di Giuseppe RESCA
Capitolo diciassettesimo: il Gran Maestro
In ordine al processo creativo di Caravaggio, il soggiorno a Malta è un periodo oscuro nonostante la copiosa documentazione che lo riguarda.
Paradossalmente, conosciamo meglio quello che lo ha preceduto nei feudi Colonna e a Napoli sebbene, a causa della sua clandestinità, di lui si parlasse il meno possibile. Ma parlano abbondantemente i suoi quadri, che appaiono di una libertà spirituale e di una leggerezza compositiva inusitate per lo stesso Caravaggio. Un animo liberato dall’angoscia compulsiva è un buon viatico per la creatività di un artista.
Invece a Malta la produzione di opere è sostanzialmente monotematica: dipinge per lo più ritratti del Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri, che non si segnalano per sostanziali novità creative. Rispecchiano canoni già sperimentati nel Cinquecento, con esiti molto migliori dei suoi. E pensare che Caravaggio è anch’egli un gran ritrattista, a guardare quei pochi ritratti che ci sono pervenuti del periodo romano: il Maffeo Barberini in testa, talmente spontaneo nel gesto da sembrare di essere qui, tra di noi, a sostenere una sua tesi che ci pare convincente, anche nel solo osservarlo parlare. Alof de Wignacourt, in armatura da Gran Maestro e il suo paggio, invece, è ridondante di aggettivi tanto quanto il suo nome, il suo titolo nobiliare e il titolo stesso del quadro, che pare non finire mai. E poi è copiosamente in posa che, per un ritratto, non è mai un buon viatico.
Non vanno meglio gli altri ritratti pervenuti: forse il solo Alof con rosario e spada, ora a Palazzo Pitti, si distingue in qualcosa dagli altri. Perlomeno si vede che è di Caravaggio, se non altro per il contrasto di luci che lo rende drammatico, con lo splendore della croce di Malta in grande evidenza. Ma è l’Ordine dei Cavalieri che figura grande nel quadro, con la storia che ha alle spalle; Alof rimane piccino, persino impacciato nei movimenti.
Sono quadri encomiastici, da cui trasuda il poco interesse personale del pittore. E anche i due quadretti profani che si dicono autografi di Caravaggio, l’Amore dormiente ora a Pitti e il San Giovannino alla fonte in collezione privata non aggiungono niente all’analisi del processo creativo, se non una grande stanchezza.
È triste pensarlo così, lui tanto esuberante; a differenza poi di quanto visto fino a un attimo fa. Viene da pensare che la scelta del viaggio non sia nemmeno sua. Non è la prima volta che Caravaggio si lascia guidare nelle sue scelte: la Marchesa, il Cardinal del Monte, i Mattei, i Giustiniani; è persino probabile che, se non l’omicidio, persino la fuga sia stata programmata da altri. I Colonna sicuramente, che volevano assicurarsi un artista così, anche per spinta della Marchesa, che aveva su Caravaggio un grande ascendente.
E cosa ci andava a fare Caravaggio in un posto fuori dal mondo? E poi a firmare un contratto che lo obbligava alla penitenza di un anno, chiuso in un eremo di cavalieri fanatici?
La ragion politica si dirà: Caravaggio aveva un estremo bisogno di perdono papale: le buone grazie del Gran Maestro e il titolo di Cavaliere di Grazia e Giustizia, che gli si prometteva allo scadere dell’anno, si pensava potessero garantirglielo. Il Papa stesso non aveva posto il suo veto al soggiorno del pittore nell’isola. Informato dal Gran Maestro, aveva solo richiesto l’anonimato del candidato Cavaliere, pur conoscendone l’identità di omicida, per di più condannato all’esecuzione.
Un gran giro di interessi politici gravava sulla testa dell’ignaro pittore: d’altronde l’Arte è Politica, come sanno bene tutti i grandi della terra. E un gran silenzio grava sui fatti della vita del pittore nell’anno suddetto, perché si comportò correttamente, secondo prescrizione. Ora et Labora: ma al servizio privato del Gran Maestro.
Da contratto, però, Caravaggio si impegnava a dipingere solo un quadro: la Decollazione del Battista per l’altare maggiore dell’Oratorio di San Giovanni dei Cavalieri. E ci impiegò addirittura più dell’anno previsto per finirlo: cosa impensabile, e per la velocità esecutiva del pittore e per il quadro stesso, la cui composizione non è affatto complessa. Nel corso dell’anno solo un altro dipinto lo deve aver coinvolto personalmente: il San Girolamo scrivente, già La Valletta.
Si tratta di un altro ritratto del Gran Maestro, che qui compare nei panni di San Girolamo: cupo, pensoso, accigliato.
Sembra tornare a quella serie di Santi dagli occhi abbassati, dalle orbite cieche, che professavano un gran tormento interiore. E il pittore stesso fa mostra di riferirsi proprio a quei quadri, e ad uno in particolare: il San Girolamo scrivente dipinto per il Borghese.
Anche per questo Girolamo l’ispirazione è la morte, dipinta nel cranio. Ma essa appare ben più vicina dell’altro, come se lo stesse aspettando. E a ben guardarla non è più nemmeno cranio; è un teschio, ben rappresentato nella tradizionale versione di Vanitas: la candela, il crocifisso, il sasso dell’automortificazione. Non manca nulla. Più che la morte, non è forse morta l’ispirazione? Caravaggio si mostra avvilito, mortificato nel suo processo creativo, perché forse lo è anche nell’animo.
Ma, come sempre, è capace di convertire la morte dell’anima in un quadro fantastico, che parla di morte, ma aspira all’eternità che dà l’Arte: la Decollazione del Battista. Eterno proprio perché non vi è un solo centimetro, in quella immensa tela, che non respiri autentica morte. E non trovo nella storia dell’arte nessun’altra espressione artistica, dipinto o manufatto che sia, altrettanto efficace nell’evocare la morte.
La morte è semplice: avviene in un attimo, e resta per sempre. Sicuramente nel ricordo feroce che ha impresso alla vista di Caravaggio: non all’atto di uccidere, che lo ha anzi esaltato, ma in quello che genera poi, se ti cambia la vita.
Il carnefice nudo esalta la semplicità dell’atto; il viso morente del Battista l’eternità del misfatto. E nel fiotto di sangue che si allarga copioso Caravaggio vuole eternare l’autore, tanto dell’atto creativo (il quadro che firma), quanto del misfatto di cui parla (l’esecuzione). Che diventa fin da ora il chiodo fisso della sua mente.
È la legge del contrappasso, l’unica forma di legge che Caravaggio conosce: occhio per occhio, dente per dente. L’omicidio di Ranuccio Tomassoni non è stato un assassinio, ma un’esecuzione: il reprobo non meritava nient’altro.
Così ora per lui, che si è auto dannato: non si aspetta per sé altro che l’esecuzione a morte. Per contrappasso. Di conseguenza, il suo processo creativo procede da ora all’elaborazione artistica, ossia pittorica, dell’esecuzione: gli imporrà già dal primo quadro eseguito in Sicilia, la Resurrezione di Lazzaro, il diniego a qualsiasi forma di Resurrezione, persino imposta da Cristo in persona. Alla consegna ufficiale del quadro, che viene esposto nell’Oratorio, si conclude ufficialmente il contratto.
Caravaggio è dunque libero di andarsene? Non pare, succede qualcosa che causa il suo imprigionamento nella fortezza dell’isola. Non si sa di preciso di cosa si sia reso colpevole, non figurano atti di sangue nei registri dell’epoca dei Cavalieri di Malta. Forse una lite con uno di loro? Più probabile uno sgarbo al Gran Maestro, per niente convinto di perdere un tale artista lasciandolo andare. Caravaggio evade dal carcere. Come, resta un mistero. Forse c’è lo zampino della Marchesa, un cui nipote Colonna è direttore del carcere. E poi fugge dall’isola, inseguito da un editto della congrega dei Cavalieri: “membrum putridum et foetidum”, sentenza inappellabile che lo condanna ulteriormente a morte e lo priva del titolo di Cavaliere precedentemente ottenuto.
Una catastrofe. Troverà la forza per sopravvivere nel suo processo creativo.
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Capitolo diciottesimo: morto che cammina
Una costante del processo creativo di Caravaggio è che dalle disfatte dell’uomo prende il volo una mutazione della sua Arte.
Già dal primo quadro, il Bacchino malato, la solitudine, la malattia e l’abbandono degli amici avevano innescato la metamorfosi del pittore. E la rabbia di vedersi sfuggire l’ambito titolo di Cavaliere, assegnato al nemico più acerrimo, l’Arpino, anziché a lui, aveva dato il la alla riuscita dell’impresa del tempo: diventare pittore di Storia. Persino l’omicidio lo aveva rinnovato: in arte nella chiarezza della sua pittura, nell’uomo per sentirsi pacificato.
Ma nel soggiorno maltese si era verificato qualcosa nell’animo di Caravaggio, qualcosa di irreversibile. Un processo di depersonalizzazione, come se il pittore si fosse dimenticato di sé, nella nuova veste di penitente. E il riflesso di questo turbamento aveva indotto una regressione nell’arte, in dipinti non all’altezza. Tutto ciò era esploso nel dipinto finale, la Decollazione del Battista, che sicuramente egli deve avere immaginato come l’ultimo quadro che avrebbe dipinto: il suo testamento. Poi, il nulla. Con la Decollazione Caravaggio si convince di essere morto.
Non che si aspetti egli stesso l’esecuzione: non vi sono segni in proposito. Ma firmando il quadro nel sangue, unica firma sua in tutta l’opera, afferma che quello è il suo ultimo quadro, e non ve ne saranno altri a seguire. Con quel quadro conclude la sua parabola di artista.
Deve essere questa decisione che non va giù al Gran Maestro, sicuro di potersi servire ancora di lui come pittore di corte. La delusione, ai suoi ulteriori rifiuti, lo indurrà a imprigionarlo.
Ma quel che interessa in ordine al suo processo creativo è perché egli decida di non dipingere più. E la risposta la si desume solo dal tenore delle sue ulteriori opere, che per fortuna si è deciso a dipingere ancora, quelle che vengono in luce in Sicilia. E non può essere altro che questa: è proprio l’uomo che è morto, non solo l’artista. Un morto che cammina.
Caravaggio è ormai preda di un delirio, che stravolge la sua coscienza. Non ha la morte nell’anima, come si dice per chi è depresso; è il corpo che è morto, e l’anima vaga in un mondo di vivi.
Lascio a colleghi più bravi le riflessioni sulla fenomenologia di questi deliri, che alterano più di ogni altro il funzionamento della coscienza; e ai filosofi le digressioni sulla fenomenologia dello spirito. La domanda che si pone al nostro proposito è un’altra: come può una persona che versa in tali condizioni psichiche ritrovare il filo di un processo creativo ormai morto e sepolto?
Come può Caravaggio resuscitare dai morti?
La risposta nella Resurrezione di Lazzaro: Messina, Museo Nazionale.
Giuseppe RESCA Roma 30 Luglio 2023