di Rosario DAIDONE
Dal mercato antiquariale è di recente emerso, inaspettata reliquia del primo Ottocento, un interessante piatto di terraglia finemente decorato (FIG.1)
destinato alla mensa di monaci benedettini dell’Ordine del Santo Sepolcro, frati che a Palermo erano presenti nel Convento della Chiesa medievale di San Cataldo che si trova con le sue belle cupole rosse nella piazza Pretoria, affiliata, sino al 1787, al famoso Monastero di San Martino delle Scale. (FIG. 2)
Nel piatto di candido smalto campeggia, al centro del cavetto, circondata da una corona di piccole foglie verdi, enfatica la scritta PAX sormontata dalla croce “patriarcale” o “di Lorena” (croce-spada). Nella tesa distinta da filetti blu e porpora, un articolato nastro foliato su fondo giallo è interrotto da quattro piccole metope con l’immagine ripetuta di un’articolata casa di campagna. Miniature dipinte nel tipico colore ferraccia chiaro affiancate da uno, due o tre cipressi che costituiscono l’unica distinzione dei minuscoli paesaggi. Un impianto decorativo tipico dell’Opificio palermitano del Barone Malvica riscontrato in diversi esemplari noti (1) agli studi che verrà ripreso anche dalle maestranze napoletane rientrate in patria intorno agli anni Venti del XIX secolo dopo la chiusura della fabbrica siciliana. (Fig. 3)
Il reperto è capace di suscitare particolare attenzione da parte degli studiosi perché riveste singolare importanza, non tanto per la destinazione alla sontuosa abitazione dei privilegiati committenti, giacché non pochi serviti della stessa fabbrica erano riservati a diverse potenti istituzioni religiose, quanto per la presenza del marchio BRAMELD che, non senza sorpresa, si legge incusso nel verso del piatto. (Fig.4)
Brameld è infatti il nome della famiglia di imprenditori inglesi che nel 1807 divenne proprietaria della famosa impresa Rockingham che fin dal Settecento aveva prodotto porcellane e maioliche di successo a Swinton nel sud dello Yorkshire. Trattandosi quindi di un semilavorato importato dall’Inghilterra, decorato dopo il 1807 nella prestigiosa fabbrica palermitana, occorre stabilire quali ragioni muovessero l’interesse del Barone Malvica all’importazione di piatti a smalto bianco da rifinire con le ornamentazioni dei delicati colori della terza cottura nel suo Opificio della Rocca sotto Monreale. Non escludendo la riconosciuta qualità del biscotto e dello stagno inglesi che si giovavano sin d’allora di moderni metodi industriali nelle varie fasi della lavorazione della terraglia che abbassavano notevolmente i costi di produzione e all’esenzione doganale di cui godeva Malvica per dispaccio del governo borbonico. Si potrebbe generalmente pensare alle stesse motivazioni e agli stessi criteri che adottava il settore della moda con gli ottimi tessuti provenienti dalle fabbriche inglesi confezionati nell’arte sartoriale italiana. Se si paragonano infatti i reperti della ditta esportatrice alle opere rifinite a Palermo, non c’è chi non noti le peculiari differenze del gusto e delle valenze culturali delle rispettive aree geografiche.
Delle particolari qualità artistiche delle opere allestite nel suo atelier era d’altronde fermamente convinto lo stesso fondatore che nelle iscrizioni dei vasi dedicati alla corona insiste sul fatto che “quelli stranieri cedono ai siciliani proprio per la qualità”. Donandone poi una pregevole coppia alla stessa regina Maria Carolina, moglie di re Ferdinando, in visita dell’Opificio nella primavera del 1800, su uno di essi Malvica ribadiva lo stesso concetto facendovi scrivere a caratteri d’oro:
“POCULA TRINACRIAE EXTERNIS PRAESTANTIA CERNE/ FORMA, PICTURA, ARTE, DECORE, MODIS” (Ammira [Regina] i vasi di Sicilia, più belli di quelli stranieri nella forma, nella pittura, nell’arte, nella decorazione, nelle proporzioni).
Un’orgogliosa esternazione che si concreta nella scelta del latino della dedica, fatto di non secondaria importanza, a testimonianza della cultura di Giuseppe Malvica volta ai contenuti di chiara matrice neoclassica che si riscontrano nella decorazione delle opere di cui si è dato conto dettagliato nel catalogo seguito alla Mostra organizzata nel 1997 nella Galleria Regionale della Sicilia; un’iniziativa culturale che costituisce nell’ambito della storia della maiolica siciliana un passo avanti rispetto agli studi tradizionali che si erano fermati all’esame dei reperti siciliani più antichi ignorando la grande stagione che attraversava Palermo, dalla seconda metà del ‘700 al primo ‘800, nell’ambito del Neoclassicismo. (Fig. 5)
Dal punto di vista non soltanto artistico l’illuminato Barone di Terranova, che aveva raccolto agli inizi del XIX secolo diverse attività produttive in un unico falansterio vagheggiato da filosofi ed economisti del Settecento(Fig. 6), si rivelava particolarmente accorto anche nella conduzione strategica dell’impresa considerando da parte nostra quanto appaiano evidenti le sue intenzioni che al guadagno anteponevano la qualità e la bellezza delle opere destinate ad un pubblico esigente che detestava gli orientamenti della nuova borghesia proclive all’acquisto di prodotti stranieri che l’Inghilterra sin dal 1784 proponeva a Palermo attraverso la fabbrica Wedgwood.
E se potrebbero apparire contraddittorie le importazioni inglesi da parte del Barone, che seppure molto rare, restano documentate anche da un altro piatto semilavorato che proviene dall’Inghilterra, decorato anch’esso nell’Opificio di Malvica che reca nel cavetto le intrecciate iniziali del committente entro una ghirlanda di foglie colore verde scuro e nella tesa un tralcio scandito da piccole rose accoppiate, residuo di un servizio da tavola allestito per un cliente siciliano,(FIG.7) non si possono escludere, insieme ai vantaggi economici percepiti, le simpatie e l’ammirazione che Malvica nutriva per la Gran Bretagna che trovano eco e si riflettono persino in alcune produzioni plastiche della sua fabbrica compreso il calamaio che ha come soggetto un gentiluomo vestito all’inglese con pantaloni attillati, stivali neri, redingote e bombetta (Fig. 8)
In sostanza era quello del Barone Giuseppe Malvica un guizzo non disinteressato di esterofilia che se ridicolizzata da una non numerosa élite di intellettuali, era incoraggiata e indirettamente sollecitata dai rapporti politico-militari che gli Inglesi avevano stabilito con la monarchia borbonica alla quale egli era strettamente legato in nome dei prestiti di denaro, delle franchigie doganali e dei diritti di “privativa” ricevuti nella fondazione del suo Opificio.
Lo stesso ammiraglio Nelson, da poco scomparso (1805) rispetto alla data di esecuzione dei due piatti, agli occhi del neo Barone di Villanova, che nel Gattopardo il cognato Principe di Salina definiva “coglione” dal punto di vista politico, doveva apparire come l’eroe che nel 1789 aveva aiutato il suo re a fuggire da Napoli per raggiungere la Sicilia in seguito allo scoppio della rivoluzione che porterà alla formazione della Repubblica Partenopea di breve esistenza. Probabilmente Nelson si configurava agli occhi del Barone come l’angelo che con la spada aveva ristabilito l’ordine voluto da Dio consentendo alla monarchia di riconquistare il trono l’anno successivo. In verità l’Ammiraglio e l’Inghilterra godevano nel regno borbonico di stima e popolarità non soltanto da parte di Malvica tanto più che re Ferdinando, In seguito alla sconfitta subita dalla flotta francese ad Abukir, il 10 ottobre del 1799 aveva assegnato a Nelson la ducea di Bronte in Sicilia che elevava al rango nobiliare il fedele alleato dalle modeste origini familiari.
Per comprendere meglio le simpatie malvichiane e il ricorso ai semilavorati inglesi occorre quindi fare riferimento al clima politico voluto dai Borbone che a Napoli avevano nominato, su suggerimento della regina, segretario di stato Sir John Acton mentre dal punto di vista commerciale, ormai prendevano piede nel regno le imprese come quella di Benjamin Ingham, parente dei Withaker, originario di Leeds nella contea di York, città che vantava, oltre a quelle dei tessuti, un’importante manifattura di terraglie.
Era questo un momento particolare che in Sicilia soltanto a Palermo attraversava la ceramica. Nel solco della tradizione essa volgeva lo sguardo all’Europa con cui in verità si era già misurata a partire dalla seconda metà del Settecento la Fabbrica di Santa Lucia al Borgo che produceva
“bellissimi vasi, statuine ben lavorate, di un bianchissimo stagno e di un gusto eccellente da venir preferite a quelle di tutte le migliori fabbriche d’Europa”(2)
e che, nello stesso torno di anni, nell’atelier del Duca di Sperlinga mastro Calogero Pecora realizzava “con meccanica d’ingegno” altre ricercate ceramiche di terraglia che definiva
“uguale alli servigi di tavola d’inghilterra” (3).
La storia della maiolica siciliana che affondava le sue radici nel XVI secolo si concludeva nell’Opificio di Malvica che dall’inizio dell’Ottocento, per una ventina d’anni anni forniva straordinarie opere in terraglia in stile neoclassico tendenti al romanticismo e che, come si vede dalla rarità dei reperti, solo incidentalmente si serviva delle importazioni giacché la quasi totalità della produzione, come si evince dagli esemplari pervenuti che recano la sigla BM (Barone Malvica) incussa, utilizzava impasti e smalti stanniferi siciliani di qualità. (FIG.9)
Queste opere, custodite nei musei, ritenute oggetto di avvertito collezionismo, riconosciute come maturata espressione della cultura neoclassica italiana in transito verso i metodi della produzione industriale, vedranno la loro definitiva esistenza alla fine del secolo XIX nella moderna fabbrica dei Florio che, interessandosi anche al settore della ceramica, produrranno con metodi industriali innumerevoli serviti a basso costo ai quali gli aristocratici proprietari degli oggetti “antichi” assegnavano con malcelato disprezzo la definizione di “terraglie” arrivata con lo stesso valore negativo sino ai nostri giorni. In questo caso, si tratta effettivamente di prodotti, spesso di non eccelsa qualità, decorati con abusate decalcomanie, presi in considerazione dagli studi quasi esclusivamente per dovere di citazione storica, ma forse, anch’essi destinati a diventare oggetto di futuro interesse antiquariale.
In conclusione occorre osservare che le manifatture palermitane, pur mantenendo vive le esigenze culturali, avvertendo nel Settecento la necessità di aprirsi all’Europa, si erano quasi accidentalmente avvicinate alle produzioni industriali agli inizi del XIX secolo ed entravano soltanto alla fine del secolo nella produzione seriale per inderogabili esigenze di mercato. Ma occorre sottolineare che la Sicilia non si rassegnava tuttavia ad abbandonare per sempre i metodi artigianali e la fantasia creativa che si rispecchiano nelle cosiddette produzioni popolari dello stesso periodo in cui, con Burgio e Collesano assumevano un ruolo di primo piano le creazioni artistiche di Caltagirone. Oggetti questi ultimi che, non più riservati agli usi sussidiari di cucina, sono diventati, insieme alle opere di Malvica, monumenti di un mondo perduto, nostalgiche presenze nella società dei consumi che vivono nei musei e nelle case dei collezionisti.
Rosario DAIDONE Palermo 20 Ottobre 2024
Note
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Terzo fuoco a Palermo 1760-1825, Ceramiche di Sperlinga e Malvica, Cat. Mostra a cura di L. Arbace e R. Daidone; Arnaldo Lombardo Editore, Palermo 1979
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ASCP, Provviste, Vol. 806/191 anno 1973-74 f. 212
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BCB, Villabianca QqD 95-96, foglio 315-316, in Nuove Miscellanee di Sicilia, 1766