di Massimo FRANCUCCI
Sebbene considerato talvolta un artista importante, ma non il gigante della pittura quale invece è, Carlo Crivelli vanta in realtà una caratura mondiale.
Il crescente apprezzamento goduto presso i collezionisti, nel momento in cui nei luoghi dove si conservavano i suoi maestosi polittici questi venivano sezionati e alienati, avrebbe portato alla diaspora delle sue opere, che si possono rintracciare nelle più importanti raccolte d’arte, che si andavano formando in quell’epoca. Tale distribuzione capillare ne ha favorito la conoscenza e la considerazione, ma al contempo ha depauperato la terra che aveva accolto il pittore dandogli una nuova patria. Ne consegue un fitto sistema di relazioni di cui Crivelli è il collante, facendo da cerniera tra i luoghi che ospitano i suoi dipinti, creando così legami altrimenti impensabili.
Per qualche mese sarà Macerata e il suo palazzo Buonaccorsi il centro ideale di questa rete grazie alla mostra curata da Francesca Coltrinari e da Giuliana Pascucci.
Veneziano di nascita, Carlo Crivelli (Venezia, 1430 ca – Ascoli Piceno, 1495) aveva con ogni probabilità lasciato la patria in seguito a uno scandalo da cronaca rosa, ossia una relazione, di quelle pericolose, intrattenuta con la moglie di un marinaio e si sa che l’adulterio veniva allora severamente punito dalla legge. L’unica menzione del pittore nella città sempre ricordata nelle sue firme è quindi la condanna del 7 marzo 1457 per concubinaggio con Tarsia, sposata come detto col marinaio Francesco Cortese.
Il temperamento piuttosto esuberante del pittore lo aveva condotto a rapire la donna e a tenerla nascosta: la pena è di sei mesi e di duecento lire di multa. Tale evento scabroso favorirà il trasferimento di Crivelli nelle Marche, dopo un soggiorno a Zara e non prima di aver fatto sua la lezione squarcionesca e padovana.
La scelta del Piceno, Fermo prima e Ascoli poi, non deve affatto sorprendere in quanto le relazioni ‘adriatiche’ furono a lungo molto più semplici di quelle che in seguito avrebbero avvicinato maggiormente questi territori a Roma e all’Emilia, lungo una direttrice che congiungeva le due città più importanti dello Stato pontificio senza uscirne dai confini.
La presenza di opere di Paolo Veneziano, di Jacobello del Fiore, di Michele Giambono, dei Vivarini, fino ai capolavori di Tiziano, in primis la Pala Gozzi di Ancona, testimonia quanto a lungo le tratte marittime abbiano rappresentato un percorso privilegiato, senza dimenticare l’altro pittore lagunare che avrebbe trovato nelle Marche se non il successo meritato, la terra pronta ad accoglierne le elegiache inquietudini, ossia Lorenzo Lotto.
Le opere in mostra sono state accuratamente selezionate e, purtroppo, si è dovuto rinunciare ad alcuni prestiti rivelatisi nella congiuntura attuale non praticabili, su tutti la Pietà del Harvard Fogg Museum, dove era giunta un secolo orsono grazie alla donazione di Arthur Sachs. Parzialmente ridipinta, quest’opera avrebbe in ogni caso dato risposte in merito alla sua possibile relazione con la protagonista assoluta della mostra: la Madonna Buonaccorsi, la vera padrona di casa.
In passato si era infatti palesata la possibilità che i due dipinti facessero parte di un unico complesso e questa sarebbe stata l’occasione di accertare quanto proposto da Mauro Minardi, ossia che le datazioni delle due opere non coincidano: in seguito si è ipotizzato dunque che il quadro americano provenga da Force, dove svettava sulla Madonna del francescano della Pinacoteca Vaticana. A trarre in inganno era la provenienza maceratese della Pietà e il fatto che questa è un trasporto su tela, come si credeva fosse anche la Madonna di Macerata. L’accurato restauro eseguito da Daphne De Luca ha messo in luce come questa sia stata dipinta ab origine su tela, una notizia piena di risvolti interessanti e di spunti per nuove ricerche.
D’altra parte, Crivelli rimane un pittore affascinante e pieno di interrogativi così come malinconico ed enigmatico è lo sguardo della Vergine di Palazzo Buonaccorsi, che dà speranze ma non certezze.
La sicurezza assoluta non si ha neppure riguardo la provenienza dell’opera, sebbene sia probabile si tratti del frammento superstite della “nostra signora in trono e quattro santi” che nel 1783 Luigi Lanzi descriveva quando ancora decorava l’altar maggiore della Chiesa degli Osservanti di Macerata, sopravvissuto all’incendio appiccato all’edificio dai francesi (1799).
Amico Ricci riporterà la scritta “Karolus Crivellus Venetus Pinsit 1470 Fermis” presente su una tela affine a quella che fa da supporto al dipinto, attaccata sul retro e in questa occasione separata ma visibile in mostra: sebbene forse non del tutto originale è comunque degna di fede poiché la datazione e il luogo di produzione coincidono con il dato stilistico e con la notizia che in quella città il pittore aveva posto la sua prima residenza marchigiana.
Allo stesso modo precoce è la deliziosa Madonna del latte di Corridonia, il cui trono riecheggia il ricordo di fatti padovani e, chissà, ferraresi. Dolcissima, la madre, dedica un amoroso ma mesto sguardo al figlio, ella sa il destino che lo attende, il sacrificio per la nostra salvezza.
Preziosa come una miniatura è la Madonna Lochis, proveniente da Bergamo, nella quale la fantasia del pittore si sbizzarrisce in mille dettagli nel paesaggio, caratterizzato da due stradine con alberelli, così come nei fiori, nella frutta e negli ortaggi che presenziano sul parapetto in basso e che danno vita in alto a una specie di festone.
Crivelli non è pittore che abbia bisogno di grandi spazi per esprimere il suo genio prorompente, ma è capace di affrontare qualsiasi formato: si veda a proposito il piccolo San Francesco che inginocchioni raccoglie il sangue di Cristo nella tavoletta proveniente dal Poldi Pezzoli: nonostante le misure limitate il pittore contorna le due figure con una architettura claustrale impreziosita da una colonna che taglia in due il paesaggio caratterizzato dalla presenza di un castello. Sempre diverso e originale Carlo non accetta praticamente mai di dipingere due figure uguali tant’è che persino ogni santino delle sue predelle ha una propria personalità forte e indipendente tanto da meritare tutta la nostra attenzione: in mostra ne è esempio il Cristo benedicente di Castel Sant’Angelo, originariamente a Fabriano.
Il severo sguardo del Salvatore rende la sua figura alquanto minacciosa e al tempo stesso magnetica e intrigante sfiorando il caricaturale nella boccuccia aperta e segnata dai baffi che assecondano le pieghe della guancia. Monumentale è infine la sublime Pietà della Pinacoteca Vaticana, in origine a San Pietro a Muralto a Camerino, dove il pittore aggiorna al moderno gli elementi propri del tardogotico come le espressioni cariche di dolore della Vergine e della Maddalena, nonché di San Giovanni col suo urlo disperato.
Anche la scrupolosa perizia con cui le vene e le ferite del Cristo vengono analiticamente descritte possono ricordare quei modelli, che il pittore impreziosisce con un bel parapetto marmoreo, prefigurazione del sepolcro, e con un pregiato tappeto che, assieme alla firma, ne ricordava ancora una volta l’origine veneziana, centro di commerci con l’oriente e dunque anche di quel tipo di merce. Ammaliati dalle meravigliose relazioni ammirate in mostra non potremo fare a meno di rincorrerne altre che ci porteranno al cospetto di ulteriori opere di Crivelli e dei crivelleschi presenti nel territorio marchigiano, non prima di aver rivissuto l’epopea virgiliana nella Galleria dell’Eneide al piano nobile del palazzo.
Massimo FRANCUCCI Roma, 13 novembre 2022