di Marco Del ROSSO
SICILIA QUEER FILM FEST 2024: RIFLESSIONI, CONSIDERAZIONI
Affermare che il Sicilia Queer Film Fest 2024 – giunto alla sua quattordicesima edizione e svoltosi ai Cantieri Culturali della Zisa- sia stato poco più che il Festival del cosiddetto “Femminismo 2.0” sarebbe riduttivo e magari un po’ provocatorio ma, forse, non così lontano dalla realtà.
Cominciamo dunque dall’inizio. Il Sicilia Queer Film Fest (chiamato a volte più informalmente “Queer Festival”) nasce a Palermo nel 2010 come un festival di carattere esclusivamente cinematografico ed incentrato sulle tematiche LGBT, allo scopo di sensibilizzare le persone alle suddette e diffonderne la conoscenza. Nel corso degli anni, però, il Queer Festival si è leggermente ampliato arricchendosi in due direzioni: da un lato accogliendo anche pratiche artistiche non inerenti il mondo del cinema (mostre pittoriche o fotografiche, performances artistiche, incontri letterari), dall’altro esprimendo una maggiore fedeltà alla filosofia “Queer”, concetto che travalica le tematiche strettamente legate alla comunità LGBT.
Cosa vuol dire, infatti, “queer”?
Da aggettivo dispregiativo usato nel XIX secolo per riferirsi agli omosessuali, è diventato nel tempo sinonimo di “sessualmente, etnicamente o socialmente eccentrico rispetto alle definizioni di normalità codificate dalla cultura egemone” (Oxford Languages). Il concetto di “queer” si è evoluto anche grazie al contributo del pensiero poststrutturalista: basti pensare alla filosofa femminista Judith Butler, autrice di “Gender trouble: Feminism and the subversion of identity”, tra i testi di riferimento dei Gender Studies e di diverse correnti del Femminismo contemporaneo, come il Femminismo intersezionale o il Transfemminismo.
La Butler (come Donna Haraway) è figlia e prosecutrice del pensiero poststrutturalista, quindi sostenitrice del relativismo culturale dei Foucault, Deleuze, Derrida e, in generale, dell’idea per cui l’universo umano sarebbe un mero costrutto culturale prodotto della società, della Storia e del pensiero – a cominciare proprio dal genere sessuale – : nulla è naturale, nulla è universale. E, a proposito di Michel Foucault, a confermare quelli che sembrano ormai essere diventati i presupposti filosofici del Sicilia Queer Film Fest, tra le numerose sezioni del Festival ve n’è una intitolata proprio “eterotopie” – in riferimento esplicito alla teoria foucaultiana – che quest’anno ha ospitato, tra gli altri, il film “Intervento divino” (2002) di Elia Suleiman, ambientato a Nazareth e incentrato sul rapporto israeliani e palestinesi. Il concetto di “eterotopia” è infatti elaborato da Foucault in contrapposizione a quello di “utopia”: è eterotopico il luogo dell’alterità, la cui soglia ci espone a mondi diversi, “altri” e per questo pericolosi per la “norma”: lo sono ad esempio gli ospedali psichiatrici, i cimiteri o le chiese, ovvero i luoghi rispettivamente della malattia mentale (contrapposta alla “salute”), della morte (contrapposta alla vita), del sacro (contrapposto al profano). L’eterotopia sarebbe dunque una “utopia realizzata”, qualcosa con cui entrare in contatto allo scopo di destabilizzare e decostruire le nostre certezze qui ed ora, e non in un ipotetico futuro: il Queer Festival si propone di essere un po’ tutto questo.
Fatta questa premessa – forse un po’ prolissa ma utile per ciò che si dirà dopo – possiamo cominciare a vedere come tutto ciò si sia espresso nel concreto delle manifestazioni artistiche proposte in questa XIV edizione del SQFF.
Nella giornata di preapertura si viene accolti da due eventi: la sezione “arti visive” ha proposto la mostra fotografica “SELBST” realizzata dai due artisti Norika Niedstedt e Michael Jonas e allestita nella Haus der Kunst dei Cantieri Culturali, a cura di Verein Düsseldorf Palermo. Nelle opere della Niedstadt la figura umana viene decostruita (parola chiave che attraverserà come un leitmotiv un po’ tutto il Festival) per mezzo della tecnica del collage: si assiste dunque a volti divisi in due – per metà bianchi e per metà indoamericani -; a sagome di volti femminili all’interno dei quali vengono applicati ritagli di nasi, occhi o labbra appartenenti a chissà chi e a chissà quale luogo o tempo; a ritratti di personaggi storici sul cui volto vengono applicati frammenti di volti contemporanei o addirittura marchi della Coca Cola e ritagli di abiti moderni: la società globalizzata e spersonalizzata di oggi è soprattutto una società dello spazio (eterotopico), in cui il rapporto fra passato e presente è pressoché svanito e in cui l’Io individuale si disintegra per ricostruirsi in un Io collettivo, con tutte le conseguenze positive e negative del caso.
Nelle foto di Michael Jonas, invece, è l’artista stesso ad esporre il proprio corpo come medium tra il maschile e il femminile: Jonas si ritrae in abiti e pose femminili, spesso nell’atto stesso di fotografarsi o di guardarsi allo specchio come tentando di rapportarsi con la propria immagine alienata da sé.
Lo stesso giorno ha luogo un’altra performance: la BALLROOM PALERMO. Su una passerella adibita per l’occasione si presenta una donna di colore che indossa una luccicante pelliccia dorata e che dice di chiamarsi Zoe, artista, performer e femminista intersezionale (per sua stessa definizione), che inaugura la performance definendola una sua “creazione”. In realtà la performance non è altro che un esempio di “Voguing”, un tipo di danza che si inserisce all’interno della Ballroom Culture: un sottoinsieme della cultura LGBT e che consiste in semplici gare di ballo.
Il Voguing, in particolare, è un tipo di danza che nasce nei locali gay delle principali città americane all’inizio degli anni ’60, che coinvolge afroamericani, latinoamericani, donne trans ed altri esponenti del mondo LGBT, e che consiste essenzialmente nell’emulare parodisticamente le tradizionali sfilate di moda, facendo il verso al modo in cui vengono presentati i due sessi, maschile e femminile: ecco quindi che la passerella comincia ad essere percorsa da uomini e donne trans, o da semplici uomini che si esibiscono in modalità drag – ovvero indossando abiti appartenenti al sesso opposto – e sfidandosi in una serie di gare di ballo con tanto di vincitore finale. La performatività (in questo caso il ballo) è, come già sosteneva Judith Butler, intrinseca al genere sessuale, consistendo quest’ultimo – sempre secondo la filosofa americana – in nient’altro che in un’imitazione di modelli culturalmente stabiliti: ecco che dunque la BALLROOM Palermo può considerarsi a pieno titolo come una performance artistica, tematizzando essa, attraverso la pratica del Voguing, tutta una serie di argomenti legati al mondo ed alla cultura queer.
Ma quello che è stato forse il principale protagonista – oltre che ospite – di questa edizione del Festival è il giovane regista Matias Piñeiro, presentato come uno degli esponenti del “nuovo cinema argentino” e di cui sono stati proiettati diversi film tra lungometraggi, corti e documentari.
Quelli di Piñeiro sono film piccoli, minimalisti, girati con pochissimi soldi e spesso con la stessa squadra di attori (quasi tutte donne). Il suo è un cinema che ricorda, per la libertà del linguaggio e per i movimenti inquieti della macchina da presa, la Nouvelle vague e a tratti addirittura il Cinema Verité, ma in particolar modo i “Racconti delle quattro stagioni” di Eric Rohmer: dietro l’apparente levità e semplicità delle situazioni si cela spesso un gioco intellettuale più complesso di quanto non appaia immediatamente.
Nel primo “El hombre robado” (2010) la figura letteraria cui si fa riferimento è quella di Domingo Faustino Sarmiento, personaggio di spicco della cultura argentina ma pressoché sconosciuto in Italia. “Hermia ed Helena” (2016) ruota invece attorno al “Sogno di una notte di mezza estate”, di cui viene ripreso il motivo dell’intreccio delle vicende sentimentali delle protagoniste che, non a caso, stanno lavorando ad un allestimento teatrale dell’opera di Shakespeare. Questo film, già stilisticamente più maturo, mi è parso particolarmente interessante per la struttura estremamente libera e frammentaria, da considerarsi come un vero e proprio marchio di fabbrica del cinema di Piñeiro: come ci racconta lo stesso regista (un ragazzo simpatico in jeans e maglietta con maniche corte che, dall’alto del palcoscenico, si prodiga con generosità e passione nella spiegazione dei suoi film) la sceneggiatura e la realizzazione del film sono avvenute in fieri e condizionate dall’esiguità dei mezzi: nel film si assiste infatti ad un continuo andirivieni spaziale (tra New York e Buenos Aires) e temporale (tra il passato e il presente) che deriva in realtà dall’assecondamento delle esigenze produttive.
Un andirivieni che rende a tratti un po’ faticosa la fruizione della storia e che mi ha in buona parte ricordato il recente “The challengers” di Luca Guadagnino, ma con una spontaneità e una leggerezza stilistica che nulla hanno a che vedere col gelido cerebralismo del regista palermitano. Il film procede dunque per frammenti, per appunti, una tecnica portata all’estremo nel suo ultimo film “Tu me abrazas” (2024) – anche questo proiettato al Festival e presentato alla Berlinale 2024 – che si impernia, questa volta, sui “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese (in particolar modo il capitolo “Schiuma d’onda”, ovvero il dialogo tra Saffo e Bricomonte) e su alcuni Frammenti della stessa poetessa greca. Dei tre film questo è senz’altro il più sperimentale e, a proposito del procedimento per frammenti, è lo stesso regista che chiarisce le sue intenzioni in un’intervista rilasciata a Il Manifesto:
“Il riferimento qui è un po’ la metamorfosi, in chiave letteraria e anche all’interno delle immagini stesse per costruire una narrazione che sia alternativa a quella abituale (…) mi piace per esempio immaginare che le ragazze nel film sono la stessa e molte, che mutano appunto. Si tratta di trovare figure che offrono paradossi, che aprono a qualcos’altro. E di partire da immagini costruite culturalmente per rimetterle in circolazione e farle scontrare un po’, confonderle, frantumarle. Perché non esiste una sola visione e questo mare, visto in un certo modo, è un segno di morte, ma anche un segno di vita. Non c’è l’uno o l’altro. E nell’iridescenza delle immagini non c’è un solo colore. Vorrei che nel XXI secolo il cinema possa riscoprire una certa ambiguità dell’esperienza”.
Se mi sono soffermato sul cinema di Piñeiro (prendendo peraltro in esame solo tre dei film presentati al Festival) è per sottolineare come, sebbene i suoi film non affrontino tematiche esplicitamente queer (identità di genere, sessualità “eterodosse” ecc.), ne esprimano comunque in qualche modo l’essenza e lo facciano con la poetica del frammento, con l’idea di film come prodotto della collaborazione fra autore, attori e troupe, con il rifiuto di una narrazione forte e chiusa, col richiamo all’ambiguità: un cinema aperto e “debole” in senso vattimiano, insomma.
Ma il SQFF 2024 ha anche organizzato due incontri tematici incentrati sull’opera di due artiste: una cineasta ed una scrittrice.
Nel primo caso si è trattato della cineasta tedesca Monica Treut, esponente del cinema lesbico underground che ha iniziato la sua attività negli anni ’80, ammirata da Werner Schroeter – fra i grandi esponenti del Nuovo cinema tedesco nonché suo amico personale – al quale ha anche dedicato il documentario “Begegnung mit Werner Schroeter”, proiettato per l’occasione. All’incontro era presente anche la critica cinematografica Federica Fabiani, che ha fatto notare come la figura della Treut fosse quasi impossibile da catalogare anche all’interno della nicchia del cinema lesbico. La studiosa ha fatto notare come nel cinema di Monica Treut avvenisse una (ancora una volta) decostruzione della rappresentazione del lesbismo proprio attraverso la pratica del sadomasochismo, e alla domanda su come si collocasse all’interno di questo sottogenere del cinema underground, la Treut ha risposto: “da un lato c’è sempre stato il sadismo, dall’altro il masochismo: in mezzo c’è la donna”.
In altre parole: la donna è sempre oggetto dello sguardo desiderante maschile. La cineasta ha dunque risposto che il suo modo di rappresentare la donna in relazione all’una e all’altra pratica è consistito nel mostrarla come protagonista di entrambe, e non come oggetto dello sguardo e del desiderio maschili. A questo proposito si è fatto riferimento alla “Venere in pelliccia” di Sacher-Masoch e al film omonimo di Roman Polanski tratto a sua volta dal testo teatrale di David Ives, facendo notare come anche nella pratica del masochismo la donna, sebbene “dominante” rispetto all’uomo, rimanga pur sempre un oggetto (come del resto hanno acutamente mostrato gli stessi Ives e Polanski). Ecco dunque che l’intenzione della Treut sarebbe stata quella di inserire un elemento di “oscurità” (termine usato dalla stessa regista) nella rappresentazione del lesbismo, per contrastare un immaginario a suo dire troppo “pink” (sempre parole sue), troppo docile e innocuo.
Tutto ciò lo si è potuto vedere in “Bondage”, il primo cortometraggio di Monica Treut risalente al 1983, in cui unica protagonista è una ragazza facente parte del gruppo “Lesbian sex mafia” (gruppo frequentato all’epoca dalla stessa regista) che, rivolgendosi alla macchina da presa, parla del suo modo di vivere la pratica del bondage: ma nel suo parlare di lacci e frustini, di legare ed essere legata, emerge qualcosa di dolce che, nell’immaginario collettivo, raramente viene associato a questo tipo di pratica:
“quando sono legata mi sento al sicuro, come cullata…quando lego una persona sto attenta a non farle male, è come se me ne prendessi cura…”.
Il giorno successivo, a Monica Treut è stato assegnato il premio Nino Gennaro (poeta, regista e autore teatrale nato a Corleone nel 1948 e morto di AIDS a Palermo nel 1995), premio assegnato ogni anno dal Sicilia Queer Film Fest a chiunque si sia distinto per la diffusione della cultura queer e per la difesa dei diritti della comunità LGBT.
Il secondo incontro, dedicato alla scrittrice di fantascienza femminista Ursula K. Leguin e al suo romanzo più celebre – “The left hand of Darkness” – è quello che mi ha lasciato più perplesso. L’oggetto dell’incontro era in realtà il libro “Ursula K. Leguin e le sovversioni del genere”, di Giuliana Misserville, dove con “genere” ci si riferisce tanto all’identità di genere quanto al genere fantascientifico. La Leguin, infatti, avrebbe messo in atto, con questo e i suoi successivi romanzi, una sovversione del genere fantascientifico proprio mediante una sovversione del soggetto narrante (da maschile a, per la prima volta, femminile). L’autrice del saggio Giuliana Misserville, insieme a due esponenti dell’associazione “Non una di meno” che hanno presieduto l’incontro insieme a lei, ha fatto notare come la fantascienza fosse un genere eminentemente maschile (per quanto, come ha ricordato qualcuno in sala, il primo romanzo di fantascienza sia stato il “Frankenstein” di Mary Shelley) e come la Leguin avrebbe scardinato tutte le caratteristiche del genere non soltanto per mezzo della storia, ma anche del modo di raccontarla: seguendo infatti gli argomenti ormai tipici del cosiddetto “femminismo della differenza” (contrapposto a quello “egalitarista”) il punto di vista femminile abolisce l’antagonista – che diventa invece qualcuno con cui relazionarsi e non più da sconfiggere – , elimina il concetto di conquista e di possesso (e quindi anche di patriottismo ed eroismo), non contempla le gerarchie: la fantascienza femminile/femminista sarebbe dunque una fantascienza relazionale.
La Leguin, inoltre, avrebbe inizialmente avuto problemi con le femministe della sua epoca per ragioni legate alla lingua: sebbene il suo romanzo parli di esseri alieni che mutano sesso ciclicamente, la scrittrice avrebbe usato comunque il pronome maschile “he” per riferirvisi, al quale, in seguito alle polemiche, avrebbe sostituito il pronome neutro inventato “hem”: quasi un’anticipazione dell’attuale “linguaggio inclusivo”.
Ciò che, francamente, ho sempre trovato opinabile di questo orientamento del femminismo contemporaneo (e che, ricordiamolo, è oggetto di critiche anche all’interno del mondo femminista – ormai diventato un coacervo di correnti di pensiero a volte anche in conflitto fra loro – ) è l’idea che la relazionalità e la tendenza alla cooperazione pacifica sarebbero caratteristiche intrinsecamente femminili, così come la competitività, l’individualismo e l’aggressività sarebbero intrinsecamente maschili. Il motivo del disappunto è che, semplicemente, tali teorie non sono ancora state provate scientificamente se non da alcune studiose (psicologhe, antropologhe, filosofe) femministe e quindi, inevitabilmente, condizionate dall’ideologia di riferimento. Non mi sembra comunque questo il luogo in cui approfondire l’argomento, quindi passerei oltre.
Il centenario della nascita della scrittrice catanese Goliarda Sapienza (1924-‘96) è stato invece lo spunto per due dei momenti più significativi del Festival: la performance di Alma Palacios e Manon Parent e un documentario dedicato alla scrittrice stessa.
Nello Spazio Marceau dei Cantieri Culturali, le due performers hanno infatti eseguito un estratto della loro performance “Autobiographie des contradictions” che verrà rappresentata interamente a settembre al teatro Les Colombier di Bagnolet, a Parigi, performance ispirata proprio al loro rapporto con gli scritti di Goliarda Sapienza.
La performance inizia con le due artiste sedute l’una accanto all’altra, in mezzo a loro uno scheletro di plastica con un festone dorato al posto del cuore che dovrebbe rappresentare proprio Goliarda Sapienza. Palacios e Parent tendono due microfoni allo scheletro di Goliarda fingendo di intervistarla; poi, sollevandolo per i piedi e le braccia, iniziano a dondolarla; poi ancora, in un crescendo di eccitazione, la riadagiano sulla sedia e, sedendosi sulle sue gambe, iniziano a toccarla, accarezzarla e baciarla dando vita ad una sorta di orgia al tempo stesso macabra e clownesca: come in un tentativo di cercare un contatto con la scrittrice che vada al di là della morte; infine la coinvolgono in una sorta di piccola performance musicale a base di musica techno in cui lo scheletro viene usato dalle due a mo’ di chitarra elettrica.
La performance si conclude con le due artiste che, quasi salmodiando, ripetono più volte
“che la tua mano impedisca all’altra tua mano di ucciderti: abbiamo due mani per sostenerci a vicenda”,
chiudendo infine con un invito ad astenersi dal giudicare moralmente la vita di chiunque. Il tutto, nel suo insieme, riesce in effetti a restituire qualcosa dello spirito trasgressivo, anarchico, disperatamente vitale ma al tempo stesso stravagante e freak proprio della scrittrice siciliana.
Il penultimo giorno ha avuto invece luogo la proiezione del documentario “Désir et rébellion: l’art de la joie – Goliarda Sapienza”, di Coralie Martin. Il film si concentra sulla vita della scrittrice ma, soprattutto, sulle traversìe legate al suo ultimo “scandaloso” romanzo “L’arte della gioia”, oggetto di un recente adattamento filmico firmato da Valeria Golino. La vita della scrittrice e le peripezie cui va incontro Modesta, la protagonista “libertina” e amorale del romanzo, sembrano quasi sovrapporsi. La Sapienza ci viene mostrata come un’intellettuale proveniente da una famiglia colta, rigidamente atea e marxista ortodossa, eredità che la scrittrice porterà con sé fino alla fine pur con qualche difficoltà. Anzi, forse a determinare la peculiare personalità (artistica e non) della scrittrice pare aver determinato il parziale affrancamento dalla rigidità dottrinale della famiglia: la Sapienza ci viene descritta infatti come una “marxista senza ideologia” e una “femminista senza ideologia”.
Molto probabilmente anarchica ma, ancora una volta, non si parla certo dell’anarchismo ideologico-bakuniano: al massimo di quello individualista-stirneriano. Un individualismo che però – come puntualizza una ricercatrice letteraria intervistata nel documentario – non ha nulla a che vedere con quello neoliberista volto esclusivamente al soddisfacimento del proprio desiderio: una rivolta personale che intenderebbe trainare con sé tutte le donne nel loro desiderio di riscatto.
Giungendo quindi alle conclusioni, e non potendo rendere conto dell’intero programma del Festival – data la quantità del materiale proposto – , non posso evitare di esprimere un giudizio – o, meglio, un’impressione – su tutto ciò che si è visto, detto e sentito in questa edizione del Festival.
L’impressione generale è che il Sicilia Queer Film Fest non sia più ormai un semplice festival ma una vera e propria finestra sul mondo: attraverso di essa si assiste a tutti i mutamenti cui sta andando incontro attualmente la nostra società. È ovvio che è in atto una rivoluzione, ma si ha l’impressione che questa rivoluzione tenda ad investire gli individui più che la struttura sociale. In altre parole: mentre prima si tentava di costruire una società nuova, ora si tende a (distruggere e poi a ri-) costruire gli individui come condizione perché avvenga il mutamento sociale. La rivoluzione deve passare attraverso la decostruzione del soggetto, soprattutto del genere sessuale e del suo presunto carattere esclusivamente culturale.
A questo proposito, però, per tutta la durata del festival mi è capitato di ripensare insistentemente al famoso dibattito/”scontro” televisivo tra Michel Foucault e Noam Chomsky andato in onda nel 1971. In particolar modo al passaggio in cui il teorico della Grammatica Universale faceva notare come, per creare una società migliore e per individuare i veri nemici della libertà, occorresse necessariamente fare riferimento alle qualità universali facenti parte della natura umana; qualità alle quali, ovviamente, il filosofo francese non poteva credere per via della sua impostazione relativistica: da un lato, quindi, la visione “utopica” di Chomsky, dall’altro quella “eterotopica” di Foucault. Oggi la seconda sembra essere quella dominante.
Tornare a quel dibattito, riprendere in considerazione la posizione chomskyana, potrebbe invece a mio avviso essere utile anche per ricordare ai sostenitori dell’ideologia gender, del pensiero queer e della decostruzione del soggetto, che criticare, o anche solo mettere in discussione tale impostazione filosofica, non autorizza necessariamente ad essere additati come reazionari, fascisti od omofobi: la critica al relativismo culturale appartiene anche al pensiero progressista – lo stesso di cui Chomsky è uno dei fari internazionali – .
Dunque è vero che siamo fatti solo di cultura? Siamo sicuri che stiamo andando nella direzione giusta? Gli individui stanno cambiando, certo: ma siamo sicuri che, insieme ad essi, stia cambiando in meglio anche la società? Io non ho risposte ma solo domande, domande che potrebbero forse infastidire qualcuno ma che, a mio avviso, è perfettamente lecito fare. Soprattutto se a porle è stato uno dei giganti del pensiero di sinistra come Noam Chomsky.
Marco Del ROSSO Palermo 5 Giugno 2024