di Marco Del ROSSO
EDIZIONE XIX DEL SOLE LUNA DOC FILM FESTIVAL –
APPROFONDIMENTO SUL TEATRO ANDROMEDA DI LORENZO REINA
Il 7 luglio 2024 si è chiusa la diciannovesima edizione del Festival internazionale di documentari Sole Luna doc Film Festival, iniziata il primo luglio e svoltasi in questa occasione alla GAM (Galleria di Arte Moderna) di Palermo con proiezioni, tavole rotonde ed eventi speciali – come la mostra dedicata al Teatro Andromeda di Lorenzo Reina, alla quale sarà dedicata la seconda parte di questo articolo – che hanno avuto luogo tra Palazzo Branciforte, il chiostro di Sant’Anna e il cortile Bonet – questi ultimi due facenti parte della Chiesa di Sant’Anna la Misericordia, chiesa barocca situata nel quartiere dei Lattarini in pieno centro storico e, fin dalla prima edizione del 2006, sede del Sole Luna Doc Film Festival – .
Il Festival è opera dall’associazione Sole Luna – un ponte tra le culture, associazione che nasce con l’intento di combattere il disagio sociale rivolgendosi soprattutto ad immigrati, senzatetto, anziani e giovani, dedicandosi al dialogo tra le culture e le diverse realtà sociali – interne ed esterne al territorio – puntando molto sui mezzi dell’arte e della creatività.
Il Sole Luna Doc Film Festival è infatti un festival cinematografico (ma non solo) che ha scelto il documentario come principale forma espressiva e come mezzo per parlare di realtà altre rispetto alla nostra, con un’attenzione particolare alle problematiche dei paesi poveri o in via di sviluppo. Ma la volontà di non limitarsi soltanto alle realtà extraterritoriali ha portato ad aggiungere la sezione “Creare legami”, incentrata su tematiche riguardanti realtà locali. Quest’anno, in occasione del centenario della nascita di Franco Basaglia, l’attenzione è andata soprattutto alla questione della salute mentale, con alcuni cortometraggi non professionali realizzati con la collaborazione dei pazienti e dei team di diverse Comunità Terapeutiche Assistite (CTA), del Centro AGA e di due Comunità Alloggio.
Fatte queste premesse e aggiungendo il fatto che il Festival si avvale della partnership di Enel Green Power, che ha incentivato la selezione di documentari a tematica ambientale istituendo la sezione Oikos, dovrebbe essere evidente come il Sole Luna Doc Film Festival sia una delle realtà culturali più importanti oggi a Palermo e non solo, viste le vaghe avvisaglie di oscurantismo reazionario che sembrano attualmente gravare sull’Europa.
Ma il notevole merito del Festival non consiste soltanto nel renderci testimoni più o meno diretti di realtà che oggi, nell’epoca dell’iperinformazione, sembrerebbero essere alla portata di tutti – quando, in realtà, le informazioni sono per lo più filtrate dalla retorica mediatica che decide di cosa parlarci e di cosa no, il più delle volte nell’arco dei pochi minuti di un servizio televisivo o attraverso le poche righe di un articolo di giornale – . Il grande merito sta anche nell’intelligenza nella selezione dei lavori, che tende a farci conoscere realtà poco note o a prediligere punti di vista inediti su questioni che si crede già di conoscere.
Ne è una perfetta testimonianza Until the sun dies di Jonas Brander, insignito dalla Giuria Internazionale del premio come miglior documentario con, tra le motivazioni, quella di “portare gli spettatori all’interno di uno dei conflitti più violenti e meno raccontati della storia recente”: quello della Colombia post-conflitto.
Il film segue infatti la lotta di due “guerrieri” che, ognuno a modo proprio, si battono per i diritti umani nella Colombia post-governo di Alvaro Uribe Vélez: Albeiro Camayo, membro del popolo NASA e guerrigliero fieramente oppositore dell’esercito, e Luz Marina, madre di un ragazzo ucciso in quello che fu lo scandalo dei falsi positivi (privati cittadini, impiegati o contadini fatti passare per guerriglieri, uccisi e poi sepolti in fosse comuni). Nel documentario vengono condensate un po’ tutte le tematiche al centro di quest’ultima edizione del Sole Luna: c’è la lotta contro lo sfruttamento capitalistico delle risorse del territorio (in questo caso spalleggiato dal governo di Vélez), la difesa e il legame spirituale con la Madre Terra (come quello mostrato qui dal popolo indigeno), la difesa dei diritti umani in un paese, come la Colombia, che non è esattamente al centro dei nostri dibattiti televisivi se non per questioni riguardanti il traffico di droga.
Ma a proposito di punti di vista inediti su argomenti già considerati “noti” (in questo caso l’immigrazione) non si possono non citare due lavori come Casablanca di Adriano Valerio e 2G di Karim Sayad. Nel primo, come racconta lo stesso regista, non si racconta il viaggio dell’immigrato Fouad da Casablanca a Gubbio: bensì ciò che accade dopo il viaggio. E ciò che accade è che Fouad, dopo dieci anni di attesa di un visto che non arriverà mai e dopo dieci anni di vita in un paese dal quale sente di non essere accettato, deciderà di tornare in Marocco ponendo fine alla sua storia d’amore con Daniela, donna pugliese di mezz’età ed ex tossicodipendente. Due personaggi che, come loro stessi hanno dichiarato, nel periodo in cui si sono conosciuti si sarebbero “salvati la vita a vicenda”. Ma ciò, evidentemente, non è bastato.
2G di Karim Sayad, invece, ci mostra le vicende di quattro contrabbandieri ad Agadez, capitale del contrabbando di emigranti, che da “trasportatori” illegali si ritrovano, in seguito alle restrizioni del governo, a diventare cercatori di oro nel deserto nigeriano. Lo sguardo del regista non è giudicante: si limita a mostrarci la vita sfiancante del “popolo del deserto” in una città come Agadez in cui, come dirà uno di loro, “non c’è lavoro, soltanto oro”. Oro che, ovviamente, non si trova se non a costo di grandi fatiche. La macchina da presa si limita a mostrarci la loro vita quasi fenomenologicamente, trovando di volta in volta la giusta distanza da cui raccontare i personaggi: a volte da lontano a volte da vicino, a volte mostrandoceli come minuscole figurine immerse nel paesaggio desertico, a volte indugiando sui loro volti, sulle mani o registrando i loro discorsi, come richiesto dalle circostanze.
Ecco quindi che, con uno stile distaccato che a tratti sembra quasi cedere alla tentazione estetizzante, una figura già da noi poco nota (quella del trafficante di emigranti attraverso il deserto fino alle città rivierasche) e che certamente non gode di una buona reputazione, viene ricondotta alla sua dimensione umana: quella di quattro disperati che tentano di sopravvivere nel deserto nigeriano. Il film, non a caso, ha vinto i premi per la miglior fotografia e la miglior regia, con la motivazione per cui il regista “dimostra di saper mettere la macchina da presa nel posto giusto al momento giusto”.
Guardando le premiazioni si ha l’impressione che le diverse giurie abbiano mediamente prediletto quelle storie che parlano di riscatto e di speranza in contesti geografici e sociali difficili. Una notevole attenzione è stata riservata alle tematiche femminili, come dimostrano la menzione speciale e il Premio della Giuria degli studenti liceali dell’Educandato Statale Maria Adelaide di Palermo assegnati a Tempo d’attesa di Claudia Brignone, storia di un gruppo di donne che si preparano ad affrontare il parto e quindi la maternità; o la menzione speciale assegnta dalla Giuria speciale “Nuove cittadinanze” al film Heavy Metal di Edward Knowles e Timo Bruun: la storia di alcune adolescenti palestinesi cresciute nel campo profughi di Alba Qa’a in Giordania, ma intenzionate a vincere concorsi internazionali di sollevamento pesi fino ad arrivare alle Olimpiadi; o, ancora, a Neirud di Fernanda Faya (Brasile, 2023), film vincitore della menzione speciale per il montaggio: ricostruzione – principalmente attraverso materiali di repertorio – della figura della zia della regista stessa (la Neirud del titolo), ex lottatrice circense: un racconto che da familiare diventa spaccato sociale sulla condizione di quelle donne che, nel Brasile degli anni ’70, trovarono come unico modo per imporsi socialmente ed emanciparsi quello di cimentarsi col wrestling femminile; tutte donne la cui memoria sembra voler essere cancellata ma che la regista ha tentato di recuperare, in un lavoro che non manca di indurre riflessioni sull’identità di genere (Neirud intrattenne anche una relazione omosessuale con la nonna della regista).
Si diceva, dunque, una predilezione per le storie che parlano di riscatto e speranza. Anche se, se si guarda un po’ più attentamente tra i film selezionati, ci si accorge di come buona parte di essi siano percorsi e accomunati da un notevole pessimismo di fondo: in Casablanca, per l’appunto, si parla di una storia di immigrazione che finisce male, di un paese che non accetta e non vuole integrare chi è diverso; in 2G, invece, la storia dei cercatori d’oro manca volutamente di un finale: non sapremo mai se quelle persone riusciranno a migliorare la propria condizione o se resteranno per sempre a vagare nel deserto alla ricerca di oro; c’è poi il cortometraggio Don Benjamin, di Ivan Zahìnos, che ci parla della battaglia quotidiana del protagonista, nato e cresciuto nella giungla, per spegnere gli incendi che, giorno dopo giorno, stanno portando alla distruzione della foresta pluviale.
Nella sua lotta quotidiana c’è caparbietà ma in fondo, forse, una inconscia rassegnazione dinanzi alla deforestazione programmatica in atto: in una scena del corto ci viene suggerito come già le nuove generazioni sembrino aver accettato l’idea per cui sarebbe “necessario” creare nuovo terreno per l’allevamento, la coltivazione e l’esportazione, dunque in sostanza assecondare le esigenze del mercato.
We will not fade away, dell’ucraina Alisa Kovalenko, segue un gruppo di adolescenti del Donbass che sognano di fuggire dalla guerra per seguire i propri sogni e aspirazioni; un viaggio sull’Hymalaya sembrerà offrire loro per un attimo l’agognata possibilità di “conquistare il mondo”, senonché, proprio a pochi mesi dalla fine delle riprese (iniziate nel 2019), l’invasione russa dell’Ucraina ha portato la stessa regista ad interrompere la lavorazione per arruolarsi volontariamente nelle Forze armate, per poi, solo in seguito, terminare la realizzazione del documentario: il precipitare degli eventi storici ha dunque conferito a questo ritratto di cinque adolescenti e dei loro sogni una ancor maggiore tragicità, che ha fatto sì che il film acquistasse una particolare rilevanza in quanto documento storico.
Ma anche un film tutto sommato vitale – come i loro protagonisti -, per quanto forse non tra i più memorabili del festival, come Once upon a time in a forest di Virpi Suutari (presentato nella summenzionata sezione Oikos), sottende pur sempre un interrogativo di fondo: riusciranno i giovani e appassionati volontari a difendere le foreste finlandesi dagli interessi dell’industria? Anche qui ovviamente non vengono date risposte, ma forse dietro la domanda lasciata in sospeso si cela una ben precisa e triste consapevolezza.
Per poi arrivare a quello che è stato forse uno dei lavori più impegnativi di questa edizione: The soil and the sea dell’italiano Daniele Rugo, cui è stato tributato il premio per il miglior suono e la miglior colonna sonora. Il film, che raccoglie le interviste fatte ai sopravvissuti della guerra civile libanese – anche qui è ricorrente il riferimento alla fosse comuni e ai diciassette mila scomparsi durante il conflitto – ricorre ad un espediente stilistico piuttosto efficace, per quanto non particolarmente nuovo né radicale come in altri film: una serie di inquadrature fisse ci mostrano il paese distrutto e desolato di oggi, mentre i racconti spesso atroci dei sopravvissuti vengono lasciati fuori campo: il risultato, come spesso accade quando l’orrore viene soltanto evocato celandolo alla vista, è difficilmente sostenibile. Ciò dovrebbe forse portare ad interrogarci sullo statuto dell’immagine oggi e sulla sua effettiva capacità, nell’epoca in cui tutto viene mostrato pornograficamente e le immagini proliferano esponenzialmente, di rendere davvero partecipi emotivamente di ciò che viene mostrato (qualcosa di simile accade nel recente La zona di interesse di Jonathan Glazer). Ma, a parte questo, la fissità dell’immagine sembra qui rimandare ad una impotenza nei confronti della realtà, nei confronti di tutte quelle famiglie che stanno ancora reclamando i propri figli scomparsi dopo più di trent’anni, e forse, ancora più in generale, nei confronti di un mondo che si sente in fondo di non poter cambiare.
E forse, a questo pessimismo tutto sommato inevitabile e comprensibile, si può rispondere soltanto con proposte visionarie, come quella avanzata da Gabriele Del Grande nel suo monologo “Il secolo è mobile”, che ha avuto luogo il primo giorno del festival: dopo aver fatto una lunga e complessa ricognizione della storia delle migrazioni mondiali (ovviamente non completa) dai tempi di Ellis Island – quando gli immigrati eravamo noi – ad oggi, Del Grande giunge alla conclusione che, forse, l’unico modo per fermare le tragedie che hanno ormai trasformato il Mar Mediterraneo in una enorme tomba acquatica potrebbe essere quello di eliminare i visti, i passaporti e tutti i controlli cui vengono sottoposti tutti coloro che vogliono o devono cambiare paese.
Le frontiere ormai non esistono più se non come barriere simboliche utili soltanto a stabilire il confine fra noi e gli altri, fra gli “autoctoni” e gli estranei, gli “ospiti”, i diversi. Certo – conclude Del Grande – , l’enorme crescita demografica prevista per gli anni a venire e lo scoppio di nuove eventuali guerre renderebbero l’emigrazione un fenomeno di proporzioni enormi con conseguenze assai difficili da gestire: ma è proprio questo che dovrebbe e potrebbe portarci a porci seriamente il problema di come arginare l’esplosione delle guerre del futuro.
Il monologo di Del Grande si apre del resto con una citazione di Stefan Zweig, il quale scriveva:
“Il mondo intero ci era aperto dinnanzi. Viaggiavamo senza passaporto e senza permessi, nessuno ci chiedeva le idee, l’origine, la razza o la religione (…). Prima del 1914 la terra apparteneva a tutti: ognuno andava dove voleva e vi rimaneva dove voleva. Non c’erano permessi né concessioni né lasciapassare.”.
Una proposta dunque, quella di Del Grande, che si pone fin da subito come utopistica e un po’ irrealistica, ma forse non così tanto.
IL TEATRO ANDROMEDA: L’ARCHEOASTRONOMIA DI LORENZO REINA
Come si diceva sopra, nella seconda parte dell’articolo parliamo della mostra fotografica – sempre ospitata dal Sole Luna Film Fest – dedicata al Teatro Andromeda di Lorenzo Reina, date le diverse peculiarità dell’opera in questione.
La mostra non si limita infatti ad esporre fotograficamente alcuni dettagli del teatro-tempio di Lorenzo Reina ma, di volta in volta, spiega il valore simbolico di ciascuno di essi.
Il motivo per cui in questa edizione del festival si è deciso di dedicare spazio al Teatro Andromeda (oltre alla mostra è stata organizzata anche una tavola rotonda alla quale era presente l’artista) è che, probabilmente, l’opera – definita come opera di archiscultura dallo stesso Reina, il quale ha fatto più volte riferimento all’idea brancusiana di architettura come “scultura abitabile” – esprime moltissimo sia circa il rapporto tra l’opera e il luogo in cui viene edificata, sia circa il rapporto col passato, col presente e col futuro: se il Sole Luna Festival cerca di creare dialogo con altri spazi e tempi, il Teatro Andromeda porta all’estremo tale idea creando un “dialogo” tra Uomo e Cosmo, tematizzando il rapporto tra Uomo, spazio e tempo.
L’opera, che è stata presentata per ben due volte alla Biennale di Venezia, è considerata come uno degli esempi più interessanti di Land art del panorama contemporaneo. Infatti, come è stato mostrato durante la tavola rotonda che ha avuto luogo il 2 luglio presso Palazzo Branciforte da Gabriella Liva, professoressa associata presso l’Università IUAV di Venezia, il Teatro Andromeda mostra delle notevoli somiglianze, sia a livello formale che soprattutto concettuale, con altre opere che hanno tentato di creare collegamenti tra la dimensione terrestre e quella celeste: come il Roden Crater Project di James Turrell in Arizona, lo Star Axis di Charles Ross nel deserto del New Mexico, o il Stadt des Orion di Hannsjorg Voth in Marocco. Il fatto che Reina non fosse a conoscenza di queste opere durante la costruzione della sua, rende il tutto forse ancora più affascinante.
Lorenzo Reina è un pastore nato a Santo Stefano di Quisquina, lo stesso paese dell’agrigentino nel quale, tra i monti Sicani, sorge il teatro. Si è autodefinito come una sorta di anti-Gavino Ledda: anche nel suo caso vi è stato un rapporto conflittuale col padre che, avversando le aspirazioni artistiche del figlio (il quale, mentre portava a pascolare pecore e asini, ha costruito la propria cultura leggendo i libri di testo delle sorelle che, a differenza sua, potevano frequentare la scuola pubblica), insisteva perché questi rimanesse un pastore; a differenza di Ledda, però, tra i due si sarebbe verificata una riconciliazione: il padre avrebbe dunque alla fine assecondato i desideri del figlio il quale, a sua volta, gli avrebbe garantito che “nulla sarebbe andato perduto” delle tradizioni familiari.
L’idea del Teatro Andromeda venne a Lorenzo Reina quando, svolgendo la sua attività quotidiana di pastore, venne folgorato da una visione notturna: le pecore che pascolavano gli apparvero come le 108 stelle della galassia di Andromeda visibili a occhio nudo in una corrispondenza tra micro e macrocosmo. Questa sorta di epifania portò Reina ad una prima costruzione del teatro nel 1984, che nella sua prima versione constava di un palco ellittico e di una piccola platea (più piccola del palco) i cui sedili erano costituiti da pietre quadrangolari che, poggiate con un’inclinazione di 45° su un basamento anch’esso quadrangolare, dall’alto davano l’impressione di essere tante stelle con otto raggi.
Durante la tavola rotonda, a proposito della forma ellittica originaria del teatro, la critica d’arte Lauretta Colonnelli – autrice di un volume su Reina e sulla storia del Teatro Andromeda (Cfr. Teatro Andromeda. Storia di Lorenzo Reina artista pastore che mutò le pecore in stelle, Marsilio 2023)– ha suggerito un collegamento con le prime “case-utero” costruite a Gerico, quella che si ritiene essere insieme a Damasco forse la città più antica della Storia: il teatro di Reina avrebbe recuperato dunque la forma curva, uterina delle prime costruzioni. Osservazione alla quale Reina ha risposto raccontando un breve aneddoto: accompagnando un ginecologo a visitare il suo teatro, quest’ultimo, guardando i piccoli sedili a forma di stella orientati verso il palco ellittico, avrebbe affermato tra il serio e il faceto che, forse a causa di una sua deformazione personale, ciò che la struttura del teatro gli evocava era l’immagine di un flusso di spermatozoi in procinto di fecondare un ovulo. Osservazione accolta molto volentieri da Reina il quale ha confermato l’idea di una connessione tra il micro e il macrocosmo, chiosata con la celebre massima di Ermete Trismegisto “come in alto così in basso”.
A questo punto si è anche parlato, in un susseguirsi di domande e risposte che sembravano essere sempre più il prodotto di associazioni intuitive che di un discorso programmatico, del rapporto fra linea curva e linea retta: la prima caratterizzante la scultura, la seconda l’architettura. Anche qui Reina coglie l’occasione per ribadire la sua idea di archiscultura, e cioè di come per lui scultura e architettura siano inscindibili e di come il suo teatro sia un esempio di “scultura abitabile”, sempre secondo la definizione di Constantin Brancusi.
Ad ogni modo, la costruzione del teatro è proseguita con l’aggiunta di una sorta di perìbolos costruito con pietre di sabucina recuperate dalle cave intorno a Caltanissetta, che circondavano il teatro come una sorta di recinto sacro.
In tal modo la pianta del teatro andava assumendo sempre più una forma trapezoidale allungata lungo l’asse est-ovest come nella tradizione degli antichi edifici sacri, con alcune aggiunte significative tuttora presenti: verso la metà degli anni novanta ecco aggiungersi, sul versante ovest, un onfalo bronzeo forato al centro e sospeso fra i due estremi di un timpano spezzato. Il foro al centro dell’onfalo assolve la funzione di inquadrare per pochi minuti il sole durante il suo tramonto nel solstizio d’inverno, in maniera tale che, per i pochi secondi di quel periodo dell’anno, il disco proietti la propria ombra al centro del palco. Sul versante orientale, invece, Reina ha aggiunto una porta aperta rivolta verso il solstizio d’estate, così da inquadrare il sole tramontante il 21 giugno di ogni anno.
Davanti le mura del teatro sono apposti altri due importanti elementi: una fonte battesimale ovoidale pagana (o uovo cosmico) collocata proprio di fronte la porta meridionale e, a pochi metri, quella che Reina chiama “pietra madre”: una roccia presente in loco da tempo immemore e su cui pastori preistorici avrebbero lasciato tracce di rituali a noi ignoti.
Al di fuori delle mura del teatro si trovano altre due opere significative: il gruppo scultoreo chiamato da Reina “Maschera della Parola” (una vera e propria maschera con la bocca semiaperta e collocata sullo stesso asse dell’onfalo bronzeo, in maniera tale che attraverso la bocca faccia capolino il sole durante il solstizio d’inverno) e, poco più avanti, la scultura del “dio Enki”, semidio sumero: una figura ispirata a Reina dalle teorie di Zacharia Sitchin sulla paleoastronautica, e quindi basata sull’idea per cui l’Uomo sarebbe il prodotto di un’operazione di ingegneria genetica: sulla testa della scultura appare infatti un cerchio sul quale sono rappresentate le ventitre coppie dei cromosomi umani. Tutto ciò non ha potuto non suggerire a molti un collegamento fra il Teatro Andromeda e l’“osservatorio astronomico” formato dai megaliti di Stonehenge.
A conferma definitiva della spiritualità pagana che permeerebbe di sé l’intera opera, sempre durante la tavola rotonda di Palazzo Branciforte, Lorenzo Reina ha parlato del suo legame col pensiero e l’opera di Rudolf Steiner: le pietre del teatro sono state infatti dipinte con la curcuma per via del suo colore giallo-ocra che, secondo Steiner, sarebbe il colore dell’aura emanata da ciascuno di noi. L’intento di Reina è dunque quello di spiritualizzare la materia, concetto usato da lui stesso per riferirsi al proprio modo di praticare la scultura: ecco quindi che scavare nella materia, come fatto da Reina con la sua Maschera della Parola, diventa un modo per accogliere la luce e far vibrare la materia dell’energia di cui è costituita.
A proposito, infatti, delle influenze artistiche che avrebbero guidato Reina nella costruzione del suo teatro-tempio, egli stesso ha affermato di aver subìto più la fascinazione dell’architettura organica vivente di Steiner – in particolar modo del suo Goetheanum – rispetto a quella di Frank Lloyd Wright o di Le Corbusier. E non è certo un caso che, tra i due, Reina abbia affermato di aver apprezzato comunque più il modernismo di Lloyd Wright – tendente ad una fusione con l’architettura organica – che quello di Le Corbusier, del quale ha affermato di aver apprezzato più gli scritti che le opere.
Il Teatro Andromeda è comunque un’opera ancora in fieri, un’opera che l’artista ha continuato e probabilmente continuerà a modificare.
Tra quattro miliardi anni la nostra Via Lattea si unirà alla Galassia M31 della Costellazione di Andromeda; sembra anzi che i gas delle due rispettive galassie abbiano già iniziato ad entrare in contatto e che, una volta avvenuto il reciproco inglobamento delle due galassie, esse daranno vita ad una nuova galassia dalla forma ellittica. Qualcuno vede in tale destino addirittura il senso profondo e tuttora misterioso dell’opera di Reina.
Marco Del ROSSO Palermo 14 Luglio 2024