di Caterina VOLPI
Il lascito di Maurizio Calvesi
I numerosi allievi che hanno avuto il privilegio di seguire i corsi universitari del professor Maurizio Calvesi non dimenticheranno mai le sue lezioni affollate, durante le quali regnava un silenzio assoluto mentre nel buio rischiarato dalle diapositive e dall’indistruttibile luce da tavolo che ancora oggi viene utilizzata nell’Aula Venturi il professore, circondato da un’aura di venerabile e inaccessibile autorevolezza, ci conduceva verso ricerche sempre più approfondite, fino a toccare gli abissi da cui riemergeva, dopo aver percorso testi, opere e documenti, impugnando una nuova verità, una smentita, una correzione al modo di vedere e giudicare le opere d’arte. Che si trattasse di Piero della Francesca o di Caravaggio, di Giorgione o di Michelangelo, di Pinturicchio o di Bronzino, ogni lezione era un viaggio avventuroso fatto con l’eccezionale guida di un’intelligenza acutissima capace di insegnare con le parole, ma soprattutto con l’esempio, l’incoraggiamento e l’esperienza. Con i suoi occhiali seduto al tavolo e circondato da assistenti e collaboratori che lo veneravano, Calvesi suscitava ammirazione e rispetto, condizione ineludibile alla nascita di un desiderio di emulazione e di apprendimento che è stato all’origine delle scelte di percorso e di vita di tanti suoi allievi, sempre appoggiati e seguiti dal suo vigile giudizio e dai suoi consigli. Fu dunque un grandissimo privilegio poterlo avvicinare, durante la stesura della tesi, ed essere accolta nella sua straordinaria abitazione a via dei Pettinari, dove viveva con la moglie Augusta Monferini, numerosi gatti, una ricca collezione di opere d’arte antica e moderna, e migliaia di libri raccolti nella celebre biblioteca disegnata ed eseguita dallo scultore Mario Ceroli. Tutto quello che riguardava Maurizio Calvesi rispecchiava la sua personalità, le sue passioni, le sue inclinazioni: le stanze labirintiche che si susseguivano all’interno di un edificio storico del centro, che era appartenuto al pittore Schifano, le opere di artisti amici, protagonisti della stagione d’oro dell’arte contemporanea romana degli anni Sessanta, perfino l’illuminazione ambivalente degli ambienti tesa a ricomporre quella tipica stratificazione e continuità tra antico e moderno e a concentrare la meditazione e la ricerca cui Calvesi, con assoluta dedizione e autentica e divorante passione ha dedicato tutta la sua vita. In questa casa egli riceveva tutti coloro che riteneva a lui in qualche modo familiari, non per sangue, lignaggio o pura affinità, ma per un comune e sincero interesse per l’arte ed il suo valore non solo estetico ma anche culturale, coloro che, come lui, erano in cerca di qualche certezza ed erano disposti a mettersi in gioco pur di trovarla, fossero costoro artisti, poeti o studiosi. Si trattava di una ricerca cui erano profondamente alieni interessi materiali, rendiconti personali, mondanità, piccoli sotterfugi e manipolazioni, appagandosi Calvesi nell’indagine di una verità che più di ogni altra cosa potesse dare valore assoluto all’arte, alla cultura e alle istituzioni culturali italiane. Rifuggendo da semplificazioni e luoghi comuni, di cui fu sempre fiero avversario, egli s’impegnò in battaglie e assunse posizioni anche scomode, con il piglio fiero di una generazione ormai sparita, frutto di rigore e duro lavoro. Lettore di Sant’Agostino, la verità gli si presentava nella forma delle parole –sempre rigorose ed esatte, puntigliosamente controllate e corrette- e nella forma dei colori e della luce dell’arte –si pensi all’importanza della luce nell’interpretazione di Piero della Francesca e Caravaggio-, mentre il brillare degli ori nella pittura di Pinturicchio veniva ricondotta a quel gusto per il colore e la materia preziosa che, affermatosi in età tardo antica, non abbandonò più la cultura artistica italiana, nel segno di un “gaio classicismo” ricostruito nel suo rapporto con le opere d’arte antica e con gli umanisti quattrocenteschi –una sorta di declinazione dell’anti rinascimento coniato da Eugenio Battisti-.
Gli erano odiose le bugie e l’ideologia e si dannava per il mancato riconoscimento dell’arte italiana del Novecento –a cominciare dal futurismo di Balla e Boccioni- cui avrebbe voluto vedere restituito un ruolo centrale nel panorama mondiale. Con la stessa energia, e non senza ostacoli e critiche, intraprese le sue battaglie per sottrarre la figura e le opere di Caravaggio all’interpretazione anacronistica in chiave di pittore ateo e maledetto, un ritratto che ancor oggi continua ad esercitare il suo fascino puramente comunicativo, mentre grazie al lavoro di Calvesi, e dei numerosi suoi allievi che ne hanno proseguito gli studi, conosciamo ora con precisione il contesto storico e culturale in cui l’artista si mosse e nel quale produsse i suoi capolavori. Stupiva e stupisce ancora, leggendo i suoi saggi, il miracoloso equilibrio tra una visione storicamente radicata dei fatti storici e artistici ed una intelligenza profonda dell’arte e dell’operare artistico, la capacità di mettere a fuoco particolari contesti del tutto circoscritti (come ad esempio il rapporto tra Caravaggio e la sua terra di origine, la religiosità borromaica e la famiglia Colonna), ed al contempo di gettare luce su aspetti centrali ed eterni della storia dell’arte quali le analogie tra processo artistico e alchimia e psicoanalisi, il rapporto strettissimo tra pittura e religiosità nell’arte della Controriforma, la perenne attualità dell’antico.
Per Calvesi l’iconologia, di cui fu tra i primi fautori in Italia, non fu mai mera erudizione, discorso collaterale e supplementare, ma attenta analisi e ricostruzione documentaria del contesto, tesa ad una comprensione profonda del significato delle opere mai scisse da una piena intelligenza del fare artistico –una familiarità naturalmente derivata dall’assidua frequentazione degli artisti e dei loro studi-. Pertanto egli ci ha additato costantemente la difficile strada che costeggia il crinale tra ricostruzione storica, valutazione artistica e interpretazione, ammonendoci da un lato dal cedere alle lusinghe di una considerazione puramente estetica e mondana dell’opera d’arte, e dall’altro dal concedersi al narcisistico compiacimento di discorsi filosofeggianti e decontestualizzati che appartengono, eventualmente, ad altri campi della ricerca.
Come tutti i metodi d’indagine anche quello mirabolante e quasi direi “alchemico”, seppur rigorosissimo, di Maurizio Calvesi scaturisce dall’esperienza personale, dal carattere, dalle naturali inclinazioni, e dai contatti con i grandi maestri –Lionello Venturi e Giulio Carlo Argan tra i primi- e con i grandi artisti –da Giacomo Balla a Cy Twombly e Alberto Burri-, un’esperienza tanto più centrale quanto per il grande studioso la storia dell’arte non fu mai disgiunta dall’impegno istituzionale e militante, dalla missione di professore universitario, tutte attività esercitate nel segno di un’ incrollabile fede nella Storia.
Oggi che si buttano giù le statue, e nei musei americani l’arte italiana viene messa in deposito per essere sostituita con quella precolombiana e africana, vale tanto più la solida fiducia nella ragione e nelle ragioni dell’arte e della cultura, nella custodia e nella corretta interpretazione del passato di Maurizio Calvesi e, mancando ora il grande conforto di un dialogo sempre aperto con il maestro, giova forse almeno ricordare le sue parole “l’arte è universale e sempre contemporanea”.
Caterina VOLPI Roma 25 luglio 2020