di Matteo BECCARI
Gli artisti stranieri a Roma nel Seicento.
A partire dal Cinquecento Roma si presenta come il principale centro di attrazione a livello europeo per artisti italiani e stranieri con diverse aspirazioni: alcuni desideravano solamente completare la loro formazione artistica per ritornare poi nel paese d’origine, altri invece miravano ad una carriera stabile nell’Urbe ed erano pertanto alla ricerca di mecenati. Roma veniva in questo modo a costituirsi come un ambiente prolifico e competitivo, estremamente dinamico, e caratterizzato da continui scambi culturali tra le diverse scuole pittoriche.
L’afflusso costante d’artisti nordici a Roma è testimoniato dal Passeri, che descrive questo incessante fenomeno tramite un’immagine tanto ironica quanto esplicativa:
“In quelli tempi gli Oltramontani, secondo le loro differenti nazioni s’univano tutti insieme, cioè i Francesi con i Francesi, gli Olandesi tra di loro e li Fiamminghi con li loro nazionali, e poiché allora erano tempi di allegria, perché il denaro si lasciava vedere più alla scoperta, solevano fare spesso geniali ricreazioni, e quando giungeva in Roma qualcheduno chiamato, perciò da loro Novizio, questi faceva a tutta la brigata de’ paesani una festa d’un pasto sontuoso in qualche osteria delle più celebri, nel quale ciascheduno spendeva la sua parte. La maggiore spesa toccava però al Novizio come ci si può ben figurare.”
La descrizione del Passeri fornisce una prima chiara indicazione su come si organizzavano gli artisti stranieri a Roma: in comunità. L’andirivieni di queste personalità doveva poi essere piuttosto continuo e frenetico. Per lo meno questa è l’impressione che si ha quando Mancini scrive di “molti franzesi e fiamenghi che vanno e vengono non li si puol dar regola”. Un fenomeno apparentemente incontrollato, quindi. Del resto la memoria di grandi artisti stranieri a Roma è stata tramandata attraverso le innumerevoli opere che hanno prodotto. Pensiamo a Vouet, con il ciclo di San Francesco in San Lorenzo in Lucina.
O a Claude Lorrain, con i suoi meravigliosi paesaggi delle campagne romane. O a Van Dyck, che ricevette importanti commissioni dal cardinale Guido Bentivoglio. E a tanti altri ancora. Di fianco a questa schiera di artisti famosi, tuttavia, vi è anche un nutrito gruppo di pittori, scultori, intagliatori, doratori ad altri artigiani attivi nei cantieri, al fianco dei grandi maestri, o impegnati in prestigiose committenze, che col tempo è caduto nell’oblio. Infatti di loro, molto spesso, conosciamo solamente il nome grazie agli Stati delle Anime o alle ricevute di pagamento che li riguardano. In una recente raccolta di saggi Richard Spear tenta di fare chiarezza sul numero di artisti più o meno conosciuti chi si aggiravano tra i rioni romani durante il XVII secolo e sulle loro condizioni economiche. L’autore ricorda che da un censimento svolto a Roma nel 1656 in seguito ad una violenta pestilenza che ridusse la popolazione romana del 20% circa, emerge che nel rione Campo Marzio vi erano più di un centinaio di pittori, su una campione di circa 15.000 abitanti. Inoltre, circa l’85% degli artisti erano pittori, ed il 55% di questi erano italiani, il 20% francesi e il 20% fiamminghi.
Il considerevole numero di artisti stranieri a Roma di certo giustifica l’interesse storico-artistico di queste figure spesso sconosciute. Tra gli studiosi che hanno fornito un maggiore contributo a tale proposito vi è sicuramente A. Bertolotti. Nell’introduzione all’opera Artisti Belgi ed Olandesi a Roma nei secoli XVI e XVII, Bertolotti denuncia che “In Italia, forse perché ricca di grandi artisti, furono nella storia dell’arte trascurati i minori, quantunque talvolta parecchi di loro si fossero avvicinati ai maestri“. Ciò si traduceva, secondo l’autore, in un disinteresse per la storia di queste personalità, ed in una conseguente assenza di ricerche sulla loro vita ed attività. Tale atteggiamento di indifferenza, spiega Bertolotti, ha avuto pesanti conseguenze sul piano delle attribuzioni. L’autore, infatti, ha registrato la tendenza ad attribuire opere inedite a nomi rinomati piuttosto che sollevare criticamente un ragionevole dubbio sulla loro paternità: “Purtroppo gli artisti che non posero nomi o cifre a loro lavori male provvidero alla propria fama!”.
Un altro storico particolarmente significativo per lo studio degli artisti nordici è Hoogewerff, che si è occupato degli artisti fiamminghi e olandesi attivi a Roma nel Seicento con particolare riferimento alle loro relazioni con le Confraternite. Gli artisti d’Oltralpe, infatti, oltre a organizzarsi fisicamente in comunità come sosteneva il Passeri, facevano solitamente parte di una o più Congregazioni. Tra le più importanti, per gli artisti olandesi e fiamminghi, ve ne erano tre: la Confraternita di Santa Maria dell’Anima, quella di San Giuliano dei Fiamminghi, e quella in Camposanto Teutonico. Riprendendo gli atti contenuti nei registri di queste Confraternite, Hoogewerff ha dimostrato una stretta collaborazione tra pittori stranieri e Congregazioni. Tale relazione, si sottolinea, non si riduceva però a un mero rapporto committente-esecutore. In molti casi, infatti, i pittori stessi rivestivano diversi ruoli all’interno dell’organizzazione della Congregazione: potevano essere segretari, vice-camerlenghi o, addirittura, camerlenghi. Accadeva, poi, che ricchi mecenati stranieri facessero parte delle Confraternite e affidassero incarichi ad artisti connazionali o che redigessero lasciti testamentari in favore Confraternite stesse. Un caso di mecenatismo in favore di connazionali ben conosciuto dalla critica è quello di Pietro Pescatore, un mercante fiammingo molto legato al pittore Karel Philips Spierinck. E’ noto, ad esempio, che a tale pittore Pietro Pescatore affidò l’incarico di realizzare un ritratto funebre per lo zio Giorgio Pescatore, da destinare all’interno della Chiesa di Santa Maria dell’Anima, e probabilmente fu anche decisivo per convincere la Confraternita di tale Chiesa a commissionare a Spierinck quattro tele da collocare all’interno della nuova Sagrestia.
Senza le ricerche di Bertolotti e di Hoogewerff, si può affermare, molte figure di artisti stranieri sarebbero tutt’ora sconosciute. E’ necessario chiarire poi un ulteriore passaggio. Una critica che può essere mossa nei confronti di questi studi è che, il più delle volte, raccolgono materiale su artisti di cui non ci è pervenuta alcuna opera. Da questo punto di vista, quindi, sono artisti che esistono solamente “sulla carta”: possiamo conoscerne l’esistenza, gli spostamenti, e avere dettagli di pagamenti per determinate prestazioni, ma nessun’opera conosciuta è a loro attribuita. Tale obiezione, però, è stata smentita dai fatti in più occasioni, e il caso di Spierinck ne è un esempio eclatante. La prima traccia certa di un dipinto conosciuto riferibile a questo pittore, infatti, fu rinvenuta solamente nel 1960, quando A. Blunt stava studiando una tela appartenente alla collezione reale di Buckingham Palace. Nello studio della storia di quest’opera, Blunt si trovò di fronte ad un inventario seicentesco in cui la tela veniva riferita un certo “Carlo Fellippo“. Quasi contemporaneamente Salerno, in relazione ai suoi studi sulla collezione Giustiniani, aveva rintracciato il nome “Carlo Filippo fiammengo” in un inventario del 1638. E’ stato grazie ai precedenti studi di Hoogewerff, però, che è risultato possibile associare il nome del misterioso Carlo FIlippo al pittore fiammingo Karel Philips Spierinck, che a Roma era appunto noto con il nome italianizzato. Il ritrovamento della prima opera certa di Spierinck ha consentito poi a Blunt di riunire su base puramente stilistica un ristretto numero di dipinti di tale artista presenti in prestigiose collezioni inglesi. Successivamente il corpus di opere attribuite a Spierinck si è ampliato rivelando con forza la straordinaria grandezza di questo pittore che, prima della scoperta di Blunt, risultava praticamente sconosciuto.
L’esempio di Spierinck, tuttavia, non è isolato. Merita attenzione un’altra figura particolarmente
interessante: quella di “Antonietto pittore”. Tale pittore godeva certamente di un’ottima reputazione ai suoi tempi, come testimoniato dalla presenza di sue opere negli inventari di collezioni prestigiose. Nell’inventario Giustiniani del 1638, ad esempio, compaiono addirittura ventun dipinti di questo artista di cui attualmente non conosciamo alcuna opera esistente. Salerno ne proponeva l’identificazione con Anthonie Van Os, figura che appariva più volte nei registri delle Confraternite fiamminghe, ipotesi poi confermata da alcuni documenti inediti pubblicati da Fausto Nicolai relativi al pagamento di lavori ad affresco eseguiti da Van Os e da Francesco Tinivelli nel palazzo Naro nel rione Sant’Eustachio. In questi documenti, infatti, il pittore viene in alcuni casi espressamente nominato come Antonietto fiammingo, in altri come Anthonie Van Nos, dimostrando quindi che si trattava della medesima persona. Purtroppo gli affreschi di Van Os menzionati nelle carte d’archivio sopra citate sono andati distrutti, rendendo impossibile, allo stato attuale, ricostruire la personalità artistica di questo pittore, anche se auspichiamo che un giorno si verifichi con Van Os quanto è avvenuto con Spierinck.
L’esempio degli artisti nordici a Roma mostra come, nel corso della nostra tradizione storico-artistica e non solo, si sia esercitata una vera e propria egemonia culturale da parte di una cultura dominante, quella consolidata nel tempo e che si è sempre occupata dei pittori più famosi, che ha portato, di fatto, ad una vera e propria distorsione della realtà. Va osservato come tale cultura abbia la tendenza ad organizzare gerarchicamente la produzione artistica, distinguendo tra artisti “importanti”, a cui viene impiegata gran parte delle risorse disponibili, tralasciando invece quelli “minori”. Del resto società e storia dell’arte risultano strettamente interconnesse l’una con l’altra e si influenzano a vicenda, facendo sì che in alcuni casi il metodo di ricerca storico-artistico perda quella presunta obiettività che dovrebbe caratterizzarlo.
Matto BECCARI Bologna giugno 2018
Fonti e bibliografia