di Michele FRAZZI
Il Bacco degli Uffizi
Questo giovane coronato da foglie di vite (fig 6) è ritratto mentre sta offrendo una coppa di vino all’osservatore invitandolo a bere; davanti a lui vi è una bella natura morta composta di frutti autunnali, alcuni come la mela sono marcescenti appunto per indicare con maggiore evidenza la loro tardività. Maurizio Marini (31) ha correttamente notato che nella composizione di frutta sono presenti solo varietà autunnali, una affermazione la cui correttezza si può confermare confrontandoli con quelli presenti nell’Autunno dell’Arcimboldo. Questa notazione è perfettamente corretta anche dal punto di vista simbolico poiché Bacco è il dio dell’autunno e quindi l’immagine è del tutto coerente con la sua raffigurazione secondo l’iconografia dell’epoca.
Così infatti viene descritta nell’Iconologia del Ripa l’Immagine dell’Autunno: “AUTUNNO; Per l’Autunno si potrà fare un Bacco carico d’uve”, la stessa cosa avviene nel Trattato del Lomazzo secondo il quale “ le uve di Bacco ( rappresentano) l’autunno” ( pag. 479), e dello stesso avviso è anche l’altro importante iconologo dell’epoca, il Cartari, che quando parla dei simboli delle stagioni scrive: …per l’autunno Bacco (pag.39), anche l’insensato Aurelio Orsi compose una poesia dedicata alla figura di Bacco/Autunno:
In effigiem puerilem Antumni Autumnus, Autumnum seu (tu) me mauis dicere Bacchum, Vere ut utrumque potes, dicere utrumque puta. Autumnus puer est, puer est et Bacchus, et ambos Rufea pampineo velat honore coma (32 ).
Nel dipinto il sempre giovane Bacco è ritratto mentre si sta appoggiando ad uno di quei letti, i triclini, che veniva utilizzati dagli antichi nelle sale da pranzo; in questa occasione gli invitati venivano fatti accomodare su questi divani disposti tutt’attorno ai tavoli imbanditi ed anche nel dipinto possiamo notare che di fronte al Bacco del Caravaggio c’è un tavolo con una caraffa di vino e del cibo. La scena rappresentata riporta alla mente quella di un simposio, il banchetto greco dove si degustavano i vini e si discuteva di poesia o di argomenti filosofici.
I frutti dell’Autunno
Dal punto di vista del significato credo che sia opportuno collegare questo dipinto ai contenuti di un saggio: I Frutti dell’autunno, che è stato scritto da uno dei più importanti Insensati: Leandro Bovarini, che oltre ad essere il principe dell’Accademia fu anche il creatore del suo emblema. In questo libro emerge con tutta evidenza il fatto che questi frutti rappresentano un simbolo molto preciso per gli Insensati ed il testo del Bovarini spiega il loro significato allegorico e morale più profondo. L’occasione per la composizione del saggio fu una visita ad un altro Insensato, il Cardinal Bevilacqua Aldobrandini, che gli donò un libricino realizzato da un suo amico che voleva rimanere anonimo; il Bovarini sulla base di questo scritto rielaborò il dialogo filosofico che vi era contenuto e lo diede alle stampe nel 1606. Il primo autore del dialogo viene da lui indicato velatamente in questa frase
”se ben l’Orbo risposi io, non può giudicar bene de’ colori, farò nondimeno per obedienza quanto da lei mi verrà comandato”( pag.12).
L’Orbo di cui parla, indicandolo con la lettera maiuscola potrebbe essere Marcantonio Bonciari che era realmente cieco ed era legato al Bovarini da un solido legame di amicizia (33).
Altro particolare molto interessante è che il libro i Frutti dell’Autunno è dedicato a Ferdinando de’ Medici Granduca di Toscana, che fu il primo proprietario proprio del Bacco del Caravaggio, dipinto che gli fu donato molto probabilmente dal cardinal del Monte. Bovarini nel suo testo scrive che il libro è un omaggio letterario fatto a Ferdinando, realizzato per mezzo di quei frutti che crescono in autunno, la stagione in cui egli preferisce dimorare nelle sue ville, soprattutto in quella che si chiama Ferdinanda, dove spesso si diletta a conversare di filosofia. Si tratta di un ulteriore particolare interessante dato che il Bacco del Caravaggio era conservato proprio nella villa Ferdinanda (villa di Artimino), dove viene citato per la prima volta in un inventario del 1609 (34).
I Frutti dell’Autunno sono un dialogo filosofico (pag.141) fra tre persone che discutono su quale sia il migliore dei frutti autunnali, se il fico o l’uva; il discorso avviene a tavola, la ambientazione richiama quella del Simposio di Platone a cui il libro viene esplicitamente associato (Nel Dialogo in dialogo e pagg. 29 , 75). Questi tre personaggi si chiamano Filobotri, che è a favore dell’uva, Filosico (o Filofico) che è a favore dei fichi, e Abstemio che è favorevole a tutti e due i frutti. Sotto il nome di Filobotri (la botrite è la muffa nobile dell’uva che rende il vino dolce) molto probabilmente potrebbe essere celato l’insensato Filippo Massini (1559-1618) che era un ottimo amico del Bovarini, egli nelle sue rime dimostra infatti tutto il suo entusiasmo per il vino, inoltre i suoi componimenti vengono anche riportati nel testo (pag.93) (35). Bovarini stesso poi esplicitamente svela l’identità di Abstemio: si tratta di un altro Insensato, quello che gli ha donato il libricino cioè il Cardinal Bevilacqua.
Il poeta nel suo libro fa frequente uso di quelli che in letteratura sono conosciuti come giochi onomastici, cioè allude con dei nomignoli a persone reali ben precise, come abbiamo visto per quanto riguarda l’indicazione del suo ideatore: l’Orbo o come accade in un’altra parte del suo testo (pag.97) dove per indicare il poeta Marino, lo chiama il “pescatore Marino”, facendo seguire a questo soprannome i versi di un suo sonetto incluso nelle sue Rime Marittime ( 1602).
Il terzo componente del dialogo: Filosico (o Filofico) che è favorevole alle virtù del fico dovrebbe essere il Bovarini stesso, infatti nel suo stemma accademico compare un toro in corsa attorno al cui collo è posta una ghirlanda di foglie di fico, con la scritta “Nostra medicina furoris” (Fig.7), le foglie di fico rappresentano il rimedio contro il suo furore, infatti il suo soprannome accademico era proprio il Furioso. Il suo motto latino è tratto dalla decima Egloga delle Bucoliche di Virgilio, che racconta dell’amore disperato di Gallo, che essendo stato abbandonato dall’amata, per lenire il suo dolore si rifugia in Arcadia, luogo mitico di serena ed equilibrata felicità, un mito che avrà molto seguito in età tardo rinascimentale e barocca. Qui gli abitanti del luogo e persino la natura cercano di consolare il giovane protagonista in modo da alleviare il dolore che lo sta portando allo sfinimento e quasi alla pazzia. Gallo allora progetta di passare il tempo in continue attività che lo distolgano dai suoi pensieri, ma alla fine tutto risulta vano e l’epilogo del libro sarà la sua triste riflessione finale :” Omnia vincit Amor et nos cedamus Amori”( L’amore vince ogni cosa e noi cediamo all’amore). All’emblema ed al suo motto il Bovarini associò anche una poesia che spiega il significato dell’immagine:
Questo animal che furioso al corso / Pinse maestra man cruccioso in fronte, / Di caprifico cinto il petto e il dorso / Che virtù raffrenarlo in piano, e in monte, / Simulacro è di tal, ch’aver soccorso / Spera alla sua follia da illustri e conte / Alme gentil, che l’alto suo furore / Domar ponno e guidarlo al vero onore.
Per comprendere pienamente il significato del suo emblema occorre ricordare che il toro è una delle possibili forme con cui si Bacco si rivela e la furia cieca è una delle caratteristiche più rilevanti del nume ( 36 ); questo animale nello stemma del Bovarini porta attorno al collo una ghirlanda di foglie di fico che sono un altro degli attributi di questa divinità (37) (così come anche l’edera), pianta che ha la proprietà di imbrigliare la sua furia incontrollata, istintiva, e trasformarla in qualcosa di positivo. L’immagine del Furioso Bovarini dunque è paragonabile al furioso Dioniso che corre sfrenato per le valli, ma le foglie di fico sono in grado di frenarlo così come accademici sono in grado di aiutarlo a percorrere la strada della poesia e guidarlo al “vero onore”: questa dunque è la via giusta per frenare l’energia selvaggia della natura che altrimenti potrebbe diventare esplosiva e pericolosa; la poesia serve ad incanalare la sua energia in una direzione positiva, nella ispirazione poetica.
Questo appena espresso è un concetto importante: il furore dionisiaco può divenire sfrenato, come accadeva durante i riti bacchici, in cui le sue seguaci, le menadi, un termine che significa appunto “preso da furore”, si lanciavano in danze folli e lunghe corse attraverso i monti, come accade al toro/bacco descritto dal Bovarini. Uno degli attributi principali di Dioniso è proprio la sfrenatezza, e la pazzia è una delle punizioni che egli stesso infligge ai suoi nemici, come nelle Menadi di Euripide dove è protagonista l’epidemia di follia da lui scatenata. I suoi seguaci nei loro riti rivivono questa emozione estrema: Dioniso è legato alla esplosione delle energie primordiali ctonie ed alla liberazione incontrollata dei sensi.
A questo aspetto nocivo dell’energia dionisiaca bisogna porre rimedio e il Bovarini in questo libro indica in forma allegorica quale sia la via giusta da percorrere. Quali sono allora in concreto le peculiarità del fico descritte nel suo libro ? La sua caratteristica fondamentale è la , dato che è in grado di “addolcire l’amarezza” (pag.23,26) ma ha anche una ulteriore importante virtù: è un antidoto al morso degli scorpioni, dei calabroni e per tutti i tipi di veleni (pagg. 23, 24, 82). Possiamo immaginare ora il significato a livello allegorico di queste due specifiche qualità: addolcire l’amarezza e rendere il veleno innocuo.
Per quanto riguarda le proprietà dell’uva anch’esse sono positive, infatti ha il fondamentale potere di ridare la vita e dunque svolge una funzione perfettamente identica a quella dell’acqua nella brocca nell’emblema del Mancini (pagg. 44, 108), inoltre i suoi fiori scacciano le serpi (pag.69) ed infine dall’uva si estrae la mitica incorruttibile quintessenza (pag.113); sostanzialmente dunque il significato simbolico dell’uva ricalca i valori positivi appena descritti per il fico. L’uva però ha delle ulteriori peculiarità, infatti come il Bovarini scrive a pag.112 il vino è particolarmente favorevole ai poeti poichè stimola la loro capacità di comporre poesie e di cantare:
Carmina vino ingenium faciente canunt ed anche nulla placere diu nec vivere carmina possunt quae scribuntur aquae potoribus (pag.111 ).
Il vino invita ed ispira i poeti a creare versi ed a questo proposito il Bovarini riporta nel suo testo una poesia del Massini, dove si canta il legame tra il vino e l’ispirazione poetica, con un esplicito omaggio al poeta greco che per primo ha esaltato questo commubio: Anacreonte ( pag.94):
E versi versa chi di vino è pieno, / Che fan tazze faconde altrui facondo. / Io Febo ho in bocca quando ho Bacco in seno; / Hor mi derida il volgo, e chiami il mondo / Vinoso Anacreonte ebro sileno
Il verso del Massini si rifà alle immagini contenute nella Ode XXXIX di Anacreonte ( Pseudo):
Quando ricolmo il seno / Di fervido liquor, / Lascia agli affetti il freno / Il core, io non so come; / E delle Muse il nome / Canto sul plettro allor.
…
D’un florido terreno / Per l’odoroso piano / M’aggira il Dio Tebano / Pieno del suo furor, / Quando ricolmo il seno / Di fervido liquor.
…
Anche per il Bovarini l’aspetto positivo di Bacco è quello di stimolare l’ispirazione artistica proprio come avviene per Apollo e scrive appunto che: “il Parnaso anticamente era sacrato anche a Bacco” (Indice delle tavole), dunque la sua posizione coincide esattamente con quella che il Lomazzo esprime nel suo libro Della Forma delle muse (38). Infine si arriva alle conclusioni scaturite dal dibattito contenuto nel libro e tutti convengono sul fatto che sia stato Bacco a creare sia i fichi che l’uva (pag.126) dotando queste frutta di tutte le buone qualità che abbiamo appena visto e a testimonianza di questo sta il fatto che la sua corona è composta sia di foglie di fico che di uva ( Indice delle Tavole).
Alla luce di questo scritto del Bovarini i frutti autunnali che sono sul tavolo del Bacco di Caravaggio starebbero ad indicare tutte quelle attività che servono ad annullare gli effetti del veleno della follia scatenata dai sensi e a ridare la vita, cioè svolgere la stessa funzione dell’acqua nella brocca presente negli altri dipinti del Merisi. Per gli Insensati dunque la frutta che normalmente è considerata simbolo di corruzione e vanità, se è di tipo autunnale assume un valore opposto e positivo, indica il cammino della creazione poetica, della sublimazione e conduce alla elevazione, fino all’abbandono dei piaceri del mondo.
Questa simbologia molto probabilmente è stata influenzata dalle allegorie bibliche dato che dal punto di vista della Bibbia i fichi e l’uva sono i buoni frutti ed è con questo valore che probabilmente vediamo comparire il cesto con i frutti autunnali anche sulla tavola del Cristo in Emmaus realizzato per i Giustiniani (39 ). Sia i frutti autunnali come anche la caraffa d’acqua che contiene i fiori quindi rappresentano nel linguaggio simbolico degli Insensati due allegorie dotate di un valore positivo, con contorni precisi e ben definiti, e probabilmente non è un caso che queste immagini saranno anche quelle scelte da Caravaggio per realizzare le due uniche nature morte di cui abbiamo traccia documentale.
Per riassumere il significato simbolico complessivo del testo del Bovarini: se da una parte Bacco è dotato di alcuni aspetti nefasti legati all’esplosione sensuale incontrollata, d’altro canto questi aspetti vengono corretti poiché egli stimola anche l’energia positiva dell’ispirazione letteraria che è il fondamento dell’Accademia degli Insensati, i fichi e l’uva rappresentano simbolicamente l’ antidoto ai veleni dei sensi ed hanno il potere di donare nuova vita.
Anche il Bacco degli Uffizi viene dunque ad assumere un significato simile a quello già descritto per il Bacchino malato. Bisogna infine osservare che dal punto di vista iconografico il dipinto presenta una situazione assimilabile a quella che si vede si vede nella stampa che raffigura il Gusto di Saenredam- Goltzius (Fig.8), dove la figura rappresentata tiene in mano un calice di vino e sul tavolo di fronte c’è della frutta; conosciamo già la morale di questa immagine, si tratta della esortazione a non lasciarsi ingannare dai sensi.
Sorge spontaneo ora domandarsi quale interesse poteva avere il Granduca Ferdinando per un dipinto con questi significati simbolici? Occorre a questo riguardo osservare in primo luogo che il libro del Bovarini era dedicato proprio a Ferdinando e se questo libro ed il suo significato allegorico fu inteso come un omaggio a lui, ciò significa che il Granduca conosceva questi argomenti e che questi gli erano evidentemente graditi e dunque la stessa cosa deve valere anche per il dipinto. A questa prima importante considerazione si deve aggiungere che anche il libro Della forma delle Muse dove il Lomazzo tratta specificamente del furore poetico e dell’ispirazione artistica venne dedicato dal milanese proprio al Granduca.
Infine dobbiamo aggiungere che fu la famiglia dei Medici a proteggere il Ficino che sviluppò la teoria sui diversi tipi di furore.
Aggiungiamo due ultime note per mettere in rilievo alcuni ulteriori passaggi interessanti che sono contenuti nel testo; il primo riguarda questo discorso:
“ Filosico:…Che se pur si havesse da fare una figura, come per un paragone del merito dell’una, e dell’altro mi contenterei, che dal medesimo penello della vostra lingua si facesse, quando non mi restasse alcun dubbio, che l’affetio particolare, che portate al frutto, che difendete o vi piegasse ad estenuare od oscurare in parte la vivezza delle virtù del fico; o a mostrar più vive coi lumi della vostra eloquenza le facultà proposte per l’uva. Filobotri: Sono si foschi i lumi, e rozo il penello che dite, che non potrebbono far disegno buono delle virtù nè dell’uno nè dell’altro: dirò bene che adombrassero, e oscurassero le virtuose parti del fico, fora per ignoranza, e no per malignità d’interesse; ma potrebbero far l’effetto dell’ombre de i pittori, perchè come si quelle sporgono in fuori il rilievo delle figure, così per aventura l’oscuro de’ miei delineamenti renderebbe anche maggiori tanti suoi meriti.” ( pag. 122-23).
I due dialoganti stanno discutendo sul fatto che l’abilità di una persona dotata di eloquenza può nascondere alcuni meriti della parte avversa, ed all’opposto evidenziare quelli a lui favorevoli esattamente come fa un pittore che nasconde con l’ombra ciò che non vuol mostrare e mette invece bene in luce ciò che gli interessa, in termini concreti questo si traduce nel particolare effetto di maggior rilievo che hanno le parti esposte alla luce nella immagine dipinta. Bovarini qui fa una osservazione dai risvolti artistici molto interessanti che ricalcano precisamente le idee contenute in una importante opera di retorica: il Sublime, la conoscenza del testo potrebbe essergli arrivata per il tramite del suo stretto amico Marco Antonio Bonciari sudioso di lettere e di retorica. Bonciari infatti a Roma seguì per due anni gli insegnamenti di Marc Antoine Muret ed inoltre fu anche amico di Fulvio Orsini, questi ultimi furono due dei più profondi studiosi del Sublime.
La seconda citazione degna di interesse è un discorso tenuto dal cardinal Bevilacqua Aldobrandini (40) :
“Vite detta dell’invito. Io mi ricordo che una volta un certo lombardotto vicino a Bergamo parlando, di questo, voleva che fosse detta così, perchè gli pareva invitasse l’uomo a mangiar de’ suoi frutti, e la vigna diceva ch’era detta da vegna, quasi chiamasse il Patrone a venirvi.” (pag.44).
Ora si tratterà sicuramente di un caso ma il Caravaggio era “grassotto”, come lo definisce il garzone Luca ( Cfr., Caravaggio a Roma. Una vita dal vero. Catalogo della mostra (Roma, 11 febbraio-15 maggio), Di Sivo, M., Verdi, O, a cura di, pag. 236), ed originario di un paese vicino a Bergamo; inoltre nel dipinto il suo Bacco offre allo spettatore una coppa di vino, invitandolo a bere ed a gustare i frutti che tiene davanti a sè, per cui esistono alcune affintà tra la descrizione di questo episodio ed il dipinto del Caravaggio.
Dal punto di vista iconografico l’ immagine è stata associata da vari autori (Posner, Moir, Berra) a rappresentazioni di tipo classico come è piuttosto logico pensare, in particolare appare convincente l’ accostamento a una statua di Bacco con il suo kylix (tazza) in mano: una titanica raffigurazione di questo nume conservata a Capodimonte, che ha le sembianze di Antinooo o quello di Annibale Carracci (Fig.9), almeno nella sua parte superiore, dove un giovane dai lineamenti classici è appoggiato ad un tavolo e tiene in mano una coppa di cristallo pieno di vino rosso mentre guarda negli occhi l’osservatore.
Il quadro di Annibale è databile al’ 90-91 e faceva parte della collezione Farnese, così come la scultura di Bacco di Capodimonte; l’iconografia di quest’opera parrebbe dunque derivare dagli esemplari di questa collezione a cui il Caravaggio avrebbe potuto avere accesso. Infatti il Cardinal Odoardo Farnese ed il Del Monte erano legati da una buona amicizia e passavano le serate insieme giocando d’azzardo ed andando alla sera a fare le serenate sotto i balconi delle belle di Roma (ovviamente in abiti Borghesi) come apprendiamo da una lettera di Del Monte che informa di questi episodi Ferdinando de’ Medici (41).
I soggetti bacchici erano uno dei temi prediletti della collezione Farnese (42 ) e sono rappresentati di frequente nel loro palazzo romano, li si vedono sia negli stucchi che nelle opere a fresco realizzate dai Carracci e dalla loro scuola, ed anche in quelle create da Daniele da Volterra. Un altro soggetto molto amato dai Farnese fu la Medusa, che fu oggetto di un altro dono del cardinal Del monte al Granduca; la si vede rappresentata sia nel camerino dei Carracci, sia nelle immagini encomiastiche dedicate alla casata, come nella stampa dedicata ad Alessandro Farnese di Gijsbert Van Veen, Allegoria con il duca di Parma come un campione della Chiesa cattolica nei Paesi Bassi, 1585-1592 ( Fig.9 bis) (43).
L’attenzione dei Farnese per questo tema deriva molto probabilmente dal fatto che possedevano l’oggetto d’arte più famoso con questo soggetto, la celebre tazza in calcedonio denominata tazza Farnese che era uno dei tesori più ammirati della loro collezione.
La sua proprietà era una cosa che i Farnese avevano avuto in comune proprio con i Medici dato che questa dal 1471 al 1537 era stata posseduta dalla famiglia fiorentina e quindi questa immagine assumeva un particolare valore iconico per entrambe le casate. Non fu un caso dunque che il del Monte abbia donato a Ferdinando de’ Medici il dipinto caravaggesco con la Medusa. Con ragione Paolo Moreno ha suggerito che proprio la tazza Farnese sia stata lo spunto per il soggetto del dono a Ferdinando:
“Committente ( Del Monte) ed esecutore erano inoltre memori dei valori che l’emblema venuto dal passato aveva assunto nella cerchia dei Medici con l’ostensione della Tazza nel tesoro familiare e con la creazione del Perseo di benvenuto Cellini in atto di sollevare la testa della Medusa” (44 ).
Sia la Medusa che il Bacco, entrambe le opere donate dal del Monte al cardinale Ferdinando de’ Medici potrebbero dunque aver avuto la medesima sorgente di suggestione iconografica e cioè le immagini presenti a palazzo Farnese, un fatto che potrebbe essersi ripetuto, come vedremo più avanti anche nel caso del San Giovannino realizzato per i Mattei, che potrebbe avere rapporti con le figure realizzate ancora da Annibale Carracci nella galleria Farnese.
Ora passiamo all’analisi di un’ altro dipinto che ha per tema i frutti dell’Autunno.
Il ragazzo con una canestra di frutta
Allegoria dell’Autunno- Priapo/Il Protettore degli orti
Questo dipinto (70×67 cm.) (Fig.10) faceva parte della collezione appartenuta al Cavalier d’Arpino, e dopo il sequestro della stessa da parte del Cardinal Borghese venne incamerato nella sua galleria della quale ancora oggi fa parte; non si hanno notizie certe sulla sua esecuzione, probabilmente fu tra i dipinti eseguiti nella sua bottega.
Come ha osservato Maurizio Marini ( 45 ) i frutti che il giovane tiene dentro il suo canestro sono anche in questo caso tutti autunnali. Lo studioso avanzò anche una prima interpretazione del soggetto identificandolo con il dio romano Vertumno, una tesi che poi fu ulteriormente sviluppata da Giacomo Berra ( 46 ). Si tratta di una divinità non molto frequente che prende il suo nome dal verbo latino vertere, che significa trasformare, mutare. In virtù della sua natura il nume poteva assumere qualsiasi sembianza e presiedeva al cambio delle stagioni ed alla trasformazione dei fiori in frutti. I Romani celebravano la festa dei Vertumnalia il 13 di agosto. Il suo mito principale viene narrato nelle Metamorfosi di Ovidio: Vertumno si era innamorato di Pomona la divinità dei frutti, per questo motivo tentò di sedurla assumendo le più diverse apparenze, ma lei era diffidente lo teneva a distanza, da ultimo si risolse a trasformarsi in una donna vecchia, in questo modo riuscì ad avvicinarla e sotto l’apparenza di disinteressati consigli iniziò ad elogiare sè stesso attribuendosi infinite qualità, infine le consigliò di sposare proprio Vertumno; dopo tutti questi preliminari egli si trasformò in un bellissimo giovane di cui lei subito si innamorò, così alla fine per mezzo dell’inganno riuscì a sedurla e a possederla. La sua capacità di mutare aspetto lo fece diventare l’eponimo dell’ingannatore per eccellenza ed il Ripa attribuì all’inganno proprio la capacità di mutare le sembianze:
”Fraude: Donna, con due facce; una di donna giovane, e bella; l’altra di vecchia brutta…La Maschera dinota che la fraude fa apparir le cose altrimenti da quel che sono per compiere i suoi desideri” ( pag.98); Inganno: Maschera di bellissima giovane riccamente ornata e sotto si scopra parte del viso di vecchia molto difforme”( Pag.133) (47).
Ora per verificare la correttezza di questa identificazione proviamo a confrontare il dipinto con alcune rappresentazioni di Vertumno sia coeve che precedenti facendo riferimento in particolare a quelle che Caravaggio poteva conoscere. Iniziamo dal Vertumno dell’Arcimboldo, che compose la sua immagine con i fiori e frutti appartenenti a tutte e 4 le stagioni, dato che appunto Vertumno è il nume tutelare che sovraintende al cambiamento di tutte stagioni. Nel commento a questo dipinto fatto dal poeta Comanini egli lo descrive elencando precisamente i frutti, le diverse stagioni ed anche i fiori ( 48) così come fa anche il Gherardini:
”Vertumno il quale, come lo favoleggiano dio dell’anno, così egli lo ha formato di frutti e cose derivanti da tutte le stagioni”( 49 ).
Proseguendo su questa strada facciamo riferimento ad un altro dipinto milanese del ‘500, quello di Francesco Melzi dove assieme a Vertumno è raffigurata Pomona, anche qui vediamo presenti sia pure in forma ridotta i fiori e i frutti e la stessa cosa avviene anche in una stampa del maestro fiorentino IF impressa da Antonio Salamanca nel 1542 ( derivante probabilmente da un’affresco che era conservato nel casino Borghese), anche qui vi sono sia i fiori che i frutti, come è puntualmente scritto nel distico che accompagna l’incisione:
Fuggi Gra’ Tempo la Casta Pomona. Di Fiori et Frutti ornandosi la chioma al fin Vertumno d’amorosa soma.
Da quanto è emerso da questa serie di immagini, la sua rappresentazione deve includere i fiori, e i frutti di tutte le stagioni, per simboleggiare appunto il processo di trasformazione della natura, caratteristica specifica a cui cui presiede Vertumno.
Passiamo ora in rassegna i teorici di iconografia più importanti del periodo; il Cartari ci dice che la statua del nume a Roma era adornata di fiori e frutti, ed anche Lomazzo lo descrive corredandolo ancora una volta dei frutti delle diverse stagioni (51). Si fatica a conciliare questa rappresentazione anche con le sue descrizioni più antiche quella di Ovidio e quella di Properzio (Elegie, IV,2) dato che anch’essi lo dotano dei frutti di tutte le stagioni. Dunque a meno di non supporre che vi fosse un pendant che raffigurava Pomona, che è un sicuro simbolo dell’autunno, l’identificazione con Vertumno non è impossibile ma complessivamente l’immagine rappresentata nel dipinto non combacia bene con le caratteristiche rappresentative del nume; il fatto che in esso stati rappresentati i frutti di una sola stagione ed inoltre manchino i fiori lo pone al di fuori delle sue rappresentazioni canoniche standing alone.
Accanto a questa prima interpretazione ne è poi sorta un’altra proposta da Franco Picchio che in maniera diretta ed intuitiva ha identificato il soggetto con la figura del dio autunnale eternamente giovane cioè Bacco nella sua veste di Càrpimos: portatore di frutta (52), il fatto che il giovane stringa fra la sua braccia i frutti dell’ autunno è un ottimo primo indizio in questa direzione, infatti Bacco è comunemente rappresentato come la divinità dell’autunno. A dire il vero però anche l’interpretazione come Bacco presenta un punto debole, infatti manca l’attributo che sempre invariabilmente caratterizza la sua iconologia: la corona vegetale, un elemento che il Caravaggio non omette mai di raffigurare nelle altre opere a lui dedicate, e questo fatto dunque rappresenta un ostacolo. In questa non facile situazione conviene a questo punto ripartire dall’unico indizio sicuro per il riconoscimento del valore simbolico del dipinto e cioè dall’intenzionale selezione di soli frutti autunnali; questo rappresenta senza dubbio una precisa scelta del suo artefice, dunque l’unica certezza è che si tratti di una rappresentazione che ha un legame con l’Autunno. Vale la pena allora di esplorare tutte le tipologie delle raffigurazioni allegoriche di questa stagione. In primo luogo possiamo verificare che il Ripa conosce la tradizione che lega Pomona e Bacco all’autunno e la include fra le possibili rappresentazioni dell’Autunno ( pag.476) nella edizione del 1603 (in quella del 1593 non era presente):
”Si può anco rapresentare per l’Autunno Bacco…overo dipingerassi una Baccante nella guisa che si suole rappresentare come anco Pomona”.
Questa associazione tra l’Autunno Bacco e Pomona si ritrova anche in questa incisione della metà del ‘500 conservata alla Fondazione Cini: il Trionfo di Pomona e dell’Autunno ( Fig.11).
Come dice l’iscrizione a corredo il carro dell’Autunno su cui è seduta Pomona è preceduto sia da Priapo che da Bacco,: AVTVMNVS // SEPTEMBER // OCTOBER // NOVEMBER // FEBRIS / ERBATICA // PRIAPVS // BACCHVS // POMONA / ABVNDANCIA // IDROP / ISIS // MELAN / COLICI // SATIRI // INFIRMITAS // COPIECORNV // PALL / AS // SILENVS // NAVSEA // MORBVS;
Dunque in questo caso a Pomona ed a Bacco si aggiunge un terza divinità anch’essa simbolica dell’autunno, si tratta di Priapo. Priapo è il nume che presiede alla fecondità umana e della natura ed è il custode degli orti e dei giardini. A questo proposito vale la pena aggiungere che Franco Picchio nel suo saggio su Bacco portatore di frutta, ha messo in evidenza il fatto che il nume viene cantato negli Inni Orfici proprio sotto l’aspetto di nume della fertilità della terra:
”53- Invoco Bacco Anfiete , Dioniso ctonio,…Ma, beato, dai frutti verdeggianti, che porti le corna, Bacco che produci i frutti, vieni con viso radioso alla cerimonia di tutti gli dei ricolmo di sacri frutti maturi.”.
Bisogna infine notare che oltre al fatto di essere entrambi simboli dell’autunno, Bacco era associato a Priapo per quanto riguarda l’ aspetto pulsionale; alcune tradizioni antiche ritenevano addirittura che Priapo fosse figlio di Bacco, ed in onore di entrambe queste due divinità si tenevano in Grecia le processioni fallagogie. Questa tradizione è ben conosciuta e riportata dal Cartari:
”E per mostrare quanto Bacco e Priapo fossero conformi insieme o forse anco una medesima cosa… E Suida scrive che Priapo è il medesimo di Bacco “( pagg. 442, 444).
Dunque Priapo e Bacco per quanto riguarda la caratteristica della forza generativa sono da considerarsi la stessa cosa.
Il Cartari raffigura Priapo mentre sorregge una composizione di frutta e con il falcetto in mano ed anche per Pietro Valeriano questo nume è il simbolo dell’abbondanza e della forza generativa della natura.
Per quanto riguarda le rappresentazioni canoniche di Priapo, queste solitamente prevedono che egli sia rappresentato – oltre ad essere dotato di un grosso fallo- come l’immagine che vediamo nel dipinto e cioè mentre sostiene una cesta di frutta, che sono proprio il simbolo della sua caratteristica principale e cioè quella di dare frutti.
Lo possiamo verificare in questa statua rinascimentale pubblicata da Charles Avery ( 1997) ( Fig. 12), nella statua dei musei Vaticani ( Fig.13), in quella di Formello ( Fig.14) o in quella conservata nell’ Antiquarium di Lucrezia Romana a Roma (queste ultime due sono dotate entrambe di caratteristiche ambigue, androgine), o nella statua acefala della Collezione Borghese (Fig.14bis) (Cfr., Scheda Museo Pietro Canonica), oltre a quelle conservate nei musei di Sousse, Malaga, Efeso, Ginevra, Aquileia, e alle numerose diffuse piccole statuette in bronzo presenti in diversi altri musei.
Dunque Priapo in sintesi è la principale personificazione della forza generativa della natura (identificabile talvolta anche con Bacco o Vertumno) ed i frutti che tiene in mano sono proprio il simbolo della sua capacità per eccellenza, quella di fruttificare, egli viene inoltre generalmente identificato con la figura del protettore degli orti (53).
Diverse accademie cinquecentesche fanno riferimento a questo nume quando devono spiegare il motivo della loro fondazione, come puntualizza Barbara Tramelli parlando dei Rabisch:
“Other academies in Italy were established with similar purposes and characteristics. Some of them were said to be founded by Bacchus or Priapus, such as the Vignaiuoli in Rome or, nearer Milan, the Ortolani in Piacenza.” (54).
Priapo e le sue peculiarità erano ben conosciute ed apprezzate dalla cultura del periodo; il nume infatti viene celebrato dall’ Insensato Caporali nella seconda parte del suo Poema Sopra la Corte e nel Viaggio in Parnaso, facenti entrambi parte della raccolta Le Rime Piacevoli, di cui abbiamo già parlato; in questo testo era presente anche il Mauro. (55). Quest’ultimo era un poeta burlesco friulano che realizzò un Inno a Priapo ed era membro di spicco della Accademia romana dei Vignaiuoli (1532), cui partecipava assieme ad altri poeti: Molza, Franzesi e Giovanni della Casa che compose un epigramma: la Formica che ha per protagonista Priapo, mentre Giovanni Molza lo canta nella Ficheide e Mattio Franzesi lo esalta nel suo Sopra le carote; insomma Priapo era un soggetto molto in voga fra i Vignaiuoli.
Come mette in evidenza ancora Barbara Tramelli anche a Milano questo nume raccolse i favori degli artisti, infatti viene celebrato dal Lomazzo nei suoi Grotteschi in veste di Ortolano, con toni allusivamente erotici: “ Raccomandami un poco à don Burchiello…”. Anche l’Arcimboldi lo rappresentò in pittura questa volta in forma di Ortolano-Priapo, in un dipinto conservato a Cremona (56) composto solo di verdure che contiene sia i genitali femminili che maschili (ermafrodito). A questa particolare rappresentazione dell’Arcimboldi si può associare anche una statua coeva di un ignoto scultore milanese che raffigura il Protettore degli orti, (passata alcuni anni fa in Galleria Canesso), sul suo piedistallo era stata incisa questa iscrizione:
Non sono Vertumno e non bramo Pomona; sono in sembianze umane e non sono uomo, bensì statua finta di uomo; custode dell’orto, ho raccolto e unito insieme i frutti dell’orto, fa’ conto, affinché questi, che sono caduchi, tu li abbia duraturi a lungo; anzi, affinché tu non li abbia; ho infatti esposto all’occhio frutti finti, affinché tu distolga la mano da quelli veri; ma non so mentire, anche se sono una figura contraffatta; sono un sasso senza sesso, non senza umanità, perché sono l’immagine amica dell’uomo carico di frutti; io, compendio dell’orto, presiedo all’orto, metto in mostra l’orto, allontano il nemico; tu che sei presente e leggi, se desideri qualcosa, chiedi gentilmente, tieni quello che hai chiesto e vattene.
Questa descrizione del Protettore degli orti, contiene un primo attributo apparentemente inusuale per Priapo: sono senza sesso, questo si deve al fatto che il nume può essere rappresentato come un ermafrodito, come avviene anche nel caso dell’Arcimboldi (57 ), inoltre egli ha la funzione di proteggere i giardini dai nemici e dai ladri; infatti come scrive Tibullo la sua statua veniva posta dai romani a tutela degli orti e dei giardini, laddove la denominazione di custode degli orti o e dei giardini è tipica proprio di Priapo (58) che veniva chiamato hortorum custos fino dall’età romana (Cfr,. “Enciclopedia Treccani” ad vocem) e così infatti viene cantato da Tibullo:” pomosisque ruber custos ponatur in hortis, terreat ut saeva falce Priapus aves. (Elegie I, 1, 17-18), da Virgilio nelle “Georgiche” (IV, 110-11;) e nella sua settima Egloga, (vv. 33-36), da Orazio in una satira (I ) e da Ovidio nei Fasti (I)”ruber, hortorum decus et tutela, Priapus”.
A Piacenza esisteva una Accademia , quella degli Ortolani, dedicata proprio al custode degli orti di cui Priapo era ovviamente il nume tutelare. Come abbiamo letto nell’iscrizione della statua in questo caso si esclude esplicitamente che si tratti di Vertumno o di Pomona (59). A questo punto, pur con la dovuta cautela per l’ambiguità del soggetto, mi sembra che il Ragazzo con la canestra di frutta vada interpretato come il Protettore degli orti-Priapo.
Ho preferito scegliere Priapo-Custode degli orti come identificazione principale dato che l’immagine creata dal Caravaggio è molto simile alla rappresentazione classica di questo nume che oltre al fallo prevede che egli sorregga con entrambe le braccia una composizione di frutta, e dunque è l’immagine più vicina all’iconografia del dipinto rispetto a quelle tipiche delle altre due divinità prese in esame.
Della sua iconografia esistevano diversi esempi antichi a Roma a cui si poteva fare riferimento, inoltre, come abbiamo visto, Priapo è un simbolo dell’Autunno. Il dipinto per la specifica uniformità stagionale dei suoi frutti va comunque interpretato sicuramente come una Allegoria dell’Autunno. Il Ragazzo con la canestra di frutta complessivamente dunque verebbe ad assumere lo stesso significato della statua di Priapo (Cfr., Scheda Metropolitan museum, NY) come allegoria dell’ Autunno scolpito da Pietro e Gianlorenzo Bernini (Fig.15) per Scipione Borghese, che la possedeva assieme al dipinto del Caravaggio e le conservava entrambe nello stesso luogo, una all’esterno ed una all’interno di villa Borghese (60) assieme alla statua di Priapo di età romana. Al di là della specifica identificazione (Bacco, Priapo Vertumno) rimane il fatto che in tutti i casi il significato simbolico di questa immagine non cambia, essa è la personificazione della forza generatrice della natura.
Se ripensiamo al desiderio erotico insito nel mito di Vertumno e Pomona, oppure al mito di Dioniso il dio dell’ebbrezza sensuale e dei riti orgiastici o ancora di più nel caso di Priapo, si tratta sempre di rappresentazioni della forza generativa erotica che guida gli atti dell’uomo attraverso la passione, quindi alla fine si tratta del simbolo dell’uomo passionale, carnale.
Giordano Bruno negli Eroici furori descrive questa forza con una accezione negativa quando parla del Petrarca:
” per celebrar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi … de Priapo…”.
Da questo punto di vista il suo significato potrebbe essere accostato a quello della Venere vulgare descritta dal Ficino nel Sopra lo Amore:
”Venere è di due ragioni: una e quella intelligenzia, la quale nella mente angelica ponemmo; l’altra è la forza del generare, all’anima del mondo attribuita…Veggiamo ancora due Veneri l’una è la forza di quest’anima di conoscere le cose superiori l’altra è la forza sua di procreare le cose inferiori…Il secondo amore chiamiamo sempre demonio perché è pare che egli abbia un certo affetto verso il corpo, col quale è inchinevole verso la provincia inferiore del mondo. (Pag. 39,101).
Anche in questo caso dunque il dipinto avrebbe un valore morale, sarebbe una rappresentazione della voluttà erotica, degli istinti sfrenati delle passioni carnali, e dell’inganno in cui cade inevitabilmente chi sceglie questo cammino, in fin dei conti quindi avrebbe un significato morale simile ai due dipinti con la figura di Bacco.
Dal punto di vista degli Insensati ( a cui apparteneva l’Arpino) i frutti autunnali che tiene in mano invece sarebbero l’antidoto rispetto alla trappola della passione sfrenata, come ci testimoniano i Frutti dell’Autunno del Bovarini ed il suo motto personale: Nostra medicina furoris.
Michele FRAZZI Parma 19 Novembre 2023