di P d L
Da quando è uscita sulla stampa la notizia della vendita del complesso di Villa Ludovisi, che com’è noto contiene capolavori assoluti della storia dell’arte di tutti i tempi, dove hanno messo mano geni del calibro di Algardi, Bernini, Caravaggio, Guercino, siamo stati letterlamente investiti da richieste di approfondimento e di chiarimenti; per questo abbiano deciso di aprire un’ampia discussione raccolgiendo il parere di alcuni tra i più noti e soprattutto competenti addetti ai lavori; segnaliamo che quasi tutti gli amici lettori che ci hanno inteprellato si sono mostrati molto contrariati dal fatto che questa importantissima opera architettonica e quanto di straordinario contiene potesse rischiare magari di passare in mani straniere, e tuttavia le risposte che abbiamo ottenuto in questa prima fase della nostra inchiesta sorpenderanno proprio i più sensibili alle patrie bellezze.
Iniziamo con le risposte che ci ha cortesemente fornito Claudio Strinati, studioso a tutti noto, e soprattutto, per quanto ci riguarda in questo contesto, a lungo Soprintendente a Roma del Beni Culturali, dunque quanto mai in grado di charire i termini anche giuridici della questione oltre che quelli etici, se possiamo dire.
Nel prossimo pubblicheremo la risposta di Vittorio Sgarbi e di altri importanti studiosi che stiamo interpellando
Intervista a Claudio Strinati
-Sta facendo molto scalpore la notizia dell’asta che dovrebbe aprirsi il prox 19 gennaio per la vendita di Villa Ludovisi. Innanzitutto ti chiedo cosa ne pensi, dato che la vicenda nasce su decisione del Tribunale di Roma, a seguito dei contrasti nati tra gli eredi dopo la scomparsa del principe Niccolò Boncompagni Ludovisi, quindi ha una sua veste di legittimità. E’ chiaro però che se l’acquirente fosse un paperone straniero (a quanto pare già si parla di interessi di un “noto Emiro” che avrebbe iniziato a progettare l’eventuale acquisto) il fatto che uno degli edifici e dei posti più attraenti della città finirebbe in mano straniere porrebbe problemi quanto meno sul terreno della salvaguardia del nostro ineguagliabile patrimonio artistico; come dire: una volta aperta questa porta si è praticamente rigettata l’idea di bene comune; o sbaglio?
R: Non credo che sbagli, concependo la domanda in questo modo ma credo che ci siano in effetti delle inesattezze nella formulazione. La dicitura “bene comune” riflette un concetto ovviamente di carattere teoretico non una prescrizione legislativo o un fattore regolamentare come invece è per la dicitura “bene culturale” o la procedura del vincolo di importante interesse formulata dal Ministero della Cultura. Quindi chiunque sia il proprietario di un bene vincolato come è il Casino dell’ Aurora Ludovisi, non viene mai meno alcun criterio di tutela e fruizione. Il bene vincolato non può subire manomissioni rispetto all’assetto descritto nel vincolo, se necessitante di restauro questo deve svolgersi sotto la tutela della Soprintendenza ( il che significa un progetto approvato e un affidamento lavori vigilato dall’ autorità dello Stato), non può subire modifiche strutturali o di destinazione d’ uso, deve essere a disposizione della pubblica fruizione nei tempi e nei modi concordati tra la proprietà e lo Stato. Quindi la tutela, la conservazione, la fruizione restano quelli che son stati fino ad oggi, o perlomeno da quando il vincolo è stato imposto. Certo guardiamo adesso alla realtà quotidiana: fino ad oggi queste scrupolose cautele e queste modalità di fruizione ci sono state ma sono state esercitate con scarsa incisività, perché, lungi dall’essere il Casino Ludovisi “uno degli edifici e dei posti più attraenti della città” mi risulta invece come negli ultimi trenta anni sia stato un luogo alquanto negletto nella vita culturale e oggetto anzi di relativo disinteresse da parte dell’ amministrazione sia comunale, sia statale, nonchè del popolo romano e del turismo anche qualificato.
Le vicende familiari dei Boncompagni, che hanno invece sempre amorevolmente curato il Casino, credo siano state difficili, come sovente accade nelle storie delle famiglie nobili e, pur essendosi sempre mantenuta viva cordialità, rispetto e simpatia tra i principi proprietari e i colleghi della Soprintendenza nonché eminenti studiosi pubblici e privati che hanno seguito con attenzione le varie vicende, non ho mai visto alcuna proposta ben strutturata da parte dello Stato e particolarmente collaborativa con la famiglia, la quale a sua volta ha inevitabilmente dovuto affrontare problematiche che tuttavia, rientrando appieno nella tutela della privacy, non possono né debbono rientrare nell’ambito della nostra conversazione. Che, quindi, il timore che l’ idea di bene comune ( la cui definizione è in sé molto sfumata e controversa) venga rigettata quando, come tu dici, quella porta si aprirà a un qualsivoglia eventuale acquirente privato, non mi sembra fondato. Il Casino Ludovisi non è mai stata visto, sul piano amministrativo e direi anche prettamente culturale, come “bene comune”, nel senso più profondo e impegnativo di tale locuzione. Ma questo, ripeto, è un dibattito filologico e filosofico, non un dato giuridico o amministrativo che possa intaccare la proprietà privata, quale il Casino è, garantita dalla Costituzione e quindi passibile di legittima vendita.
-Tu sei stato per molti anni – come Soprintendente- uno dei più attenti e, aggiungo, intelligenti, cultori delle belle arti, dando prova di come un bene, grande o piccolo che fosse, non dovesse essere considerato come cosa da sfruttare, bensì motivo di studio, ricerca, conoscenza; in questo senso non temi che vista l’eccezionalità del luogo e di cosa vi è custodito il rischio di una vendita che presumibilmente comporterà esborsi milionari si traduca poi inesorabilmente nel suo sfruttamento ?
R: La domanda, in sé correttissima, mi sembra però in parte mal posta. Sfruttamento è un termine che riguarda la problematica del lavoro nell’ ottica soprattutto (ma non solo) marxista ed è un criterio utilizzato soprattutto (ma non solo) dalle organizzazioni sindacali nella lotta di classe legittimata dalla legge. In questo caso dovremmo parlare, meglio, di rischio di utilizzo improprio del patrimonio culturale, nel senso che un monumento come il Casino dell’ Aurora, dal tuo punto di vista, non dovrebbe servire, in quanto bene culturale tutelato e vincolato dallo Stato, a produrre ricchezza, ancorchè di proprietà privata. Ricorda, però, che comunque sarà sempre necessitante almeno di spese di gestione e manutentive i cui fondi non potrebbero mai provenire da attività illecite o criminali ma da attività lecite e quindi lavorative, consentendo così allo Stato di contribuire legittimamente al mantenimento e tutela del bene vincolato, quando ve ne siano le condizioni rispetto al reddito della proprietà. Resta che il bene culturale, pubblico o privato che sia, può, nel contempo, generare ricchezza per la sua stessa salvaguardia e sviluppo, ed essere prioritariamente motore di cultura, bellezza, benessere dei singoli e della cittadinanza tutta, nonchè formidabile attrattore turistico. E va bene così.
Ma attenzione a non riproporre la vieta polemica sui beni culturali che non debbono essere profanati se non addirittura annichiliti in quanto tali, attraverso la commercializzazione che di per sé non terrebbe mai conto del rigore della tutela, anzi la aggirerebbe. Ricordo che quando la Legge Ronchey aprì le porte a quella che poi è stata chiamata, anche a livello normativo e giuridico, la valorizzazione (termine esistente anche nella vecchia giurisprudenza ma con significato esclusivamente etico-didattico) dei beni culturali, indubbiamente gli equivoci si sono moltiplicati ed è cresciuta la critica verso l’avvilente spettacolo di vedere ridurre i monumenti a macchine per fare soldi a favore, peraltro, di privati che vi esercitano attività culturali e lucrative appunto nel nome del “bene comune”, ma destando in alcuni colti esegeti scandalo e dispiacere.
Ma qui non cadiamo nella retorica della necessaria lotta allo sfruttamento culturale come se il bene culturale, da cosa onesta e giusta si trasformasse in mostruoso e indegno fattore corruttivo. Certo, quando la componente formativa e didattica è eliminata e sostituita dal solo scopo di lucro, il biasimo è universale e giusto, ma non mi risulta che una simile triste situazione debba o possa riguardare la vendita del Casino Ludovisi, dietro alla quale non percepisco alcuna avvilente umiliazione del bene culturale. Mi auguro soltanto che l’ acquirente (se ci sarà) sia degno del livello e della rispettabilità dell’ edificio. Degno sotto il profilo economico, culturale ed etico.
–Un discorso a parte meriterebbe la valutazione – di 417 milioni di euro- tanto dell’immobile quanto dei capolavori d’arte, davvero eccezionali, che vi sono custoditi, ti chiedo: chi può stabilire che lì dove hanno messo mano, se posso dire così, geni del calibro di Algardi, Domenichino, Caravaggio, Guercino possa essere sottoposta a valutazione? Si può davvero valutare un affresco, l’unico, di Caravaggio? O il ciclo Guercinesco ? per non dire dell’architettura della Villa? Tu stesso hai scritto che trattasi di “opere tra le più eminenti di tutta la storia del Seicento europeo”; e allora possono davvero essere messi all’asta beni tanto importanti? Sarebbe come –ovviamente mutatis mutandis- se un pezzo del Louvre fosse messo all’asta, ossia qualcosa di inconcepibile.
–Infine: se c’è una cosa da consigliare, cosa consiglieresti ?
R: Ti consiglierei di riflettere meglio su questa asserzione. Io penso che sia difficile valutare un affresco del Caravaggio, anzi l’ unico che esiste, in quanto non lo conosco. L’ opera di cui tu parli è, infatti, un olio su muro che contiene in sé una abissale e mirabile complessità di argomenti tecnici e storico-artistici peraltro, a parer mio, non tutti ancora esplicitati dalla storiografia. Ciò posto ritengo che qualunque opera d’ arte possa, anzi debba, essere valutata finanziariamente, secondo l’ indimenticabile insegnamento di Carlo Ludovico Ragghianti, se non altro perchè all’atto della sua esecuzione, commissionata o meno, non può non essere stata oggetto di operazioni o prospettive finanziarie. In molti casi è stata ordinata e in alcuni persino pagata. In altri solo valutata o sottopagata. In altri non è stata pagata affatto, ma l’artista che l’ ha eseguita ha certamente avuto un’ idea del valore del suo lavoro consistente in una parte speculativa e una parte esecutiva ( anche se affidata ad altri che pure avranno ben preteso un compenso). L’ opera d’ arte è un lavoro e un lavoro che costa. Giotto ha introdotto in modo sistematico ( anche se non è stato il primo a farlo) la dicitura OPUS all’ inizio dell’iscrizione su alcune sue opere che noi oggi denominiamo “ firma”.
E ha detto una cosa definitiva, perchè mentre l’ Opus alchemico mira alla fabbricazione dell’ oro ma non ci riesce in realtà, l’ Opus artistico è metaforicamente oro e quindi vale al massimo del criterio stesso di valore finanziario. E non è un’ idea di Damien Hirst o di Gagosian ma di colui di cui Dante dice che ottenne il “grido” scalzando Cimabue. Io ritengo che se quelle opere sono eminenti valgono molto, se non lo sono valgono meno. Certo, nel caso del Casino Ludovisi non sono opere mobili e quindi il loro valore è ridotto da tale fatto. E’ un parametro di giudizio, legittimo, ma un parametro, non una negazione etica o teoretica che vanifica il concetto di valore economico, rendendolo inutilizzabile in questo tipo di contesto.
Sempre vigente l’ “omnia munda mundis”.
P d L Roma 24 ottobre 2021