indirizzare verso la morte (dare-ricevere-darsi morte) la sua vita mortale, e distinguerli dalle motivazioni che lo inducono al processo creativo della sua arte. Perché continuamente gli uni si intrecciano alle altre, per configurare un intrigo che fa dell’uomo un artista-assassino, e poi, in un processo inverso, dell’assassino-artista un uomo.
Cominciando dalle forze pulsionali, ci si deve domandare perché Caravaggio, dopo l’omicidio, non prosegue la carriera di assassino che l’ha indirizzato a quel gesto. Perché non si trasforma in un assassino seriale, come fa la maggior parte di coloro che albergano tali pulsioni di vendetta sui responsabili, presunti o immaginari che siano, delle umiliazioni patite.
L’unica ragione che mi persuade è che Caravaggio, con l’assassinio, compia un omicidio mirato, ossia destinato proprio a colui che l’assassino ritiene causa di tutto, persino di quanto avvenuto prima ancora di averlo incontrato. Un capro espiatorio insomma. In tale ottica psicologica mi permetto di rilevare persino il momento in cui nella sua psiche avviene l’identificazione: quando dipinge la felicità, incomprensibile altrimenti, con cui san Giovannino ai Capitolini abbraccia il caprone, facendo così del suo emblema (l’agnello) la vittima predestinata (il montone).
In questo intreccio (uno dei tanti), tra pulsioni di morte e ragioni artistiche, devo sposare la tesi che Caravaggio uccida per gelosia l’uomo che gli ha sottratto la donna che ama, la cortigiana Fillide, che lui ritrae spesso come propria modella e ritiene gli appartenga. L’artista non sopporta il magnaccia (forse Caravaggio a quel punto è entrambe le cose), e lo prende a bersaglio di ogni torto subito.
Si tratta perciò, ad ogni evidenza, di un omicidio premeditato, e cullato in anticipo in milioni di fantasie (e anche di queste evidenze sono pieni i suoi quadri), non di raptus omicida, o peggio ancora di un incidente in duello, regolare o meno che sia.
È per tale ragione che egli smette di uccidere: ha ottenuto il suo scopo, la vendetta. Il suo spirito è pacificato, prova ne sono i suoi quadri del successivo periodo, l’intermezzo colonnese (Cena in Emmaus a Brera), e persino quelli del primo soggiorno napoletano (Madonna del Rosario, Sette opere di Misericordia): tutti improntati a una serena visione del mondo.
Ma in questo passaggio la pulsione a dar morte è soltanto sedata, per nulla soppressa: si trasformerà presto in qualcos’altro (a ricevere-morte), che vedremo a suo tempo. Perché troppo potenti sono i moti dell’animo per svanire così, senza lasciar traccia, e l’inconscio è tale perché la coscienza non vuole riconoscerlo, non perché non esista.
Ma è proprio la persistenza dello spirito artistico nell’uomo omicida che ci conduce alla seconda domanda: cosa sostiene il processo creativo di così forte da mantenere immutata la vena creativa, anche nella temperie di una vita che, da quel momento, diventa letteralmente invivibile? Perché Caravaggio è in fuga, già ricercato, e ha perso tutto, finanche i suoi materiali d’uso, oltre che tutti i suoi punti di riferimento. Non dovrebbero le traversie e i sensi di colpa alienare le facoltà creative in un uomo normale, in tali circostanze coinvolto?
Ma Caravaggio di normale non ha proprio nulla. E nell’Arte, se possibile, ne ha ancora di meno. Il suo talento e le prerogative della sua tecnica ne fanno un pittore speciale, ma sono le sue identità artistiche che lo rendono immenso. Tali identità si succedono nella sua psiche nel corso degli anni, dando vita alle varie forme che la sua personalità artistica acquisisce nel tempo. Alcune le abbiamo viste finora; altre in seguito. Ma è ora di riassumere un po’.
La prima identità che abbiamo riconosciuta è quella di valent’huomo. Ce ne parla lui stesso nella sua testimonianza a un processo in cui figura imputato:
“Quella parola valent’huomo appresso di me vuol dire che sappi far bene, cioè sappi far bene dell’arte sua, così in pittura valent’huomo che sappi depingere bene et imitar bene le cose naturali”.
L’insistenza con cui replica il concetto lungo tutto l’arco dell’interrogatorio ci fa capire molto dell’artista che è in lui: categorico, distingue la buona dalla cattiva pittura, riconosce gli artisti veri da quelli fasulli. Nel suo giudicare è implacabile. Se però ci interroghiamo su quale sia la corretta interpretazione di quella frase: “imitar bene le cose naturali”, su quale sia il senso che riveste nel suo processo creativo, ci accorgiamo che ciò che intende per naturale procede dal mondo visibile nella sua prima fase di pittore di natura morta, ossia dalla realtà delle cose sensibili. Ma altrettanto naturale sarà poi, in una seconda fase, ridare forma visibile ai suoni, e non solo: all’universalità dell’anima che l’esecuzione musicale favorisce (i concerti che si tenevano nella dimora del Cardinal Del Monte).
E tra le cose naturali non dimentichiamo l’Amore (per Lena), la passione (per Fillide), la gelosia, l’invidia (per il Cavalier d’Arpino), l’odio (per i gendarmi), la frustrazione (per quella spinta omicida che sente salire dal fondo dell’animo, e che si riflette nelle orbite oscure, e poi vuote, delle sue creazioni pittoriche. E naturale, infine, è anche il destino, che lo vede morto ben prima di tirare le cuoia, quasi condannato a scontare, lui vivo, l’impostura della propria esistenza.
Poi, al pennello subentra la Spada, e il valent’huomo diventa pittore di Storia. E l’identità che si affaccia dipende, nel caso, da scelte che altri (il Cardinal Del Monte) hanno fatto per lui (succede spesso nella sua vita, a partire dalle decisioni della Marchesa Colonna).
In questa veste dipinge Giuditta e il Martirio: due omicidi, dell’ingiusto Oloferne, e del giusto Matteo. Traduzione di sé, e dell’ambivalenza che nasconde nell’animo: l’odio per chi prevarica, e l’ammirazione per chi si offre in sacrificio (che non è certo virtù a lui consona).
Ma il naturale che pervade la Storia, personale e collettiva, è l’Istinto di morte, come lo chiamerà in seguito Freud. Che Caravaggio preconizza con istinto di artista. C’è poi il cavaliere: identità anelata che gli permetterebbe, quando raggiunta, di portarla la Spada, in barba ai gendarmi, senza l’obbligo di esibirne licenza. E, nelle vesti di Cavaliere si raffigura spesso e volentieri nella fascinazione di quei costumi che sforna a piene mani nei quadri.
Soffre di non appartenere egli stesso a quel mondo in cui regna sovrana l’impunità, che gli sarà sempre negata, quasi a significare ai suoi occhi un dispetto. Tanto che poi cercherà in tutti i modi di venire punito, col proprio delinquere, e di cavarsela poi per grazia degli Onnipotenti. Anche il voler essere cavaliere, come tutte del resto, è una identità a mezza strada tra il processo omicida e il processo creativo: la Buona Ventura ne è un esempio, con l’inganno che promette a chi porta-spada.
C’è poi lo scienziato o, meglio, l’artista che indaga la sua materia come farebbe uno scienziato che studia la percezione. Non solo ottica, ma visuale; non solo uditiva, ma del sentire. La vertigine (Crocifissione di Pietro), la paura (la Medusa), la sfida (Santa Caterina), l’incredulità (Tommaso), la credulità (gli apostoli in Emmaus): niente sfugge all’indagine del pittore che, per comprendere la verità di ciò che appare, ne ragiona di matrici, e dinamiche, prima che salgano agli occhi.
Caravaggio studia fenomeni, prima che eventi, senza forse nemmeno sapere di Scienza. La stessa che vedeva fiorire in quegli anni sia i Copernico e i Galileo che i Cartesio e i Giordano Bruno. Persona che, invece, forse ben conosceva (perlomeno in occasione del supplizio del 1600).
La serie di identità in divenire che percorrono la personalità di Caravaggio e si traducono nelle opere da lui dipinte (ossia il suo processo creativo) anticipa e precorre l’evento cruciale della sua vita: l’omicidio di Ranuccio Tomassoni del 1606.
Ma è l’omicidio stesso che da qui in avanti costituisce il volano del suo processo creativo, che elaborerà senza sosta in un susseguirsi di identità a venire. La prima delle quali è proprio quella di omicida.
Che sarà tema del prossimo capitolo.
Capitolo sedicesimo: un omicidio inevitabile
Nei mesi che seguono l’omicidio, Caravaggio sembra persino pacificato. O meglio, la sua opera pare tale. Perché di lui, entrato in clandestinità, non si hanno notizie.
Quel che possiamo desumere sul suo stato mentale ci deriva dallo sviluppo del suo processo creativo, che è ben documentato: due dipinti nel periodo colonnese, la seconda versione della Cena in Emmaus, ora a Brera, e la cosiddetta Maddalena Klain, opera perduta, ma conosciuta attraverso parecchie copie, alcune di pregevole qualità.
E poi, i fondamentali quadri del primo soggiorno napoletano, per chiese della città: le Sette opere di Misericordia, la Madonna del Rosario, la Flagellazione. Opere tutte non solo di straordinario impatto scenico, ma improntate allo stile innovativo da lui coniato, che possiamo ben definire oggi di moderna classicità, per rendere giustizia, a distanza di secoli, al suo autore tanto denigrato all’epoca per esser troppo anticlassico.
Non è raro che un omicida, al compiere dell’atto, si senta appagato, anzi, è la regola. Quando le azioni dell’uomo sono frutto di compulsione garantiscono sempre un periodo di tregua all’autore; il senso di colpa semmai viene più tardi, e non vale per tutti: c’è anche chi è fiero del suo gesto.
Sembra questo il caso di Caravaggio: la Giustizia è assassina, lui è solo la mano omicida. E tale è l’identità che la coscienza di lui assume nei mesi a venire: non deve sembrare strano che ne sia addirittura fiero.
Non si può spiegare altrimenti la compostezza classica che assume la Maddalena Klain in posa: una quiete profonda dopo l’estasi, che dà un perfetto senso di pienezza. Niente la disturba: né luci, voci o rumori. Sono quegli stati simil-catatonici che appaiono dopo crisi di Grande Male o anche solo dopo semplici crisi di nervi: una calma assoluta, che somiglia a un sonno profondo. Questo deve aver provato Caravaggio dopo l’omicidio: non proprio la beatitudine dell’essere, ma la quiete dell’esistere.
E anche l’altro quadro che dipinge nel ricovero di Paliano, feudo del Principe Colonna suo protettore, la Cena in Emmaus ora a Brera, conserva uno status quasi assopito. Il moto frenetico delle mani nella prima versione, che davano ritmo alla fulmineità dell’apparizione di Cristo risorto agli apostoli, si spegne qui nell’accettazione del fatto compiuto; e persino gli inservienti (che sono diventati due, come se anche la moglie dell’oste fosse stata chiamata a osservare la scena) è come se vedessero finalmente le cose così come stanno. Non vi è più incertezza, il miracolo si è fatto reale.
Il suo miracolo Caravaggio l’ha fatto: si sente liberato. Che non vuol dire libero, ma il contrario. Ha dovuto fuggire di corsa dalla città, lasciando a casa le sue robe: colori, pennelli e tutto il resto. Ne fanno fede i materiali che usa ora, diversi da quelli di sempre, come documentano bene le analisi odierne del colore.
Per quanto premeditato, l’omicidio deve essere stato improvviso, una disfida tra gentiluomini per una questione d’onore. E l’intenzione, forse, non era nemmeno di uccidere: non si uccide per strada un mafioso, protetto dal clan cui appartiene. Meglio simulare un incidente, se si sa dove colpire di tocco; il ferito morirà dissanguato di lì a poco, e tutto apparirà come un banale duello finito male. E Caravaggio nemmeno immagina che le conseguenze saranno per lui catastrofiche, perché da Paliano deve fuggire a Napoli, per evitare di coinvolgere il suo protettore, che non gli poteva dare garanzie. Comincia così la sua odissea, che lo porterà a vagare per mare e per terra fino alla fine dei suoi giorni: braccato come animale da sacrificio.
Dovunque vada però la sua fama di genio pittorico lo precede, e la gloria, si sa, ti fa credere di non essere ancora abbandonato dagli dèi. A Napoli le congregazioni cittadine lo incaricano immediatamente di dipingere per loro, e vengono alla luce i capolavori che si diceva: tre quadri capitali per cui ogni parola sembra ormai uno spreco.
Le Sette opere di Misericordia: mai sintesi più perfetta di classicità e naturalismo.
Ma nella vorticosa sintassi dello svolgersi delle opere, ciò che fa riflettere, riguardo al processo creativo, è il ripetersi di un espediente già usato nella Cattura di Cristo, ossia la torcia con cui un prelato vorrebbe illuminare la scena. Luce totalmente inutile, perché la scena (meglio dire le scene) vive di luce propria. Ma se Caravaggio la pone proprio al centro del quadro, quasi voglia che lo spettatore si concentri su essa, come a distogliere l’occhio da quel che avviene all’intorno, ha il significato stesso della lampada che lui di persona protende nella Cattura: è il tradire ciò che non si vuole vedere.
E qui la Misericordia e le sue opere non c’entrano nulla con i suoi atti. È l’assassinio che lui tiene nascosto, perché forse nell’anima comincia a farsi strada una resipiscenza.
Persino l’oste che viene ritratto al margine estremo del quadro è lo stesso personaggio, credo addirittura la stessa persona ritratta nell’oste della prima versione della Cena in Emmaus, ora alla National Gallery, che era allora indifferente all’apparizione miracolosa. E dato che in Caravaggio quasi nulla è casuale, viene da pensare che la verità degli occhi non è quella dell’anima, ma soprattutto che le opere di Misericordia sia un quadro capitale nel processo creativo. Come lo erano la Cena in Emmaus e la Cattura di Cristo, dove era persino presente l’autoritratto.
Da qui in avanti procede un salto qualitativo della coscienza di Caravaggio: come l’oste di un tempo (Cena), anch’egli non voleva vedere (Cattura); ma ora gli balza agli occhi lo sfregio che ha fatto a sé stesso con l’omicidio. Atto che lo relega tra i reietti, che non trovano posto nel consesso degli uomini.
Il futuro suo sarà di reietto, non perché in fuga, ma perché disonorato.
Ma già nel presente appare cosciente dell’importanza che assume la comunità degli uomini nel suo processo creativo: nella Madonna del Rosario è la comunità dei pellegrini la protagonista.
La composizione, strutturata su tre livelli, conduce lo sguardo di noi spettatori, invitati da san Domenico che ci guarda in faccia, verso Madonna e Bambino, cui si indirizza il gesto del braccio. Ella poi, attraverso un identico gesto, indirizza gli sguardi verso San Pietro Martire, all’altra estremità del dipinto, il quale presenta i veri protagonisti della scena: la comunità dei pellegrini inginocchiati, evidentemente gli stessi ritratti nella Madonna dei Pellegrini in Sant’Agostino, piedi sporchi compresi. Tra loro, ma un po’ in disparte, appare il volto del donatore don Luigi Carafa Colonna, altro protettore di Caravaggio, che deve aver gradito poco la sua collocazione un po’ trascurata, tra tanta folla maleodorante. Non vedo, infatti, altra ragione plausibile al rifiuto del quadro, che è perfettamente in linea ideologica con la filosofia dell’Ordine Domenicano cui era destinato.
Pellegrino egli stesso, Caravaggio non si sente di appartenere a tale comunità per il solo fatto di dover pellegrinare: di nuovo viene espulso senza avere nemmeno peccato, senza esser stato nemmeno incivile. Sembra un destino. Che non è mitigato nemmeno dalla leggerezza con cui dipinge la Flagellazione, dove un passo di danza lega i quattro protagonisti del quadro, quasi un minuetto finale attorno a un destino segnato.
Mai il tema è stato rappresentato con altrettanta leggiadria, pur essendo soggetto di intensissimo dramma, al pari della Deposizione Vaticana, con cui spartisce un primato inusitato. Nella successiva Flagellazione, ora a Rouen, lo spettro dell’assassinio sarà evidenziato dall’orrore esibito nello sguardo del povero Cristo, e dalla cieca ferocia dei flagellanti.
Ma si tratterà allora di un’ulteriore mutazione.
Giuseppe RESCA Roma 23 Luglio 2023