“Chiodo della terra”; l’esordio letterario di Roberto Zito, tra il peso del rimpianto e la potenza distruttiva dell’Etna.

di Francesca SARACENO

Roberto Zito

“CHIODO DELLA TERRA”

Ed. Scatole Parlanti, 2022

Quand’ero bambina, per anni, ho fatto un sogno ricorrente: l’Etna esplodeva a dieci metri da me, dall’altra parte della strada, e la lava, rossa e incandescente, mi entrava in casa. Ne ero terrorizzata, ma… le aprivo la porta. Io, con le mie mani. E lei fluiva nel mio spazio vitale, placida e calda, come sangue vivo. Si faceva strada in corridoio, nelle stanze attigue, fino in cucina, come un’ospite curiosa e un po’ invadente.

Fig. 1 L’autore Roberto Zito

Non esattamente lo stesso scenario che ha immaginato Roberto Zito, catanese classe 1987 (fig.1), laureato in Filologia moderna, in questo suo primo romanzo intitolato Chiodo della terra (Scatole Parlanti, Collana: Voci, 2022, fig. 2), accolto con grande entusiasmo da pubblico e critica, e vincitore – tra l’altro – del primo “Concorso letterario Belpasso tra le righe” (fig.3), un premio indetto non a caso in uno dei paesi pedemontani che più volte, nella storia, ha subito l’ira funesta dell’Etna. Un’incredibile storia di varia umanità e comune dolore, quella di Zito, che alla prima pagina mi ha fatto letteralmente sobbalzare.

Fig. 2 Copertina del libro Chiodo della terra

Come se quel sogno che facevo da bambina, nella sua trasposizione letteraria, avesse assunto le proporzioni catastrofiche dell’Apocalisse. Non più un sogno, ma un incubo. Eppure, anche io, come l’autore, sono figlia della “montagna”; e come spesso accade ai figli delle madri autoritarie, crescendo imparano a conoscerle, ci prendono le misure, fino a quando non le temono più. Ma nel racconto di Zito, la grande madre nera che sorveglia i suoi figli dall’alto dei suoi 3357 mt., questa volta ha fatto più che farsi temere: li ha obbligati ciascuno a fare i conti con se stesso. Con i propri errori e le proprie scelte. I personaggi, che l’autore ha in parte tirato fuori dalla sua fervida immaginazione, e in parte concepito ispirandosi alla realtà, intrecciano le loro storie e i loro destini sullo sfondo del più catastrofico cataclisma vulcanico che la Sicilia orientale possa prefigurarsi.

Fig. 3 La targa premio del primo Concorso Letterario Belpasso tra le Righe

Un evento di proporzioni assimilabili solo alla grande eruzione del 1669 che travolse i paesi del versante sud orientale dell’Etna fino a raggiungere Catania, per poi freddare in mare i tremendi bollori. La montagna che si “gonfia” all’inverosimile, svuota le sue viscere infuocate e poi collassa su stessa, è il paradigma delle diverse coscienze che si inerpicano su per i suoi sentieri rocciosi, come richiamate “a casa” dall’urgenza della catastrofe imminente, ciascuno dalla sua tana-rifugio, per un rendez-vous con il proprio passato; i nodi di una vita vengono al pettine tutti insieme, e franano addosso a ciascuna di loro con tutta la potenza del rimorso, e del rimpianto.

E proprio il rimpianto è il leitmotiv, il filo rosso che si aggroviglia, frantumandole, nelle vite dei protagonisti. Il rimpianto di Matt, produttore cinematografico inglese di grande fama, sfuggito per anni alla paternità e a ciò che essa rappresentava: la riscoperta dei sentimenti oltre il miraggio del successo; l’affetto, l’amore, anche nell’ottica di un rapporto potenzialmente più stabile e gratificante con Lisa. La consapevolezza di aver perso tempo prezioso che la montagna, adesso, sta tranciando di netto, governa il rimpianto di Carmine, politico in carriera che ha venduto se stesso al “partito”; questa entità effimera eppure famelica che si è nutrita di lui, lo ha fagocitato, privandolo di ogni scrupolo, di ogni senso etico e morale; fino a scarnificare la sua umanità. Il “partito” al primo posto, sempre; prima della moglie, prima dei figli, prima della sua stessa integrità di uomo. Il rimpianto che monta e logora il giovane Luca, figlio omosessuale scappato dalla furia cieca di un padre padrone ignorante, violento e anaffettivo, e di una madre intelligente e sensibile ma sottomessa e remissiva, incapace di difendere la sua creatura; ricordano un po’ Ivano e Delia nel film della Cortellesi, settant’anni dopo, botte comprese. Luca che non trova pace neanche in terapia, Luca che si consuma nei sensi di colpa nell’immensa, distratta Milano, mentre la madre Agata fa lo stesso tra i boschi di Piedimonte Etneo, struggendosi nell’universo parallelo delle storie di “C’è posta per te”. Intorno a loro, insieme a loro, un’orbita di personaggi “minori”, comparse attive di una storia che intreccia i destini di tutti. L’urlo della montagna sarà il giudice imparziale che restituirà a ciascuno il frutto del proprio operato; redimerà i peccati, regalerà a ognuno di loro, in modo diverso, la libertà dai lacci stretti delle proprie coscienze; a qualcuno una seconda occasione, ad altri il silenzio pacificatore.

Ma al di là delle storie, della psicologia dei vari personaggi, costruite dall’autore con l’abilità dello scrittore di razza e l’esperienza dell’insegnante, testimone e a volte arbitro, di certe dinamiche “genitori-figli” e viceversa, ciò che davvero è trascinante in questo sorprendente romanzo, è il ritmo della scrittura, il galoppo dei pensieri e dei sentimenti, la furia incalzante, adrenalinica, di ogni evento che segue le esplosioni della montagna, e la corsa inarrestabile dei suoi fluidi rocciosi incandescenti, che spingono ciascuno dei personaggi verso una evoluzione delle loro esistenze, non più procrastinabile.

Ed è evidente il grande lavoro di ricerca, anche scientifica, condotto dall’autore per riuscire a rendere, in tutta la sua potenza distruttiva, un’eruzione tutt’altro che inverosimile; i terremoti continui che preannunciano il disastro, l’apertura di nuove bocche effusive una dietro l’altra, il ribollire della roccia fusa nelle camere magmatiche per poi riversarsi come fiumi di fuoco incontrollabili sul fianco della montagna, colonne di fumo denso di gas e detriti che si innalzano per chilometri oscurando il cielo, che – scrive Zito – assume “la consistenza della roccia”, e poi piovono giù come grandine nera, fino a quando il ventre della terra si svuota, la pressione si esaurisce e la cima del vulcano implode franando su se stessa in una colata di roccia polverizzata che seppellisce ogni cosa.

Alla frenetica e precisa descrizione della furia della montagna, corrisponde un’identica rabbiosa potenza narrativa nella resa della violenza, quasi animalesca, che caratterizza certi personaggi. Eppure, chi abbia parlato anche solo cinque minuti con Roberto Zito, non penserebbe mai che dietro quell’apparente, serafica timidezza, la sua mente sia capace di produrre scenari di così inaudita brutalità; solo gli occhi, perennemente “in perlustrazione”, tradiscono una certa inquietudine. Ma chi, a vario titolo, si serve delle parole – e l’umile sottoscritta è tra questi – sa che la scrittura è capace di sprigionare forze invisibili, che se ne stanno per anni imbrigliate nelle profondità più recondite dell’anima, e che gli autori stessi, spesso, non sanno di possedere. Fino a quando la penna – o la tastiera – non le libera. L’effetto è catartico, per chi scrive e per chi legge.

Allo stesso modo, emerge tra le righe di questo romanzo, un profondo senso di “appartenenza” da parte dell’autore, che si esplica nell’uso sapiente di quell’intercalare tipico siciliano dialettale, nella saggezza dei proverbi antichi, perfino nelle espressioni più “colorite” o scurrili, la cui forza narrativa segue di pari passo i sussulti della montagna. E traspare dalle parole di Zito, un’intensa carica di Umanità. Non ho usato la maiuscola a caso: parlo di quel sentimento di empatia vera (come quando accenna alla tragedia Rigopiano del gennaio 2017), di vicinanza solidale verso i personaggi – moderni “vinti” di verghiana memoria – che quasi annegano nelle loro fragilità, quelle di tutti, nelle quali chiunque si può riconoscere e da cui ciascuno cerca di affrancarsi. Perfino nel cinico, arrogante politico, alberga ancora un barlume di umanità, come una luce salvifica in fondo a un tunnel di arida indifferenza, che solo il terrore della fine imminente riesce a riaccendere. L’odio coltivato per anni dal figlio incompreso cede, infine, alla sua natura sensibile, e riscatta il suo debito con la vita facendo “la cosa giusta”. Lo stesso sentimento di redenzione che anche la più algida, aperta e “moderna” famiglia inglese, così lontana dalla cultura e dalle dinamiche sociali dell’estremo sud italiano, riesce a trovare proprio scalando il grembo caldo della montagna siciliana, come se ogni scossa della terra ricordasse loro il valore più arcaico e fondamentale della vita, che è l’amore.

Una lettura superficiale e distaccata potrebbe avvertire tra le pagine un sentore stereotipato laddove, tra i personaggi e le loro personali vicende, emerge una mentalità apparentemente tutta siciliana – in realtà ampiamente diffusa – di inefficienza, ruffianeria, arrivismo, o di quel patriarcato latente e mai dismesso, ancora oggi presente con tutto il suo carico di imposizioni e autoritarismo, seppure con i fisiologici adattamenti ai tempi moderni. Ma sono queste realtà ineludibili, più che stereotipi, che forgiano e identificano non soltanto gli abitanti del sud Italia, ponendosi quale contrapposto negativo al grande cuore accogliente delle popolazioni e allo splendore dei luoghi.

E sono tra i più belli, infatti, i passaggi in cui l’autore fornisce uno spaccato mirabile di questa parte della Sicilia che è anche la mia, quella del catanese, dove i panorami mozzafiato si estendono dalla cima scura del vulcano all’azzurro brillante dello Ionio, attraversando distese di boschi e radure dove troneggiano secolari il monumentale “Castagno dei cento cavalli” e il grande “Ilice di Carrinu”, che la furia della montagna in una sola notte ridurrà a una “salma” nera; e poi i borghi suggestivi di Zafferana e Milo, colmi di silenziosa bellezza, fino ai trionfi barocchi della grande città, con il suo basolato lavico, i suoi sapori intensi e la sua storia millenaria di incrollabile resilienza, all’ombra dell’austera montagna.

Tutto questo è l’humus naturale che ha reso fertile e affascinante la narrazione di Roberto Zito, dove il vulcano, “chiodo della terra e pilastro del cielo”, chiama a sé esistenze lontane, come un grande spirito che purifica nel fuoco e fa risorgere ogni cuore riarso, dalle proprie ceneri.

©Francesca SAEACENO, Catania 28 aprile 2024.