di Mario URSINO
Perché quella croce araldica, simbolo dei Cavalieri di Cristo, nel Martirio di San Matteo del Caravaggio?
Nella complessa raffigurazione del celebre Martirio di San Matteo [fig. 1], nella Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma, si cela un enigma, a mio avviso.
Del celebre dipinto Roberto Longhi non esitò (chissà perché) a dire
“l’opera non va immune da odiosi ricordi manieristici che non mancano di riconfermare precocità e relativa immaturità d’invenzione, respingendo di alquanto l’abbrivio del dipinto”,
giudizio molto sprezzante e severo, se si considera che Caravaggio più volte nelle sue opere lavora con passaggi simultanei, in uno stesso dipinto, mescolando elementi di nuova invenzione con figure desunte da suoi precedenti lavori; e in questo senso è emblematico l’altro famoso dipinto che si trova di fronte al Martirio, la Vocazione di Matteo, dove la stupefacente figura del Cristo, con la mano michelangiolesca (un “fotogramma”) appare nel fascio di luce trasversa nell’ufficio (o taverna?), che sempre il Longhi descrive:
“…al momento che qualcosa (la luce) o qualcuno (il Cristo) venga a distogliere Matteo e i suoi compagni da una partita d’azzardo…”,
indica il pubblicano, ovvero l’esattore delle tasse, raffigurato in mezzo ad altre figure abbigliate in panni secenteschi, come si era già visto in alcuni dei suoi precedenti personaggi, ovvero i giovani nei I Bari.
Ma a parte l’esegesi degli innumerevoli studiosi del Caravaggio sulla figura del gabelliere che alcuni ricercatori avrebbero individuato nel giovane che conta i denari, piuttosto che nel vecchio barbuto (v. Salvatore Settis, “Il Sole 24Ore”, 13 gennaio 2013 e da ultimo il volume di Sara Magister, Caravaggio, il vero Matteo, ed. Campisano, 2017), per me resta inspiegata nel Martirio di Matteo la presenza di quella parziale croce araldica che si intravede sullo sfondo, sotto la nuvola [fig. 2],
dalla quale si sporge l’angelo che offre la palma del martirio al povero Matteo, già ferito dal suo aguzzino raffigurato nell’atto di completare il suo brutale delitto [fig. 3] (figura, questa sì, pienamente manierista, con qualche riferimento tintorettesco, secondo l’Arslan nel 1959). La scena, assai movimentata come poteva accadere in una pubblica via nella rissosa Roma secentesca del Caravaggio, in realtà avviene, secondo la leggendaria tradizione, mentre il Santo officiava il suo rito religioso; a riprova del fatto è la fuga precipitosa, inorridita del giovanissimo chierico urlante [fig. 4]. Dunque manierismo, sia pure veneteggiante, ma anche precoce barocco ante litteram.
Ma tornando a quella croce (Croix pattée o Croce greca), che parzialmente appare nel Martirio di Matteo, come si è detto, che relazione può avere con la drammatica rappresentazione del Caravaggio? Un crocefisso normale avrebbe avuto un simbolico richiamo alla Passione di Cristo; ma quella croce con le punte piatte, nera dei Cavalieri Teutonici, poi rossa in quella dei Templari, e in quella dei Cavalieri di Cristo, dopo lo scioglimento cruento dei cavalieri de Tempio, non poteva essere un simbolo araldico dell’onorificenza papale, alla quale già anelava il Caravaggio?
E a questo proposito, va ricordato che il Cavalier d’Arpino l’aveva ricevuta proprio dal Papa Clemente VIII nel 1600, l’anno in cui, secondo la maggioranza degli studiosi, erano state completate dal Caravaggio le due tele laterali nella Cappella Contarelli. Da tenere presente che il d’Arpino aveva rinunciato a completare i lavori nella cappella (aveva dipinto solo gli affreschi del soffitto), per seguire il pontefice a Ferrara nel 1598. Così la committenza passò al Caravaggio mentre era ancora sotto la protezione del cardinal Del Monte; del resto il Merisi era già divenuto pittore di fama a Roma, e il suo nome circolava anche in Europa. Quindi il Caravaggio si impegna molto nel realizzare le due tele laterali nella cappella Contarelli sugli episodi leggendari della vita di Matteo; la terza tela che doveva essere collocata sull’altare, ovvero la prima versione, tenera, bellissima, del San Matteo con l’angelo, fu rifiutata dai monaci di quella storica chiesa e dopo fu acquistata dal marchese Giustiniani (opera, quest’ultima che purtroppo è andata distrutta a Berlino nel 1945 durante la guerra).
Caravaggio ne dipinse una seconda versione (altrettanto bella) due anni dopo aver terminato le due tele laterali, e fu finalmente accettata dai religiosi, insieme alle altre due sopra citate. L’artista dovette lavorare non poco, e con difficoltà a scenografie molto articolate con numerose figure nel Martirio di San Matteo, e diversi furono i suoi ripensamenti durante l’esecuzione, come rivelarono gli esami radiografici già al tempo di Roberto Longhi; li pubblicò per primo Lionello Venturi (1885-1961) nel 1952 [fig. 5],
altri approfondimenti furono effettuati nel 1959 da Wart Arslan (1889-1968), e infine quando il Martirio di Matteo fu sottoposto ad un eccellente e accurato restauro nel 1966, da Giovanni Urbani (1925-1994), in seguito ineguagliato Direttore dell’ Istituto Centrale del Restauro dal 1973 al 1993.
Ma quella croce?
Era un frammento riemerso da una sottostante pittura? Dalle suddette radiografie non sembrerebbe, e anche stando alle indagini scientifiche-strumentali più recenti, come nello studio di Marco Cardinali e Maria Beatrice de Ruggieri, Attraversando la pittura di Caravaggio. Novità e scoperte sui procedimenti e sulla tecnica del ciclo Contarelli (cfr. PDF on line pp. 27-31), non risulterebbe [fig. 6]. E allora perché Caravaggio avrebbe inserito quel brano di croce araldica nel Martirio di Matteo? E’ solo un’incongruità nel senso berensoniano del termine? Chissà.
L’ipotesi, non tanto peregrina, sarebbe quella che il Merisi, come detto più sopra, consapevole della fama che aveva raggiunto, si sentiva già cavaliere in pectore, e quella croce araldica (quella di Malta a otto punte non l’aveva ancora sognata), potrebbe essere la sigla del suo prepotente desiderio. In questo senso ci soccorrono le parole di Alessandro Zuccari, nella sua Postfazione a quel fondamentale e noto testo, I cavalieri di Malta e Caravaggio, del 2010, laddove scrive:
“Riguardo al cavalierato va tenuto presente che si trattava di un’aspirazione coltivata dal Merisi sin dagli anni romani. I dati documentari accertano infatti che il pittore – già nel periodo in cui risiedeva presso il cardinal Del Monte – amava presentarsi in pubblico con la spada al fianco per indicare il rango sociale a lui consono, e che rivendicò più volte tale diritto reagendo ai gendarmi che ne chiedevano ragione. Non è detto che avesse già maturato l’idea di una sua iscrizione all’Ordine gerosolimitano: probabilmente ambiva alla croce dei Cavalieri di Cristo, o ad altro riconoscimento pontificio, che era stata conferita a valenti pittori (il cavalier d’Arpino, come ho ricordato più sopra, n.d.A) , ma che egli non riuscì ad ottenere” (p.256).
E quella croce araldica rappresenterebbe dunque il simbolo di questo suo desiderio inappagato. Avrà in seguito, per poco tempo, quella di Malta, secondo un’altra e molto più drammatica storia.
Mario URSINO Roma luglio 2019