di Luca BORTOLOTTI
Luca Bortolotti (Roma, 1963) si è laureato in Storia dell’Arte alla Sapienza Università di Roma con una tesi dedicata a Jacopo Bassano ottenendo in seguito il Dottorato di Ricerca presso l’Università di Bologna. Ha pubblicato numerosi contributi sulla pittura veneta del Cinquecento, riservando sempre una particolare attenzione a questioni di metodo e di teoria dell’arte. Dal 2007 è attivo nel mercato dell’arte come esperto di pittura antica, dapprima per la case d’aste Finarte di Roma e poi per Hampel Fine Art a Monaco di Baviera. Attualmente è Capo Dipartimento di Arte Antica presso Bertolami Fine Arts di Roma. Dal 2010 è docente del Master of Art della Luiss – Libera Università Internazionale degli Studi Sociali.
Caravaggio, la Storia dell’Arte e la notte in cui tutte le vacche sono nere.
Come in uno sfrenato festino in onore di Dioniso l’ubriacatura caravaggesca sembra destinata a non avere fine. Essa presenta, ormai, connotati di passione collettiva che siamo soliti associare ad altri e (si presume) meno nobili ambiti dell’attività umana e che, per estensione e profondità, si direbbero non avere veri precedenti nel campo delle arti figurative.
Al confronto con l’amore e le attenzioni che oggi investono Caravaggio retrocedono quasi a fenomeni di nicchia quelli, pur planetari, che riguardano Leonardo e Vermeer, Van Gogh o gli impressionisti, per tacere di quelli che nei secoli hanno coinvolto, ma entro confini più strettamente elitari, Michelangelo e Raffaello, oppure, ancor più selettivamente, i “primitivi” o Pontormo, Canaletto o Francesco Guardi.
Il fenomeno è noto e negli ultimi anni è stato ampiamente rilevato dagli storici dell’arte, ma soprattutto è stato ben compreso ed estensivamente sfruttato in ciascuno degli aspetti che, a vari livelli, ruotano intorno al mondo dell’arte: mostre e divulgazione culturale, media e social, fino alla pubblicità e alla produzione di gadgets. Decisamente oggi Caravaggio è pop. Di più: è pop senza aver perduto (almeno sin qui) nulla della sua aura presso la comunità scientifica, rappresentando un caso raro di non conflittualità tra cultura “bassa” e cultura “alta”, di convivenza pacifica fra i due livelli.
Si direbbe, in effetti, che il “pubblico dell’arte” – entità astratta, sempre più estesa, ma sempre meno provvista di un identikit minimamente omogeneo – nutra una curiosità insaziabile per qualsivoglia aspetto della vita e dell’opera di questo sommo artista, reclamando di continuo nuovi fatti, ipotesi, supposizioni e ovviamente dipinti, che vadano a implementare senza sosta il nostro già eccezionalmente cospicuo data-base dedicato a Caravaggio: un dossier che coinvolge anche gli aspetti più indiretti, nutrendosi delle triangolazioni più impalpabili come delle più spericolate connessioni di fatti e di significati, ma del quale, nondimeno, gli specialisti non mancano di rilevare con vivo rammarico, quando non proprio con sgomento, le circoscritte manchevolezze. Certo, resta qualche punto oscuro, in particolare legato alla formazione, ai tempi del fatidico arrivo a Roma e alle vicende che ne precedettero la tragica fine: ma, per quanto si tratti di aspetti rilevanti, un occhio esterno si sorprenderebbe nel constatare come le perduranti incertezze che li riguardano vengano percepite dalle legioni di studiosi che si occupano del Merisi come un vulnus insopportabile, cui si cerca di porre rimedio attraverso ricerche d’archivio, convegni e studi miscellanei che si susseguono senza sosta, conditi di polemiche spesso culminanti in conflitti accademici ad altissima temperatura.
Le ragioni di tanta passione e accanimento, che confina col morboso, sono ormai diventate esse stesse oggetto di riflessione critica, con esiti che, direi inevitabilmente, finiscono per ruotare intorno alla presunta consonanza dello stile naturalistico e iper-espressivo della pittura di Caravaggio col sentimento se non con un ipotetico zeitgeist contemporaneo: ciò che, a cascata, ispira arditi collegamenti ideali con artisti del recente passato, o persino viventi, magari suggestive ma di dubbio costrutto gnoseologico.
Interpretare il fenomeno della Caravaggio-mania attraverso il cannocchiale di una storia della cultura a maglie larghe (sorta di critica dell’ideologia alleggerita dagli abiti ambigui della “storia del gusto”), comporta il ricorso a un’attrezzatura concettuale per sua natura né solida né precisa, che prima o dopo conduce fatalmente dentro l’imbuto critica della “modernità” di Caravaggio: categoria tra le più impalpabili, quest’ultima, che, com’è noto, può essere riferita a chiunque e a qualsiasi cosa. Spiegare le mode, del resto, è un’impresa sempre piena di insidie, giacché, oltre alle possibili ragioni storiche generali, impone di considerare adeguatamente sia la quota rilevante di accidentalità da cui esse derivano, sia la fitta rete di interessi che convergono nel loro pieno sfruttamento, dapprima alimentandole e infine contribuendo, per saturazione, al loro tramonto.
In questa sede, comunque, non è mio intento contribuire alla messa a fuoco delle cause della moda caravaggesca, né aggiungermi alle tante voci volte a censurare, del tutto opportunamente, la pratica vieppiù selvaggia di proporre, non di rado con una sbalorditiva quota di azzardo, nuove attribuzioni al grande artista. Vorrei piuttosto soffermarmi brevemente sulle conseguenze scientifiche e in senso lato epistemologiche che una tale moda comporta nell’ambito delle scienze umane. In altre parole: riflettere su cosa si concentra prevalentemente l’indagine caravaggesca oggi e su come essa lo faccia, con quali strumenti, con quali verifiche, con quali obiettivi euristici. Il fatto che un oggetto venga analizzato contemporaneamente da centinaia, o forse migliaia, di studiosi (fra i quali anche tanti dilettanti e semplici appassionati) mi pare, infatti, che, nella sua eccezionalità quantitativa, non possa risultare privo di effetti significativi sugli orientamenti, i metodi e gli esiti di tanto lavorio, inevitabilmente orientando l’agenda e le priorità della ricerca.
Pur senza disporre di dati obiettivi, penso di poter sostenere ragionevolmente che non c’è grande artista che oggi vanti un numero di studiosi e di pubblicazioni comparabile a quello che negli ultimi decenni ha riguardato Caravaggio, non solo nell’ambito delle arti figurative, ma anche negli altri campi della produzione artistica. A braccio, direi che né Dante, Shakespeare o Tolstoj, né Bach, Mozart o Beethoven, siano fatti segno di una simile messe ininterrotta di contributi di ogni genere che si susseguono a ritmo quasi quotidiano. Con l’ulteriore, rilevante differenza che, mentre questi artisti costituiscono un oggetto di analisi riservato pressoché esclusivamente al più alto specialismo, Caravaggio è diventato un campo da cui oggi ciascuno si sente legittimato a raccogliere qualche frutto, complice anche l’attuale paradigma (in sé, naturalmente, per nulla disdicevole) della ricerca archivistica: la quale però, com’è noto, per produrre risultati significativi e non effimeri deve restare più un mezzo che un fine, essendo guidata da un obiettivo chiaro a monte dell’indagine, da un adeguato bagaglio tecnico e da una consapevolezza critica che permettano di discernere tra essenziale e superfluo, tra ciò che può essere rilevante e ciò che risulta accessorio, o inutile, o nocivo, rispetto alla crescita della conoscenza intorno a un oggetto di studio.
Oggi la popolarità di Caravaggio e la sete di nuovi saperi che lo riguardino, anche minimi, futili o meramente collaterali (per tacere di quelli artefatti o inventati, che pure non mancano), spinge all’accumulo indiscriminato di dati, e alla costruzione delle ipotesi più ardite, o perfino francamente strampalate, che producono comunque la conseguenza di regalare l’agognato quarto d’ora di celebrità a chiunque le abbia proposte. La parola-chiave Caravaggio garantisce pubblico a qualsiasi medium – libri, riviste, quotidiani, trasmissioni televisive, siti web… – e ciò costituisce una molla potente, e in questi termini inedita nell’ambito delle scienze umane, a cavalcare l’onda in ogni modo. Ecco, dunque, il proliferare di nuove attribuzioni (quasi tutte destinate al rifiuto della comunità scientifica e a finire rapidamente nel dimenticatoio) e di nuovi reperimenti archivistici (molto spesso privi di conseguenze scientifiche rilevanti).
C’è da considerare, tra l’altro, che il corpus certo di Caravaggio si presenta piuttosto circoscritto di numero e costituito in gran parte di opere ben documentate, divise tra i dipinti eseguiti per importanti destinazioni ecclesiastiche e quelli riservati a committenti celeberrimi e a loro volta studiatissimi.
A ben vedere, conseguentemente, non sono poi infiniti i nodi essenziali sui quali urga ancora fare chiarezza o che reclamino radicali cambiamenti di prospettiva: più che altro approfondimenti o aggiustamenti di tiro, sempre opportuni e benvenuti, ma non tali, direi, da alimentare in modo naturale il succedersi a cadenza settimanale di nuovi contributi. Anche dal punto di vista iconografico molto è stato detto, accettato, confutato o refutato, e oggi persino su quel fronte le questioni interpretative cruciali che necessitano un assiduo scavo filologico e una serrata dialettica critica appaiono piuttosto circoscritte (e probabilmente destinate a restare prive di una risposta “definitiva”). Non si parla qui, va da sé, dei sentieri sempre aperti dell’ermeneutica testuale e dell’interrogazione dei livelli di senso simbolico e anagogico: sfide interpretative che per definizione non possono mai dirsi definitivamente chiuse, ma che comunque, pur praticate estesamente in passato, all’interno della letteratura caravaggesca degli ultimi anni costituiscono un’esigua minoranza.
Ne consegue che una spinta potente a studiare così pervasivamente Caravaggio, accanto ovviamente alla sua indiscutibile grandezza, è prodotta proprio dalla sua popolarità, dalla collocazione al centro del canone dell’arte italiana che il senso comune, più o meno esplicitamente, oggi gli riconosce (al posto, per intenderci, che Vasari assegnò a Michelangelo e il classicismo a Raffello) ed è il frutto di quest’onda di passione collettiva (al contempo irrazionale e interessata, genuina e indotta) alla quale il lavoro del ricercatore s’impegna a dare una forma compiuta, con i rischi conseguenti di debolezza di motivazioni critiche, di eccesso di amore, nonché di un certo narcisismo da parte di colui che sceglie di indirizzare le sue fatiche a tanto oggetto di indagine, con il ritorno di attenzione senza pari che gliene deriva.
Il punto di vista del mercato, come spesso accade, fornisce a modo suo un riscontro relativamente oggettivo, seppur parziale, a questo problematico stato di cose: a fronte, infatti, della pletora di studiosi che sono, o si proclamano, specialisti di Caravaggio, di ogni età, area geografica, tendenza metodologica, prestigio accademico (tra i quali, beninteso, molti dei più eminenti e apprezzati membri della nostra disciplina), non ce n’è nessuno il cui parere “faccia testo” dal punto di vista attributivo, o perlomeno nessuno a cui venga riconosciuta un’indiscussa autorevolezza, un posizionamento super partes che garantisca, quantomeno, una credibilità scientifica non condizionata da fattore esterni. Troppi interessi in gioco, troppi galli a cantare, troppo litigiosi e troppo impegnati a difendere il proprio angolo di cortile, si potrebbe chiosare prosaicamente, ma con un certo opportuno bagno di realismo.
C’è stato un tempo in cui il valore e la necessità di uno studio storico-artistico si valutavano sull’importanza delle novità documentarie e/o interpretative che comunicava in merito alla produzione e alla biografia di un autore, ovvero sull’originalità del punto di vista che gettava sulla sua opera. Oggi sembra che per Caravaggio ogni novità documentaria, ogni ipotesi attributiva, ogni supposizione biografica rivesta un interesse speciale e debba essere discussa, approfondita, corretta, ribaltata: “a prescindere”, direbbe Totò.
A margine, come ulteriore riprova dell’impressionante profondità e consistenza della Caravaggio-mania, si può aggiungere che, ancor più sorprendentemente, tale stato di cose sembra ormai coinvolgere indiscriminatamente, esondando per mera contiguità territoriale, i pittori “caravaggeschi” (categoria che rischia ormai di includere qualsiasi artista attivo nella prima metà del Seicento che abbia fatto uso di contrasti luministici), oggetto a loro volta di attenzioni propriamente impensabili solo fino a qualche decennio fa. Viene da pensare che, negli studi caravaggeschi, stia infine arrivando la notte in cui tutte le vacche sono nere.
Luca BORTOLOTTI Roma settembre 2019