di Francesca SARACENO
FIAT LUX… ET LUX FACTA EST.
“[…] dictum dominum conductorem presentem etc. quietavit, cum pacto etc. et quia dictus dominus conductor intendit ut dicitur «scoprire la metà della sala»; ideo convenerunt quod in fine locationis teneatur pro ut promisit, sumptibus ipsius domini conductoris, reducere dictam domum pro ut ad presens reperitur;”
Era il giorno 8 maggio 1604 quando Michelangelo Merisi firmava il contratto di locazione per una “domum novam […] sitam in Urbe in regione Campi Martii prope palatium Legati Florentie”, ovvero la casa in vicolo San Biagio al civico 41 dove abitò per circa 14 mesi, fino al 29 luglio del 1605… per poi “riparare” a Genova, in tutta fretta, dopo aver aggredito e ferito il notaio Pasqualoni di Accumoli.
Che il Caravaggio avesse un carattere irascibile è cosa nota, e che avesse anche le tasche bucate è da intendersi non solo in senso “figurato” (“quando poi si era messo un abito, mai lo tralasciava finchè non gli cadeva in cenci” G.P. Bellori, 1672) ma anche letterale. Doveva saperne qualcosa Prudenzia Bruni, la sua padrona di casa che, alla data del 29 luglio 1605, non aveva ancora riscosso la pigione degli ultimi sei mesi, motivo per il quale non vedeva l’ora di affondare le sue manine rapaci sulle poche cose che appartenevano all’inquilino pittore; disordinato, scialacquone e insolvente, ma tanto celebre che le sue opere avevano raggiunto un valore di mercato tale da pagare ben più che sei mesi di pigione.
E fu per questo che la scaltra Prudenzia, il cui nome ne certifica l’innata “accortezza”, con un tempismo che si direbbe quasi “sospetto”, già il 30 luglio, il giorno dopo l’aggressione a Pasqualoni, si recò negli uffici curiali presso il giudice Prospero Turiziani, per esigere il sequestro dei beni contenuti all’interno della casa che aveva affittato al Caravaggio, a copertura del suo debito e a titolo di risarcimento per il soffitto che l’artista aveva lasciato aperto, contravvenendo al patto di ripristinarne la copertura a fine locazione.
La richiesta di sequestro dei beni le fu accordata, anche in virtù della concreta possibilità che il turbolento pittore si desse alla macchia, dopo il fattaccio occorso la sera prima, come poi in effetti accadde, e che quindi non avrebbe ottemperato ai suoi obblighi. E dovette gongolare parecchio, madonna Prudenzia, meno di un mese dopo, quando il sequestro venne materialmente eseguito, perché sapeva bene che la stima di ottanta scudi ottenuta per i beni pignorati al pittore, non solo copriva abbondantemente il suo debito ma era ben poca cosa rispetto al potenziale guadagno che si poteva ricavare dalla vendita di qualcuno dei quadri ritrovati nel suo atelier.
Proprio nel giorno in cui Caravaggio firmava la “pace” col notaio Pasqualoni, davanti al Plenipotenziario di Giustizia, Scipione Caffarelli Borghese, il 26 agosto 1605, con altrettanta sollecita e dubbia tempestività, veniva stilato l’inventario degli effetti personali e dei beni mobili del pittore. Ed esso, infatti, contava – fra le altre cose – ben dieci tra: telai in legno, tele “grandi da depegnere” e almeno quattro “quadri” (di cui uno “grande de legname”) che si può ipotizzare fossero già dipinti, e dunque vendibili.
Non indugerò sulle domande che tutti ci siamo posti e ancora ci poniamo – quali erano questi quadri e che fine hanno fatto? – perché ciò su cui vorrei soffermarmi, in questa sede, riguardo a tutte quelle tele e telai inventariati, considerando il luogo in cui furono rinvenuti, sono più che altro le dimensioni. Tra i quadri presenti nello studio del Merisi, infatti, spiccano le due tele “grandi da depegnere” e “tre [a]ltri quadri [più] piccoli”. Se le due tele grandi sono verosimilmente identificabili con altrettante pale d’altare in preparazione, non dobbiamo però sottostimare le misure degli altri tre solo perché definiti “quadri [più] piccoli”; questo perché, essendo solito ritrarre i suoi modelli “dal naturale”, difficilmente il Caravaggio lavorava su tele di piccole dimensioni. Pertanto, considerando i lavori commissionati all’artista, la cui esecuzione è databile al periodo di permanenza nella casa di vicolo San Biagio, i soggetti destinati a quelle grandi tele prevedevano tutti composizioni con più personaggi e contesti scenografici impegnativi, che necessitavano di molto spazio anche per la mise en scene all’interno dello studio.
Si potrebbe, quindi, individuare quei dipinti in alcune tra le più grandi opere romane del maestro lombardo: la Deposizione, la Madonna di Loreto, la Morte della Vergine, e forse la Madonna del Rosario (sulla datazione di quest’ultima si tende, ultimamente, a convergere – a mio avviso giustamente – sul periodo romano).
Considerate le dimensioni davvero ragguardevoli di queste opere, non è difficile immaginare la ragione per la quale, in quella casa, Caravaggio avesse chiesto e ottenuto – da contratto – di poter «scoprire la metà della sala», ovvero scoperchiare una parte del soffitto (non del tetto), precisamente quella che corrispondeva alla porzione più alta della mansarda soprastante, aprendovi un varco: lo scopo era verosimilmente quello di guadagnare spazio per ospitare proprio i grandi teleri che aveva in progetto o in corso d’opera. Peraltro, i dipinti menzionati, alcuni dei quali supponiamo possano essere riferibili alle tele inventariate, dal punto di vista pittorico, presentano un luminismo particolare che le rende decisamente originali e solenni.
È logico dunque immaginare che, aprire uno spazio nel solaio, per il pittore, volesse dire anche avere la possibilità di modulare le fonti di luce in maniera più agevole e funzionale alla resa migliore delle sue scene. In questo senso, è interessante capire in che modo riuscisse l’artista a ottenere quei suoi effetti luministici di così grande impatto.
Si è sempre detto che, essendo il Caravaggio un pittore “naturalista”, i suoi dipinti fossero espressione della più ferma aderenza alla realtà; e ciò è innegabile, quantomeno in linea generale. Ma se osserviamo bene quelle grandi opere e il modo in cui l’artista usò la luce per definire lo spazio e i personaggi, ci rendiamo conto che quel modo non può essere considerato naturale; “dal naturale” era l’effetto luministico dipinto, in quanto riportato sulla tela così come appariva agli occhi del maestro, ma di fatto era stato il Merisi stesso a decidere l’orientamento e l’intensità delle fonti di luce, non la “natura”.
Uso il plurale, “fonti” e non “fonte”, non a caso, perché dall’osservazione attenta dei dipinti, appare chiaro che il Caravaggio, già fin dalle prime opere romane, non usasse una sola fonte luminosa ma almeno due. E dico “almeno” perché, procedendo nella pittura per sovrapposizioni e dipingendo i soggetti uno per volta, assemblando man mano le figure nella composizione, è verosimile – e rilevabile, soprattutto in queste grandi pale d’altare – che ciascuna figura venisse ritratta con una luce di intensità e angolazione diversa, per poi uniformare il tutto con particolari accorgimenti tonali e chiaroscurali.
Un interessante studio di Rossella Vodret, Marco Cardinali e Maria Beatrice De Ruggieri (2010), ha analizzato la direzione delle luci presenti in alcuni dei dipinti che potrebbero essere stati eseguiti in vicolo San Biagio, rilevando anzitutto come il Caravaggio abbia probabilmente studiato e assimilato le indicazioni di carattere tecnico, a suo tempo proposte da Leonardo nel suo “Trattato della pittura”, dove il da Vinci suggeriva espressamente, al pittore che volesse “ritrarre dal naturale”, di far provenire la luce “da tramontana, acciò non faccia mutazione”; e che
“L’altezza del lume deve essere in modo situata, che ogni corpo faccia tanto lunga l’ombra sua per terra quanto è la sua altezza”.
Da cui si può desumere un angolo di incidenza di circa 45 gradi tra la fonte luminosa e il suolo.
Gli studiosi fanno poi notare che, l’origine lombarda del Caravaggio e la cultura artistica entro cui era cresciuto, devono aver influito nella sua formazione anche in questo senso, dal momento che, indicazioni simili a quelle di Leonardo, si ritrovano anche in alcuni scritti di Bernardino Campi e di Giovan Paolo Lomazzo (amico di Simone Peterzano, primo maestro del Merisi), i quali sconsigliavano decisamente l’uso di un “lume alto che scendeva a piombo”; lo stesso con cui Giovan Pietro Bellori, di certo intenzionalmente, nella sua biografia dell’artista, aveva cercato di sminuirne il metodo, ben sapendo quanto fosse previsto dalle prescrizioni più autorevoli.
A bene vedere, invece, Caravaggio non usò mai quel “lume alto a piombo”, ma al contrario proprio quella angolazione di taglio che illuminava si, dall’alto, ma non in perpendicolare; e la casa di vicolo San Biagio, in cui il pittore aveva allestito il suo studio, come ancora oggi si può desumere, si prestava ottimamente a tale scopo. Inoltre, aprirsi uno spazio attraverso il soffitto era sicuramente funzionale anche alla modulazione dell’intensità e dell’incidenza della luce.
Considerando l’uso di più fonti luminose, esse si inseriscono nel dipinto con incidenze e radenze diverse, non solo rispetto al suolo ma anche rispetto al fondo e ai modelli in posa, determinandone i volumi e la spazialità. Osservando certi dipinti, anche precedenti a quelli del periodo di permanenza nella casa di vicolo San Biagio, possiamo notare come, già nelle prime sperimentazioni luministiche del Caravaggio, la luce che definisce lo spazio di fondo, quello squarcio marcato che spesso troviamo nei dipinti dei suoi anni romani, e che sembra tagliare la tela in due, in realtà non è mai la stessa luce che individua e definisce le figure all’interno della composizione. Si tratta di una illuminazione che ha essenzialmente una funzione scenografica; sostituisce un po’ l’elemento architettonico che spesso, nel Rinascimento, aveva fatto da sfondo alla scena e che di rado è presente nei dipinti del Caravaggio.
La luce che cava le figure dal buio, invece, ha sempre un’angolazione e un’intensità diverse; è più violenta e più diretta perché serve all’artista per individuare quegli elementi indispensabili a tratteggiare le figure, dipingendone solo le parti “visibili” e lasciando sostanzialmente in ombra il resto. Il tipo di pittura che faceva risparmiare al pittore tempo e materiali, assicurandogli, in più, quel poderoso effetto teatrale, “rivelatore”, che mandava in visibilio colleghi e collezionisti.
Ne è un chiaro esempio, tra i primi dipinti romani, la Maddalena penitente (fig. 1) oggi in Galleria Doria Pamphilj, opera databile intorno al 1597, che mostra proprio quel taglio diagonale di luce alle spalle della figura, la quale risulta illuminata, invece, da una fonte più bassa e più centrale, che ne definisce i volumi e ne staglia l’ombra sulla parete di fondo. Possiamo individuarla, stabilendone anche provenienza e angolatura, nel piccolo riflesso sul vetro del vasetto di unguento ai piedi della Maddalena.
Nella Vocazione di San Matteo della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi (fig. 2) abbiamo un salto di qualità, un’evoluzione in chiave scenografica, in cui l’effetto della luce di taglio che arriva da destra e scende in diagonale sembra avere proprio la funzione di “impressionare” il riguardante, suscitando in lui il senso del “miracoloso”.
In realtà quella luce, dal punto di vista tecnico, è utile anzitutto a individuare il muro di fondo, la quinta scenica dalla quale la composizione e i personaggi “vengono fuori”; la vediamo piuttosto soffusa e polverosa, proprio perché risulti particolarmente suggestiva. Le figure, invece, sono definite da altre fonti luminose, variamente direzionate, più limpide e sicuramente più intense. Queste sono almeno due: una è quella che investe il gruppo seduto al tavolo spalle al muro, di incidenza simile alla luce diagonale ma di intensità maggiore. L’altra è quella che individua e definisce i personaggi più “esterni” al tavolo, ovvero Cristo e Pietro in primo piano, e poi il ragazzo di spalle sulla panca e – ultimo, ma non ultimo – il ragazzo a capotavola che conta i soldi.
Quest’ultima luce è più bassa e più centrale e sembra provenire dalla zona dell’altare. Il fatto che le figure presentino un’illuminazione diversa è indicativo del modus operandi del Caravaggio che procedeva per gradi, dipingendo le figure separatamente, collocandole via via all’interno della scena. Ma se le varie figure venivano dipinte e inserite nella composizione una alla volta, è anche fisiologico che esse non presentino sempre (o tutte) un’angolazione e intensità di illuminazione uniformi. Eppure, l’osservatore ha una visione d’insieme nel complesso omogenea e armonica, grazie al sapiente lavoro di “montaggio” e modulazione del chiaro-scuro operato dall’artista.
Qualcosa di simile si può notare anche nella Crocifissione di San Pietro (fig. 3) nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo,
l’unica delle due versioni dipinte che sia possibile analizzare (l’altra, eseguita su tavola e mai ritrovata, potrebbe essere, forse, quel quadro “grande de legname” presente nell’inventario?), la cui esecuzione non è un azzardo riferire al primo periodo di Caravaggio nella casa di vicolo San Biagio, dal momento che, solo il 1 maggio del 1605 i delegati dell’Ospedale della Consolazione – esecutori testamentari del defunto Cerasi – pagarono quattro scudi e mezzo a un falegname “per haver accomodato li quadri delle pitture” nella cappella.
Sono passati, dunque, più di quattro anni dai dipinti Contarelli e qui, nella Crocifissione di San Pietro, il forte contrasto con il fondo scuro fa risaltare in maniera più decisa i volumi delle figure individuate dalla luce violenta. Possiamo identificare un primo raggio che segue la diagonale del lato lungo della croce e scende dall’aguzzino che la regge con le braccia fino a investire il corpo di Pietro. Questo fascio luminoso sembra avere proprio quell’angolazione di 45 gradi raccomandata da Leonardo. Le figure degli altri due aguzzini, invece, sembrano essere state eseguite separatamente dal resto della composizione, con un’illuminazione di intensità diversa per le due figure; rispetto al carnefice inginocchiato, la fonte luminosa sembra avere anche una provenienza più bassa, osservabile soprattutto sulle terga in piena luce, mentre sulla schiena dell’aguzzino che tira la corda l’illuminazione è meno vivida.
Un altro dei possibili quadri eseguiti nello studio di vicolo San Biagio, potrebbe essere la Deposizione (fig. 4).
Anche in questo caso, il contrasto tra luce e oscurità è notevolmente marcato. Ebbene, la luce che deflagra potente sulla Maddalena, non è la stessa che si adagia diffusa sulla Madonna; né quella che piove, decisamente da un punto più alto, su Maria di Cleofa. Quelle fonti luminose vengono tutte “dall’alto” ma da angolazioni diverse. Così come la luce che impatta sul braccio di Nicodemo, determinando un’ombra sul ginocchio del Cristo, non è la stessa che abbaglia quasi frontalmente il resto del corpo di Gesù.
Difficile dunque individuare una fonte di luce “unitaria”, perché in realtà ogni elemento della composizione viene illuminato dal Caravaggio in funzione dell’effetto scenico che da esso vuole ottenere.
Potrebbe essere il caso anche di un dipinto sul quale non c’è ancora unanimità circa l’autografia ma che diversi studiosi considerano di mano del maestro lombardo e, addirittura, un “try-out” ovvero uno studio di figura; ipotesi che – se fosse certificata la paternità caravaggesca – avrebbe del clamoroso perché si tratterebbe, di fatto, del primo e finora unico dipinto preparatorio di un pittore del quale si è sempre detto dipingesse “alla prima”. Parliamo della Maddalena addolorata (in collezione privata, fig. 5), la quale stilisticamente è databile al periodo in cui Caravaggio risiedeva presso Prudenzia Bruni e presenta misure (112 x 95) riconducibili, verosimilmente, a uno di quei “tre [a]ltri quadri [più] più piccoli” inventariati tra i beni sequestrati all’artista. Peraltro, la Maddalena addolorata riprende pedissequamente (anche nella scala di riproduzione) l’identico soggetto presente nella pala della Morte della Vergine, dipinto certamente riferibile allo stesso periodo di permanenza in vicolo San Biagio (verosimilmente uno dei due quadri “grandi da depegnere” sequestrati).
Nel dipinto singolo, la figura della Maddalena in primissimo piano risulta illuminata da un’unica fonte di luce spiovente da sinistra, da un punto piuttosto in alto, e mitigata da un basso contrasto chiaroscurale in maniera da non risultare così vivida come invece si vede nella grande pala del Louvre, dove – peraltro – l’incidenza del fascio luminoso sembrerebbe essere di poco più bassa. È probabile che l’artista abbia voluto provare l’effetto drammatico di quella luce spiovente per poi poterla modulare, con intensità e incidenza diverse, in funzione dell’inserimento di quella figura singola in una composizione, anche dal punto di vista luministico, più complessa. Osservando la pala della Morte della Vergine (fig. 6), nella sua totalità, possiamo avere un esempio più chiaro di come riuscisse il Caravaggio a produrre, nell’osservatore, l’idea di una illuminazione uniforme nonostante il suo modo di procedere per gradi e su piani sovrapposti.
In questo dipinto Caravaggio inserisce tra gli elementi “visibili” le travi del soffitto, che servono a conferire al dipinto un riferimento prospettico ma anche a fissare la volumetria dell’ambientazione. Sul fondo, radente il muro, notiamo l’ormai consueto taglio di luce diagonale che individua l’orizzonte più lontano. Ma osservando le figure degli apostoli ci accorgiamo che essi sono variamente evidenziati in modo da tenere le due figure centrali illuminate da una fonte che scende, lungo una diagonale, proprio sulla schiena della Maddalena; la quale, dunque – fosse davvero uno studio preparatorio – sarebbe stata, nelle intenzioni dell’artista, un punto cardine nella struttura del dipinto.
Con questo espediente Caravaggio riesce a lasciare pressoché in ombra l’apostolo sulla sinistra, dando così l’impressione che la scena sia illuminata da un’unica fonte di luce. Il fascio luminoso, peraltro, sebbene piuttosto intenso, è mitigato da un contrasto non troppo violento tra ombra e luce, così da ottenere un effetto uniformante. La luce che definisce le pieghe del poderoso drappo rosso che troneggia sulla parte alta del dipinto, viene sempre dall’alto ma sembra leggermente più frontale, come se l’orientamento della fonte luminosa fosse spostato più a destra rispetto al fascio diagonale.
La stessa angolazione di 45 gradi che, arrivando da sinistra, individua le figure principali nella Morte della Vergine, sembra avere il fascio luminoso che irradia sui personaggi della Madonna di Loreto (o dei Pellegrini, fig. 7)) dove, una composizione con andamento verticale, in presa ravvicinata, restringe le figure in uno spazio pittorico piuttosto compatto, talché la luce che le investe sembra essere unica. Si tratterebbe, anche in questo caso, della luce spiovente che doveva irradiare nello studio di vicolo San Biagio, modulata tra l’apertura sul soffitto e le imposte di una finestra. Osservando il dipinto, si può notare come i due pellegrini siano illuminati da questo fascio luminoso diagonale, che arriva da un punto in alto a sinistra e scende fino alla soglia e al pavimento. Ma non può essere la stessa luce che irradia sulle figure della Vergine e del Bambino, le quali sembrano essere illuminate da una fonte più centrale e leggermente più bassa, che proietta le loro ombre sullo stipite della porta e il muro scrostato adiacente. Nessuna ombra, invece, si staglia sul muro dai corpi e dai bordoni dei due pellegrini, a conferma che le loro figure sono state eseguite e inserite nella composizione separatamente da quelle della Vergine e del Bambino.
Questo genere di modulazione diversificata della luce, si può osservare anche in un dipinto di poco successivo al soggiorno nella casa di Prudenzia Bruni, ovvero nella pala della Madonna con Sant’Anna dei Palafrenieri (fig. 8), commissionata al Caravaggio il 1 dicembre del 1605 ed eseguita probabilmente nella residenza del giureconsulto Andrea Ruffetti, presso il quale l’artista fu ospitato dopo lo sfratto, al suo ritorno da Genova.
Non sappiamo come il Merisi avesse organizzato il suo studio in questa nuova residenza, ma possiamo presumere che il suo metodo fosse comunque abbastanza codificato da potersi riprodurre in ambienti diversi. Se le pale dipinte verosimilmente in vicolo San Biagio mostrano i segni di una illuminazione modulata tra finestre e soffitto, nella pala dei Palafrenieri il taglio di luce obliqua che definisce lo spazio sul fondo, potrebbe essere l’unica apertura presente nell’ambiente e che l’artista utilizza solo per creare l’illusione del volume di una stanza altrimenti completamente buia.
L’esiguo numero di figure illuminate, tre in tutto, fa risaltare ancor di più il forte contrasto sia con l’oscurità che pervade l’ambiente, dalla quale Maria, Sant’Anna e il Bambino sembrano emergere, sia tra le figure stesse nella loro relazione spaziale. La luce che investe Maria e il Bambino, infatti, non sembra essere la stessa che illumina Sant’Anna; quest’ultima appare leggermente più arretrata rispetto alle altre due figure, e sembra intercettare – ma è un effetto ottico – la luce di taglio retrostante, perché il fascio luminoso che la investe – rispetto a quello che illumina Maria – è posizionato più in alto e si osserva piuttosto evidente sulle pieghe del drappeggio bianco sulle spalle della santa.
Peraltro, è una luce meno decisa, che irradia da sinistra ma in maniera più pervasiva e soffusa; non così esplosiva come quella che investe Maria e il Bambino, la cui figura nuda è quella che riverbera maggiormente l’illuminazione sull’incarnato chiaro, rendendo Gesù “protagonista” della scena, nonostante sia il più piccolo dei tre. Questa regolazione della luce permette al Caravaggio di esaltare le volumetrie dei corpi e delle vesti, rafforzando l’effetto scenico delle figure che “saltano fuori dal buio”, determinandone anche la “gerarchia” all’interno della composizione; e considerando nella pala dei Palafrenieri una rappresentazione del dogma dell’Immacolata Concezione, in ottica tridentina, è comprensibile che quella di Gesù sia la figura più evidente.
Appare chiaro che una metodologia come questa usata dal Merisi, fosse oggetto di interesse e curiosità tra i suoi colleghi, ai quali – riservato e guardingo com’era – non è dato sapere se abbia mai davvero permesso di conoscere i suoi “trucchi di scena”. Ma, se anche l’avesse fatto, ciascuno di quei pittori avrebbe compreso che, per ottenere quegli effetti luministici così magnificamente teatrali, avrebbe dovuto dotarsi di uno studio opportunamente organizzato. Come doveva essere quello di vicolo San Biagio… prima che Prudenzia Bruni decidesse che era ora di regolare il conto con l’inquilino artista e, se possibile, tirar su anche qualche ghiotto “extra”, in vista dell’imminente matrimonio della figlia Cinzia. Prudenzia, infatti, fece nominare il futuro genero, Alberto Roscetti, quale tenutario dei beni sequestrati all’inquilino moroso. Per la cronaca, oltre a un soffitto da ripristinare, madonna Prudenzia rimediò anche una finestra rotta a suon di sassate … come “gentile omaggio”.
Luci “di taglio” e ombre scure, sulle vicende di una casa che ancora oggi, quando ci passi accanto, ti costringe ad alzare lo sguardo e pensare … “lui” è stato lì.
©Francesca SARACENO Catania 22 Maggio 2022
BIBLIOGRAFIA