di Marco CARDINALI – Maria Beatrice DE RUGGIERI
Il tema della diagnostica scientifica applicata all’analisi delle opere d’arte è stato da molti anni oggetto di studi e applicazioni pratiche da parte di Marco Cardinali e Maria Beatrice De Ruggieri, autori di numerose ricerche e verifiche in particolare sulle opere di Caravaggio. Questo importante testo -che appare qui per la prima volta in Italiano- è un ulteriore contributo all’indagine di About Art on line sulle tematiche caravaggesche e sull’importanza fondamentale che è venuta ad assumere in questo contesto la ricerca scientifica (su questo tema è di prossima pubblicazione una interessante conversazione avuta con i due studiosi)
Studiando i doppi di Caravaggio.
Dalla Connosseurship alla Technical Art History
La duplicazione di composizioni di un singolo autore, inedita in precedenza, si diffonde rapidamente ai primi del Seicento, particolarmente intorno all’opera di Caravaggio e il tema dei doppi caravaggeschi è stato ed è argomento lungamente discusso e affrontato secondo molteplici prospettive, che hanno spesso travalicato e sfumato i contorni identitari dei concetti stessi di originale, replica e copia n1.
Nel dibattuto catalogo del pittore il problema delle versioni multiple ha costituito un tema a sé e non sono mancate pressioni esterne alla critica, riconducibili a interessi di mercato. D´altro canto la stessa posizione di Roberto Longhi, che ha costantemente negato la possibilità di un Caravaggio autore di più versioni identiche di una composizione, è stata conseguenza di un assunto teorico, quasi ideologico, sebbene argomentato e a lungo prevalente nella storiografia.
A Maurizio Marini, sulla scia del contributo di Moir del 1976, si deve la riconsiderazione del problema su un terreno storico e di contesto, dall´intervento del 1983 fino al suo ruolo di consulente scientifico e al suo contributo di indirizzo nella mostra Caravaggio. Originale und Kopien im Spiegel der Forschung n2.
La complessità del tema non permette in molti casi di addivenire a posizioni univoche e si risolve spesso in un banco di prova dell’abilità linguistica dei commentatori, laddove – e spesso è così – il giudizio qualitativo non fornisca evidenza condivisa nell’accogliere o respingere una proposta attributiva. Tale vizio di auto legittimazione verbale del proprio giudizio estetico ci appare un tratto caratteristico di certa critica italiana che, come ha ben descritto Franco Bernabei, pur di avversare il formalismo ha spesso indugiato nell´esercizio letterario delle equivalenze verbali. n3.
Ciò può comportare il rischio che la stessa analisi stilistica, così essenziale nella pratica storico artistica, venga espressa in un esercizio linguistico che, paradossalmente, la svuota di contenuti, rischiando di lasciar emergere il solo gioco letterario.
Nello specifico dei doppi caravaggeschi alcuni esempi chiariscono quanto sopra.
Roberto Longhi nel famoso catalogo del 1951, trattando del dipinto con l’Incoronazione di spine proveniente dalla collezione Cecconi (ora a Prato, collezione Cariprato) e inserito nella sezione dei quadri «attribuiti al Caravaggio» n4- riferisce la propria opinione e quella di Matteo Marangoni e alterna due termini apparentemente sinonimi, legando il primo al proprio giudizio attributivo («identificata dal Longhi nel 1916 come derivazione da un originale del Caravaggio») il secondo a quello di Marangoni («giudicata dal Marangoni come possibile desunzione dal dipinto che, secondo il Bellori, il Caravaggio eseguì per il marchese Vincenzo Giustiniani») [corsivi nostri].
La finezza linguistica di Longhi distingue una cruciale varietà semantica tra uno sviluppo esterno (il “far defluire” del lemma derivare) – dunque riferito a una replica non autografa – e uno sviluppo interno (lo “scegliere per sé, assumere” del lemma desumere), quindi riferito a un replica in tutto o in parte autografa. La scheda dell’Incoronazione Cecconi tradisce anche lessicalmente la complessità e l’indeterminatezza dell´identitá delle varie versioni di un medesimo soggetto: copia, copia “autorizzata” dal pittore e/o dal proprietario, replica autografa.
Sul piano prevalentemente letterario si direbbe giocare anche una recente proposta attributiva di Gianni Papi, che affronta nei termini di critica dello stile un nodo cruciale dell’intera questione, generalmente trascurato in favore del tentativo di attestare l´autografia caravaggesca di piú versioni esistenti: la individuazione di tratti caratteristici dell’attività di un copista, la possibilità di riconoscere una paternità laddove il pittore la sta negando per garantire la massima fedeltà al modello.
Nel proporre il nome di Angelo Caroselli per la copia conservata a Capodimonte del dipinto di Caravaggio con San Giovanni Battista (Kansas City, Nelson-Atkins Museum of Art), Papi sospetta che «l’esecutore, in questo caso a mio avviso Caroselli, possa avere lasciato trasparire la sua personalità in certi dettagli: magari in quel manto di un rosso più acido, con pieghe più dettagliate, o in un generale trattamento dell’epidermide più lavorato, che provoca un effetto di lustra, quasi umida, consistenza, come se fosse di sostanza minerale, o piuttosto sudata; o soprattutto in quel volto divenuto più affilato, triangolare, dove si accentua la tornita lucentezza del naso e lo sguardo meno scuro (rispetto all’originale del Merisi) di occhi divenuti più grandi e allungati, che rivela (non credo sia solo sensazione) una parentela con le fisionomie un po’ arcaiche e misteriose del pittore romano» n5. (Fig.1)
Due anni prima gli scriventi avevano pubblicato la stessa opera confermando l’antica attribuzione a Bartolomeo Manfredi. Fin dal 1802, all’acquisizione per Ferdinando IV di Napoli da parte di Domenico Venuti, l’opera veniva infatti ricondotta a Bartolomeo Manfredi, attribuzione poi talvolta corretta in favore di Orazio Riminaldi o addirittura di Caravaggio n6.
L’ipotesi Manfredi ci appare sostenibile sulla base di riscontri di tecnica pittorica, ma non è ovviamente la differenza di vedute che qui interessa, né per questo ci si è soffermati sulla estesa citazione del passo di Papi. Riteniamo il problema di natura metodologica, ravvisando la necessità di un‘inversione di rotta che restituisca alle opere e agli elementi costitutivi, persino ai raw data e tecnica images, una centralità troppe volte assunta dal linguaggio verbale e letterario, talvolta immaginifico ed emotivo. Ciò è ancora più vero in casi come questi, laddove la mano del copista va scovata in aspetti che tradiscono la sua pratica tecnico-esecutiva o la sua volontà di raggiungere un coincidente effetto finale di superficie attraverso una costruzione dell’immagine, un’interpretazione del modello da riproporre.
Questo avviene nelle copie d’autore quale il San Giovanni Battista di Capodimonte.
L’attività di Bartolomeo Manfredi quale copista di Caravaggio è notoriamente suggerita dalle fonti. Giovanni Baglione in apertura della “vita di Manfredi” dedica al pittore di Ostiano il racconto sulla capacità di Andrea del Sarto di riprodurre così fedelmente il Leone X di Raffaello da trarre in inganno persino Giulio Romano, che nel ritratto aveva collaborato con il maestro. «Di quella virtù fu dotato Bartholomeo Manfredi, che – prosegue il biografo – fatto grande si diede ad imitare la maniera di Michelagnolo da Caravaggio, e arrivó a tal segno che molte opere sue furono tenute di mano di Michelagnolo, ed infïn gli stessi pittori, in giudicarle, s’ingannavano» n7.
Giovanni Pietro Bellori avrebbe confermato tale visione con parole evocative: «… non fu semplice imitatore, ma si trasformò nel Caravaggio, e nel dipingere parve che con gli occhi di esso riguardasse il naturale» n8.
Non abbiamo riscontri documentari a supporto di una simile attività di studio diretto e riproposizione delle composizioni di Caravaggio, se non il riferimento ellittico di una commissione al Manfredi direttamente da Giulio Mancini, biografo e collezionista, nonché grande estimatore del pittore di Ostiano. Come è noto, non ottenendo dal Cardinal Del Monte il permesso di far copiare il dipinto di Caravaggio con lo Sdegno di Marte, tuttora non rintracciato, Mancini incaricò Manfredi di dipingere un’altra versione con lo stesso tema (ora all’Art Institute di Chicago), da ritenersi dunque una composizione soltanto ispirata e verosimilmente non replicata dall’originale n9.
Il riferimento al medico biografo è comunque utile per ricordare la sua definizione ristretta di Schola del Caravaggio, composta soltanto dal giovane Ribera, da Cecco del Caravaggio, dallo Spadarino e da Manfredi, cui aggiunge, ma solo in parte, Carlo Saraceni n10.
È in questo gruppo di pittori, restringendo il campo rispetto alle tendenze critiche ‘pancaravaggiste’ del passato n11, che abbiamo da tempo iniziato un percorso di verifica del tangenze tecnico-pittoriche con il caposcuola e dell’ipotesi che alcuni procedimenti siano attinti da un modo di dipingere, evidentemente non divulgato o trasmesso nel consueto rapporto maestro-allievo n12.
E’ ad esempio un dato acquisito che lo Spadarino – e al momento potremmo dire lui soltanto – erediti il procedimento del Merisi di incidere direttamente sulla tela i riferimenti per la struttura della composizione, caratteristico e distinto rispetto alla pratica di trasferire i profili disegnativi dalla grafica preparatoria.
Nelle opere di Manfredi l’analisi dei procedimenti pittorici attraverso le ricerche tecniche restituisce generalmente il suo studio meticoloso degli effetti di superficie della pittura di Caravaggio, conseguiti seguendo processi autonomi. Non emergono in questo senso tracce materiali che lascino ipotizzare una sua presenza al fianco del Merisi mentre dipingeva. Al contrario la capacità di replicare in superficie l’articolazione di contrasti e volumi propria di Caravaggio, con piena e acuta interpretazione del testo del maestro seppur con percorsi compositivi indipendenti, suggerisce un’acquisizione che verosimilmente dovette comportare la produzione di repliche.
Non diversamente dalle fonti seicentesche dei biografi, la critica novecentesca, che pure ha contribuito alla riscoperta di Manfredi e della sua opera, ha mantenuto a lungo il suo profilo «quasi in veste di contraffattore del Caravaggio» (Roberto Longhi) n13.
Ciononostante, la progressiva messa a fuoco del suo stile, la riconsiderazione del suo ruolo non come divulgatore e caposcuola di una maniera, ma come interprete problematico e originale del grande maestro lombardo hanno recentemente diffuso qualche dubbio per gli stessi suggerimenti delle fonti, nonché per la possibilità di una sua produzione di repliche, a fini di studio o su richiesta di committenti.
La proposta che in questa sede si discute intende riconoscere la mano di Manfredi in due dipinti tratti da originali del Merisi, entrambi raffiguranti San Giovanni Battista, l’uno – già citato – commissionato da Ottavio Costa n14, l’altro confluito a fine Settecento nella collezione di Bartolomeo Corsini (ora Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Corsini).
Le due derivazioni, la prima conservata a Napoli, la seconda a Stoccolma (Nationalmuseum) (fig.2), sono fedeli e di uguale formato rispetto agli originali, ma soprattutto rivelano significative analogie. Il confronto si arricchisce infine di un’ulteriore suggestione: una composizione autonoma con stesso soggetto è infatti stata riconosciuta nella tela di collezione Koelliker che Manfredi dipinse con il chiaro riferimento ai modelli del Caravaggio n15.
Tale proposta di un Manfredi copista di Caravaggio si avvale dell’esame della costruzione pittorica e a ben vedere quello stesso procedimento di analisi tecnica che generalmente permette di distinguere una copia da un originale – la descrizione del processo di formazione dell’immagine – può valere anche nel confronto tra copia e copia, qualora esista una sufficiente documentazione comparativa dei pittori che si suppone essere autori delle copie in esame.
La riflettografia del San Giovanni Battista mostra una profilatura scura stesa a pennello che contorna la figura, simile alle pennellate che Manfredi abitualmente aggiungeva sul fondo per far risaltare i volumi delle figure n16.
Bartolomeo usava infatti riproporre in superficie quell’effetto di contrasto chiaroscurale, che
generalmente Caravaggio otteneva lungo i profili mantenendo la visibilità “a risparmio” del tono bruno della preparazione. Tale finitura sovrapposta al limite tra due campiture adiacenti rappresenta un elemento distintivo, inconsueto peraltro nell’esecuzione di una copia, che generalmente riproduce il dato visivo dell’originale senza reinterpretarne la costruzione stratigrafica. Così, laddove due campiture sono dipinte adiacenti, il copista appone una pennellata scura di profilo che le separa, come si nota nel dettaglio all’infrarosso con il mantello intorno all’incarnato del polso destro. (Fig.3)
Un simile procedimento è stato individuato dalle ricerche tecniche nei dipinti attribuiti a Manfredi: la riflettografia IR evidenzia i profili in sovrastesura della spalla destra di Abele e del ventre di Caino nel Fratricidio di Caino di Vienna (Kunsthistorischesmuseum); del braccio destro di Bacco nel Bacco e un bevitore (Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica -Palazzo Barberini) e anche del braccio dell’angelo e del volto di Isacco nel Sacrificio di Isacco della Chiesa del Gesù (Roma), recentemente restituito a Bartolomeo n17.
La visione ravvicinata è talvolta sufficiente a ravvisare un’analoga composizione stratigrafica dei bordi, quale viene suggerita dalle evidenti numerose profilature nere, ad esempio lungo le braccia del santo, che “staccano” la figura del San Giovanni Battista Koelliker n 18. (fig.4)
Nel San Giovanni Battista di Capodimonte, l’autore della replica ripropone la struttura volumetrico
chiaroscurale dell’originale, come mostra anche la radiografia, che evidenzia la definizione “abbozzata” delle luci, impostate pittoricamente sui punti di maggior incidenza e rilievo. Che non si tratti di un copista ma di un interprete letterale si evince dalla relazione tra la redazione finale del chiaroscuro e le luci abbozzate sottogiacenti: rifinite con velature nelle aree di massima luminosità (la spalla sinistra) o talvolta smorzate e parzialmente nascoste dall’ombra (l’area in luce della coscia destra viene ridotta in superficie dalla velatura scura dell’ombra). Va poi considerato il disegno a biacca – visibile solo in radiografia – lungo il profilo della guancia sinistra, inesistente nell’originale, dal momento che Caravaggio non delinea i contorni in ombra.
Una simile traccia potrebbe anche rimandare alla trasposizione di un disegno mediante il “velo” spolverando con polvere di gesso o biacca il contorno, che nel dettaglio specifico si potrebbe essere conservato non trattandosi di un profilo ribadito pittoricamente n19.
Che si tratti o meno di una traccia residua del trasferimento, l’indicazione grafica di un profilo soltanto
suggerito nell’originale dimostra come il pittore della versione napoletana sia comunque particolarmente attento a una corretta interpretazione del dettaglio, che disegna prima di riprodurne i valori chiaroscurali. Stesso discorso per le tracce di disegno sottogiacente rivelate dalla riflettografia nell’area degli occhi: l’occhio destro del giovane è definito da un profilo inferiormente più largo con la pupilla anch’essa slittata in basso e poi corretta in corso di stesura; mentre nell’occhio sinistro il disegno oltre a definirne i margini profila sinteticamente anche l’ingombro dell’ombra verso il naso. È evidente un’attenzione specifica per il tratto fisionomico centrale che nel modello appare sprofondato nell’ombra e doveva essere di ardua valutazione (fig.5).
Simili procedimenti sono emersi nel corso delle indagini svolte sull’altra copia – qui considerata – della diversa composizione caravaggesca raffigurante San Giovanni Battista (Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Corsini). La copia, unica versione identica di analoghe dimensioni, si trova nelle collezioni del NationalMuseum di Stoccolma e proviene dalla collezione Martelli, acquistata nel 1804 dalla casa reale di Svezia n20.
Innanzitutto il confronto in sovrapposizione tra le due copie e glioriginali di riferimento mostra come la riproduzione della figura risulti combaciare piuttosto fedelmente in entrambi i casi, mentre più approssimativa è la riproposizione del panneggio e degli elementi paesistic n21. Al contempo il confronto morfologico delle pieghe nelle due copie, evidentemente reinterpretate più liberamente rispetto al modello, permette di riconoscere un simile andamento curvilineo della pennellata, larga e sintetica, con analoghe chiusure a uncino. E nuovamente il confronto per analogia può essere esteso al San Giovanni Battista di collezione Koelliker (fig.6)].
Nuovamente, rispetto al modello di riferimento che è replicato con attenzione, il dipinto Martelli non può copiare lo sguardo, dal momento che gli occhi anche nel dipinto Corsini come in quello già Costa si intravedono a fatica, appena accennati all’interno dell’ombra. Anche stavolta il copista sente la necessità di ricrearne la forma, uno schizzo non perfezionato pittoricamente che per quanto concerne l’occhio destro del giovane è slittato verso il centro. L’ infrarosso permette anche di accostare le due copie del Battista per quanto riguarda la costruzione chiaroscurale e la definizione del profilo del braccio sinistro. In entrambi i casi ricorrono segni grafici brevi e doppiati per una resa più precisa dei contorni e pennellate scure semiopache, piatte e geometriche, per la definizione delle ombre e dei volumi.
Specificamente a proposito della resa delle ombre nel San Giovanni Battista Martelli, si noti la forma esterna marcatamente tondeggiante dell’ombra sotto il mento, con un’estremità a virgola sul collo peraltro mancante nell’originale, nonché le numerose pennellate liquide e disordinate che campiscono e profilano la stesura in ombra. Si tratta di una fattura caratteristica del pittore, in questo caso in veste di copista, ma che nella composizione autografa con Bacco e un bevitore definisce l’ombra sotto il braccio alzato e sulla spalla destra del Bacco. Infine l’occhio sinistro in ombra del Bacco mostra in infrarosso pennellate scure, liquide e piatte, geometriche e semiopache nell’abbozzo della forma dell’occhio, che rimandano a quelle descritte sull’occhio del Battista Martelli. (fig.7).
Queste note tecnico-pittoriche sono state svolte attraverso il confronto delle immagini multispettrali e delle tracce che esse rendono visibili relativamente ai processi compositivi.
A conclusione possiamo aggiungere che le mestiche di alcune tra le tele qui considerate – le due copie e il Bacco e un bevitore – mostrano una generale congruità per tono e miscela, con alcune varianti nella tela napoletana soltanto per l’aggiunta di cristalli in tracce di ulteriori materiali pittorici.
Riteniamo però siano da impiegare a livello ausiliario i confronti sulla base dei materiali costitutivi, pur se importanti e talvolta decisivi ma generalmente in senso negativo stabilendo incompatibilità. Al contrario l’evoluzione recente nelle tecniche di imaging multispettrale avvantaggiano maggiormente l’analisi critica, traducendo visivamente (e non verbalmente) momenti del percorso esecutivo. Vale a dire che sempre più chiaramente, emergono documenti visivi che non sono più la somma a volte indistinta di fasi diverse dell’esecuzione. Quante volte ci ritroviamo ancora a leggere descrizioni incomprensibili di radiografie, che fraintendono impronte superficiali con elementi sottogiacenti o che interpretano come pentimenti pittorici delle riprofilature disegnative.
Anche chi scrive si è ritrovato talvolta nell’arduo compito di dover convincere in merito alla lettura di una traccia sottostante, che se non illeggibile certo chiara non è.
Proprio in merito a un altro doppio caravaggesco abbiamo vissuto e stiamo vivendo questo passaggio.
Ci riferiamo al San Francesco in meditazione, noto in molteplici versioni tra cui le due più accreditate sono quella proveniente dalla chiesa di San Pietro a Carpineto Romano (ora in Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini) e quella conservata nella chiesa di Santa Maria della Concezione in Via Veneto a Roma, (esposti di recente nella mostra Caravaggio nel patrimonio dl Fondo Edifici di Culto. Il doppio e la Copia, NdR)
Abbiamo curato direttamente la campagna di indagini svolta in parallelo sui due dipinti mentre venivano contemporaneamente sottoposti a restauro. I risultati di quella ricerca ribaltarono l’opinione prevalente relativamente all’attribuzione caravaggesca che veniva riconosciuta alla tela romana, confermando al contrario la fondatezza dell’ipotesi sostenuta da Maurizio Marini e altri in favore dell´opera di Carpineto.
I riscontri delle indagini seppure convincenti non poterono – come mai possono in realtà – conseguire una posizione unanime (Keith Christiansen continua a opporsi decisamente al cambio di attribuzione) né convincere unanimemente della incompatibilità delle due tecniche pittoriche rispetto a un’unica mano.
Rimandiamo a quanto precedentemente pubblicato per valutare gli esiti e le deduzioni n22.
Quel che ci preme in questa sede considerare è quanto recentemente emerso dalla sperimentazione sulle due tele di una nuova tecnica di indagine, rispetto a quanto da noi allora sostenuto sulla scorta della radiografia e della riflettografia IR.
La tecnica di imaging della fluorescenza dei raggi X, detta Macro-XRF, è in grado di produrre immagini in bianco e nero della composizione laddove i valori di grigio traducono la concentrazione relativa dei diversi elementi. Viene in tal modo visualizzata la distribuzione degli elementi inorganici e indirettamente dei pigmenti che li contengono. La lettura selettiva della distribuzione dei diversi elementi non è ovviamente in diretta relazione con la distribuzione stratigrafica degli stessi: la presenza del piombo e dei pigmenti che lo contengono viene segnalata sia che si riferisca alla miscela della preparazione, all’abbozzo compositivo o alla campitura pittorica. Certo la possibilità di isolare il singolo elemento riduce significativamente il rumore indotto nella tradizionale radiografia dalla compresenza di tutti gli elementi sufficientemente radiopachi contenuti in tutti gli strati di cui si compone la pittura.
A tal proposito appare illuminante il confronto in entrambi i dipinti dell’immagine radiografica – significativamente influenzata dalla distribuzione del piombo, l’elemento maggiormente radiopaco e maggiormente diffuso tra i materiali pittorici (bianco di piombo e secondariamente giallorino, giallo di Napoli, minio etc.) – con l’immagine in MaXRF della distribuzione del piombo, isolata dagli altri elementi e ridotta in intensità per quanto concerne lo strato preparatorio (la MaXRF è un’immagine in riflessione mentre la tradizionale radiografia è un’immagine in trasmissione).
Consideriamo innanzitutto la versione autografa di Caravaggio. La radiografia del San Francesco di Carpineto presenta al centro una serie di tracce piuttosto confuse e discordanti dall´immagine dipinta, autorizzando una ipotesi di lettura sulla quale hanno concordato gli studiosi e i conservatori coinvolti nelle ricerche tecniche e nel restauro.
Secondo questa ricostruzione [Fig.8] in una prima redazione compositiva Caravaggio avrebbe dipinto una figura con saio di piccole proporzioni in uno scorcio simile a quello del San Francesco. Tale proposta suscitava riflessioni diverse, riguardanti anche la datazione, dal momento che Caravaggio appare abbandonare le composizioni a figure piccole tra la prima e la seconda redazione del Martirio di San Matteo. La possibilità di un´interpretazione univoca e precisa dei dettagli e dei margini della figura nascosta è quasi annullata dalla coincidenza tra alcuni profili sottostanti e alcune forme delle pieghe e del saio del San Francesco. D´altra parte il riutilizzo di parti della figurazione sottostante per comporre la redazione finale costituisce un dato ricorrente, anche in Caravaggio, come dimostra nella Vocazione di San Matteo il San Pietro aggiunto sulla redazione originaria di Cristo.
La valutazione della modifica e della sua entità aveva fornito un argomento non secondario nell´attribuire al dipinto di Carpineto una primogenitura rispetto alla tela dei Cappuccini. Per questo motivo, per i residui di incertezza su questo specifico aspetto e generalmente sugli argomenti a sostegno della nuova attribuzione, abbiamo per primi sostenuto a dieci anni di distanza l´ampliamento delle indagini e la sperimentazione della nuova tecnologia di imaging.
L´immagine di una forma analoga a quella intuita nella radiografia non viene restituita dalla distribuzione del piombo, né peraltro di alcun altro elemento e questo ha dato da pensare. La piccola figura potrebbe essere stata cancellata da uno strato locale di ripreparazione sufficientemente spesso o comunque in grado di schermare i raggi X e di ridurre il fenomeno della fluorescenza nella stesura sottostante.
Va però anche considerata la possibilità che la radiografia induca in errore e che la nostra disponibilità a integrare e interpretare segnali incoerenti abbia un ruolo significativo nella lettura di questa e di chissà quante immagini radiografiche, laddove non esista altra documentazione di conferma o comunque evidenza manifesta nella lettura. Al contempo diversi elementi di valutazione si sono aggiunti grazie alla nuova tecnica di indagine avvalorando su altre basi, piuttosto che sovvertendo, l’ipotesi attributiva in favore della tela di Carpineto: nell’immagine della distribuzione del piombo emerge una porzione di tessuto sotto il teschio poi sostituita dalla pietra e in tal modo replicata nella tela dei Cappuccini [Figg.8-9].
La porzione della corda che scende anteriormente al saio scompare nell›immagine della distribuzione del piombo della copia, per ricomparire nell’immagine del ferro, probabilmente interpretata come una parte del margine del saio e dunque dipinta con lo stesso impasto a base di terre. La stesura e la composizione dell’incarnato del santo nella tela da Carpineto mostra chiare analogie con l’impasto liquido a biacca e cinabro di tante opere del primo periodo di Caravaggio, quale ad esempio la Maddalena Doria.
Numerose tracce del procedimento compositivo trovano forma nelle nuove indagini, di cui abbiamo qui richiamato un singolo esempio. Sono informazioni visive più fini e precise degli ampi e confusi pentimenti che spesso la lettura delle radiografie ha in passato suggerito e che indicano un diverso orizzonte per la lettura critica e la comunicazione dei risultati e delle interpretazioni
Come si augurava profeticamente il filosofo Vilém Flusser già trenta anni fa23, le nuove tecnologie nella formazione e trasmissione delle immagini stanno già trasformando lo statuto epistemologico della conoscenza e la forma, il linguaggio della sua comunicazione. Nella nostra disciplina questa sfida èstata raccolta dalla Technical Art History.