di Michele FRAZZI
Durante la permanenza in casa di Fantino Petrignani il Caravaggio dipinse anche dei soggetti piuttosto speciali, la Buona Ventura (99 x131 cm.) ed i Bari ( 91x128cm.), due dipinti che potrebbero essere stati pensati come una coppia non solo per le dimensioni ma anche perchè entrambi sono legati ad un soggetto che è simile, infatti in tutte e due queste opere viene rappresentata una frode realizzata per mezzo della destrezza delle mani.
Come è già avvenuto nei dipinti precedenti anche in questo caso il tema è l’inganno, ma se in quelli l’inganno dei sensi è stato rappresentato in forma allegorica e per mezzo di simboli, la frode qui è raffigurata esplicitamente proprio nel momento in cui si sta compiendo. Dunque l’illustrazione del significato morale del dipinto diventa ora scopertamente palese ed evidente, sotto gli occhi di tutti: all’osservatore non servono particolari conoscenze simboliche per godere dell’opera; questa modifica probabilmente è stata dettata dall’esigenza di rendere rendere più facilmente leggibili e quindi vendibili i suoi quadri.
La Buona Ventura
L’opera che vediamo in fotografia ( Fig.40) ( 99×131 cm.) è la prima redazione di questo soggetto e fu acquistata dai Vittrice, con tutta probabilità da Girolamo, sottoguardarobiere del pontefice; fu lui il primo proprietario conosciuto del dipinto che lo donò nel 1607 al figlio Alessandro, nella cui collezione il Mancini lo ricorda nel 1620, da questi passò poi ai Doria Pamphilj che ne fecero omaggio al re di Francia nel 1665. I Vittrice erano una famiglia originaria di Parma, città dei Farnese, con cui Aurelio Orsi aveva frequenti rapporti e dove si stabilì nel 1589 dato che era il segretario del cardinal Farnese. Questo soggetto evidentemente piacque anche al del Monte, infatti il Merisi ne eseguì per lui un’altra versione di dimensioni leggermente superiori (116×152 cm.) che poi finì nelle mani di un’altro appartenente agli Insensati: il cardinale Pio, ed ora è conservata nei musei capitolini.
Nella Zingara che dà la buona ventura vediamo un giovane che venendo attratto dalla bellezza della zingara acconsente a farsi leggere la mano; così il Bellori descrive la scena ed il significato del dipinto:
”la zingaretta mostra la sua furbaria con un riso finto nel levar l’anello al giovanotto, et questo la sua semplicità et affetto di libidine verso la vaghezza della zingaretta che le dà la ventura et le leva l’anello”.
Caravaggio lo raffigura appunto mentre lui la guarda negli occhi desideroso ed anche lei lo guarda fisso mostrando apparentemente di ricambiarlo, ma in realtà è solo una finzione, il suo scopo è ben diverso e cioè distogliere il suo sguardo da ciò che le sue mani stanno facendo: sfilargli l’anello. Il tema che va in scena anche in questo caso è la inconsistenza delle illusioni e degli inganni del piacere sensuale. Riguardo al tema è perfettamente calzante la descrizione con cui Lomazzo rappresenta la malizia ( o furbaria come la chiama il Bellori):
” La malitia fa gli atti pieni di frodi, e falsità, mirar fisso, e intento negli occhi altrui cautamente, e presto, e in guisa di voler per quelli spiare gli intimi secreti, e gl’interni affetti di colui; acciò che secondando poi quelli, e accomodandogli ogni sua parola e atto possa ottenere in qualche modo ciò che si desidera. Et di questa maniera sono parasiti, e tutti quelli che vivono della robba altrui, la quale con simili modi tutta volta che ben fatto gli viene, con varie tempere, e inventioni di nascosto togliono, osservando diligentosissimamente ogni momento, e hora di tempo…” (Trattato. pag. 155).
Questo è in effetti quello che vediamo nel dipinto: la zingara accortasi dell’attenzione del giovane lo asseconda guardandolo fisso negli occhi fingendo di ricambiarlo, in realtà non attende nient’altro che il momento più propizio per sfilargli l’anello, lo inganna allettandolo con l’illusione del piacere e poi lo deruba. Inoltre si può ulteriormente rilevare che il tema degli Zingari astuti e capaci di intuire il pensiero altrui attraverso le espressioni del viso ed i gesti, è descritto ancora dal Lomazzo nei suoi Grotteschi:
”Cingari siam venuti di levante…noi sappiamo azzuffar l’ascoso innante./ Ogni porco, ladron, scrocco, furfante, non si puote agguagliar ai nostri accordi. Perchè tutti teniam per pazzi e sordi, Per non saper lumar cosa levante. A l’aria e a gesti si conoscon tutti, Li calcagni, e lor spetie in ch’essi sono...”.
Fu Mancini il primo a descrivere il dipinto ed a dargli il titolo nelle sue Considerazioni sulla pittura: “una zingara che dà la buona ventura ad un giovinetto” e così viene ancora chiamata. Anche nel caso di questo dipinto esiste una poesia degli Insensati che parla proprio di una zingara che dà la “buona ventura”; si tratta di un poema composto da Filippo Alberti (1548-1612), la sua creazione però non prende spunto dal dipinto del Caravaggio dato che il tema narrato è diverso. Questa poesia è contenuta nelle Rime, un testo la cui premessa è del 1600, mentre la stampa è del 1602.
E’ il principe degli Insensati stesso, Cesare Crispolti, che nella dedica spiega che fu lui a raccogliere nel corso di diversi anni queste liriche dell’Alberti ritenendole meritevoli di divulgazione, e fu ancora lui a promuoverne la stampa vincendo le ritrosie dell’autore stesso che era contrario. Anche in questo caso quindi ci troviamo di fronte ad un libro di carattere compendiario che non permette di avere datazioni certe per i suoi testi. Possiamo però farci una idea del lasso di tempo entro il quale queste liriche furono composte da alcuni avvenimenti storici che vengono richiamati, ad esempio quella dedicata alla morte di Costanzo Paolucci che avvenne prima del 1589 ( 94 ). L’Alberti conobbe di persona come risulta dalle Rime Piacevoli, vi ritroviamo inoltre una lirica scritta in occasione della morte di Sisto V avvenuta nel 1590, o quella per la morte di Giulano Goselini avvenuta nel 1587, o per la Laurea di Paolo Mancini che completò i suoi studi a Perugia prima del 1600, o quella in morte di Vincenzo Danti avvenuta nel 1576, insomma si tratta di un periodo davvero molto ampio circa 25 anni; questo testo quindi è il riflesso di tutta l’opera poetica dell’Alberti. Ecco la sua poesia:
Zingara come debba dar la buona ventura alla S.D.
Tu, ch’a la Donna mia, povera Maga, / Prometti sventurata alta ventura, / E i secreti d’amore, e di Natura / Narri, e pur se sol del mio mal presaga; / Dille, che troppo di mia morte è vaga, / E su la bianca man, che’l cor mi fura, / Questa, questa promise empia, e spergiura / D’amar le dì, come quel dritto paga? / Dille, che’l Ciel vuol farne aspra vendetta, / O se per te prova nel freddo core / Di me pietate, o di se tema almeno, / Dirò, che tu da gli antri uscita fuore / Di Cuma se, dirò, che ‘n Delfo eletta / Hai ne labbra Amore, e Febo in seno.
Il senso del poema è piuttosto chiaro: descrive le pene di un’innamorato che è stato ingannato dalle promesse d’amore di una donna, le cui parole non erano altro che finzioni dato che alla fine è stato cinicamente abbandonato, i suoi allettamenti erano solo frasi vuote che non si sono mai concretizzate, alla dolcezza della speranza ha poi fatto seguito solo la tristezza della delusione. Sulle orme di questo poema si incammina anche un successivo componimento di tenore molto simile realizzato da un altro appartenente agli Insensati: Tommaso Stigliani che venne pubblicato nelle sue Rime del 1605:
Zingara Pregata
Maga Eggittia, che sì audace, e franca, /Ben che avolta in povere divise: ì / Vai sù le mani altrui con varie guise, / Presagendo ventura, hor destra, hor manca: / Vanne a la Donna mia, di cui la bianca / Palma mirato, e le sue righe incise: / Questa stessa è ( le dì) che si promise / Al tuo Amatore in fè. Perchè gli manca? / Poi soggiugni, che’l ciel di ciò minaccia / Grave vendetta. Che s’à forte crede / Tanto ella al’ arti tue, che pia si faccia: / Dirò, che i fiati suoi Febo ti diede, / E quel, che forse a tè fia, che più piaccia, / Le man ti colmerò d’aurea mercede.
Il personaggio della zingara farà capolino anche nell’opera del Cavalier Marino che nell’Adone dedicò il Canto XV° al soggetto di Venere che si muta in una zingara.
Per concludere questo escursus sugli accademici, anche un altro insensato: Gaspare Murtola, comporrà un carme con il soggetto della Zingara, ma questa volta egli fece esplicitamente riferimento proprio al dipinto del Caravaggio.
Il soggetto della Zingara dunque è un topos importante per gli accademici perugini e la conferma del suo ruolo simbolico di ingannatrice e ladra ci viene dall’opera di un altro insensato: il Cavalier d’Arpino. Si tratta di una incisione (fig.41) tratta da una sua invenzione che per per nostra fortuna è corredata di un cartiglio esplicativo che ne svela il vero significato. Per questa immagine caravaggesca è dunque del tutto palese il valore allegorico della scena dipinta: “Fur demon mundus (senex fraudemque caro parat juventae) tria sunt haec fugienda viro“- Il ladro, il diavolo, il mondo (il vecchio e la carne traggono in inganno i giovani) sono queste le tre cose che un uomo deve evitare. I termini utilizzati nella spiegazione di questa allegoria: il ladro, la carne, il demonio e il mondo sono chiaramente di carattere religioso, il senso dell’ammonimento è evidente ci mette in guardia sull’inganno dei desideri della carne e del mondo, e questo è quanto viene descritto nella prima lettera di Giovanni 2:15-16 che dice:
“Non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo, il desiderio della carne, il desiderio degli occhi e l’orgoglio della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo”.
Dunque il desiderio della carne che cattura il giovane per mezzo degli occhi è il soggetto del dipinto del Caravaggio, si oppongono a questo invece i desideri della zingara, cioè l’inganno e il furto. La frode è il vero volto che si nasconde sempre sotto la maschera del piacere e il demonio è il padre dell’inganno e del furto, come descritto in Giovanni 8,44:
“Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” e 10,1:”In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante”.
Si evidenzia così anche per questa immagine il legame con il pensiero degli Insensati, la divinazione e l’origine malevola della sua natura è un soggetto particolarmente caro agli accademici. Il tema viene affrontato da Pierantonio Ghiberti nel suo commento sull’impresa di Rubino Salvucci uno dei fondatori dell’Accademia. Lorenzo Sacchini nel suo commento al discorso scrive: “Inizia qui una lunga e fantasiosa digressione intorno agli incantesimi, che diviene più cupa mano a mano che cresce la consapevolezza che dietro ogni atto inspiegabile per la natura umana possa celarsi la proteiforme abilità ingannatrice del «nostro Avversario», il diavolo.
Predicata allora «l’astensione» (476r) dalle pratiche divinatorie, l’autore muove verso la «dichiaratione» dell’impresa, esponendo in primo luogo la convinzione che
«i principali inimici non pur dell’anima ma della vita nostra sono i piaceri, di cui tanto si compiacciono i sensi nostri (477r)» ( 95).
Le nefaste conseguenze in cui incorrono coloro che sono attratti dal desiderio erotico, e per questo fanno ricorso alla divinazione ricade dunque ancora una volta nell’ampia casistica dell’esortazione all’abbandono delle tentazioni del piacere verso cui ci attirano i nostri sensi. Anche i Trattati iconografici dell’epoca ulteriormente ci confermano il significato morale della scena rappresentata nel dipinto. In primo luogo vi è il Ripa che per descrivere il Piacere del mondo, la sua apparente dolcezza e la sua nascosta pericolosità utilizza questa immagine:
”La sirena mostra, che come ella inganna col canto i marinari, così il piacere con l’apparente dolcezza mondana manda in rovina i suoi seguaci”.
La stessa immagine ( Fig. 42) con lo stesso significato viene utilizzata anche dall’Alciato nel suo:
Sirenes
Han le sirene di donzella aspetto, / Et il resto del corpo è brutto pesce. / Tal son le meretrice che dilecto / Si dan nel volto, che ogni dolce mesce, / Poscia con l’opre pien d’amaro effetto / Fan,/ / che sovente altrui la vita incresce: / Ma chi di virtù s’arma alma & honesta. / Con Ulisse le vince, e intatto resta.
Anche nei lavori teatrali dei personaggi legati agli insensati troviamo il personaggio dello zingaro, ne i Morti vivi (1576) di Sforza degli Oddi, dove gli zingari sono visti sotto una accezione negativa ( balordi) (pag.145), e ne I Megliacci (1530) di Mario Podiani che li descrive come amanti dell’oro. Il soggetto della zingara è inoltre caratteristico delle coeve commedie teatrali dal tono picaresco come La Celestina che fu pubblicata a Roma nel 1506, anche in questo caso si associa l’immagine della zingara che legge la mano a quello della sirena che attrae per compiere un furto:
”Celestina gabando nostra voluntà con sue preste e dolci parole; per robar da un’altra banda, come fanno li zingari quando te guardano la ventura nelle mano… lanterna e suon de campanelle fa venire le starne a la rete, la sirena inganna li simplici marinai con la dolcezza del suo canto: e così fa costei con sua mansuetudine e presta concessione” (Atto 11° LXXXII).
Anche il Ripa quando deve rappresentare l’Inganno lo descrive per mezzo della capacità femminile di attrarre l’uomo per poi riuscire a derubarlo, appunto come si vede nel dipinto
Ama il Sargo la Capra: e’l Pescatore, / Che cio comprende, la sua pelle veste. / Onde ingannato il / misero amatore, / Conven che preso a le sue insidie reste. / Cosi prende l’amante con inganni. / La meretrice, cieco a i proprii danni.
In sintesi, per il Ripa ma anche per l’Alciato la falsità dell’amore di una donna (come si vede anche nel carme dell’Alberti) è un altro esempio tipico per rappresentare gli Inganni del Piacere.
Dal punto di vista iconografico la lettura della mano è un soggetto piuttosto raro e mai fino a questo momento ha avuto la dignità di soggetto principale di un dipinto; ne troviamo qualche esempio nella pittura nordica, ad esempio nel Carro del fieno di Bosch o in un disegno di Hans Burgkmair conservato a Stoccolma.
Ma è nelle largamente diffuse immagini popolari italiane che con tutta probabilità va ricercato il precedente iconografico del dipinto del Merisi. Si può prendere ad esempio questa scena dipinta su un piatto di maiolica faentina (Fig.43) conservato al Kaiser Friedrich Museum di Berlino, dove vediamo una zingara, abbigliata in maniera simile a quella del dipinto, con un mantello che la copre trasversalmente annodato sulla spalla destra, la quale con la mano sinistra tiene la mano del ragazzo mentre mostra di leggere il futuro al giovanem abbigliato con corpetto, cappello piumato e spada al fianco, esattamente come nella scena del Caravaggio; dunque questa immagine o un’altra simile ben potrebbe essere servita da idea di partenza per il dipinto del Merisi (Maiolica di Faenza, 1565-1575, Berlino, Kaiser Friedrich Museum). Il commento scritto nel piatto in basso vuol rendere ancora una volta palese il carattere ingannevole della zingara:
“La cingana ad altre la ventura vol dare, per lei non l’ha et altro non la po dare” ( 96).
Anche una invenzione di Leonordo può essere servita da spunto per questo soggetto allegorico si tratta della famosa Coppia male assortita, dove si mostra l’intenzione ingannevole e finalizzata al furto che esiste in questa relazione, questa idea ebbe molto successo in Lombardia e negli ambienti nordici. Qui la vediamo in un disegno di traduzione attribuito a Jacob Hoefnagel (Fig.44) (97 ) un pittore specializzato nella realizzazione di nature morte ed animali che fu molto apprezzato da Caravaggio, che lo cita addirittura tra “i valent’huomini”, con l’appellativo di “Giorgio Todesco” nel famoso processo del 1603 (98). Il giovane galante gira con la mano la testa della vecchia ricca per non permetterle di vedere che in quel momento egli la sta derubando.
Il tema di fondo dell’inganno del piacere accomuna questo dipinto ai precedenti fin qui analizzati ma a partire da questa questa opera si ha un cambiamento nello schema narrativo, infatti non si tratta più di una rappresentazione allegorica che cela un significato nascosto, come è avvenuto sino ad ora, in questo caso e per la prima volta si rappresenta l’azione, il momento stesso della frode che qui diventa palese.
Viene inoltre introdotto un ulteriore elemento di novità rispetto al passato, infatti l’inganno non solo porta ad una spiacevole conseguenza dal punto di vista sentimentale ma tocca anche la sfera pecuniaria, (oltre alla delusione c’è la perdita del denaro derivante dal furto dell’anello) un soggetto che diverrà poi centrale nel prossimo dipinto, i Bari.
I Bari
Il bellissimo dipinto con i Bari conservato al museo di Fort Worth in Texas ( 91,5×128 cm.) (Fig.45) è stato, secondo quanto ci riferisce il Bellori, il primo ad essere acquistato dal cardinal Del Monte. Come nel caso del dipinto precedente ci troviamo davanti ad un inganno compiuto con destrezza, cioè per per essere precisi ad una Gherminella (Dizionario Treccani ad vocem), così infatti si chiama questo particolare comportamento, che il Lomazzo ritiene tipico dei barattieri cioè i proprietari di un banco da gioco ( Dizionario Treccani ad vocem), e delle meretrici (un atteggiamento simile si vede nella Zingara). Lomazzo descrive a questo modo la sua rappresentazione:
la gherminella fa gli atti cauti, sagaci, malitiosi, e colmi di ghiottonerie finte, e inganni, come appunto fanno in ogni loro negotio i barattieri, ruffiani, histrioni, giucolari, meretrici, e tali sorti d’huomini, i quali ad altro mai non intendono ne s’occupano mai in altro, che in rubare, tragittare, dare, e parlare tutt’a un tempo, e con le mani e con la lingua con mille avvolgimenti di gesti, …Il tutto fa l’occhio aperto e pronto a tutte le cose, la mani libere, e sempre leste ad eseguir ciò che si disegna, e si pensa…”(pag. 156),
è una descrizione talmente calzante che sembra fatta dopo aver visto il dipinto (mentre è avvenuto il contrario). Nel quadro si può osservare il ritratto di questo scaltro ed istrionico baro che con occhio davvero “aperto”, (un particolare che il Caravaggio si preoccupa di mettere bene in evidenza), spia furbescamente il malcapitato e fa segno con la mano “lesta” al suo compare che del pari estrae “lesto” la carta dalla cinta; del resto la gherminella è proprio un inganno che si fa per mezzo della velocità delle mani. Guardando questo dipinto il pensiero non può che andare agli ambienti dell’osteria così amati dal Caravaggio, ma anche dal Lomazzo che nei suoi poemi li cita precisamente per nome: Il Falcogn e il Calmogn.
Anche un poeta perugino che abbiamo incontrato all’inizio della nostra analisi: il Coppetta era un assiduo frequentatore di questi luoghi che elenca per nome in una sua poesia, si tratta della Corona, la Spada, la Campana, la Scrofa, tutti locali che esistevano a Roma all’epoca del Caravaggio ed erano anche vicini l’uno all’altro: il Coppetta aveva vissuto a Roma e probabilmente faceva riferimento proprio agli stessi locali. La Campana è in via della Campana, una laterale di via della Scrofa dove si trovava anche l’osteria della Scrofa che era di fronte alla bottega di Antiveduto Gramatica; la contrada della Scrofa era una zona ricca di taverne e molto frequentata dal Caravaggio, mentre la Corona e la Spada si trovavano anch’esse piuttosto vicine tra di loro nella zona di Monte Giordano, dietro a Piazza Navona ( 99 ), sappiamo dalle cronache che il Merisi a Roma ne frequentava diverse, ad esempio la Torretta, il Moro o la Lupa. Nella sua gustosa poesia il Coppetta ci propone anche un tentativo di riabilitazione morale di quell’ambiente, quasi che la taverna possa rivelarsi anche una maestra di vita oltre che di scaltrezza infatti:
”Fa l’osteria ogni persona accorta, benché inetta da sé, grossa e deserta; dunque per l’osteria gir molto importa… Se sapesser costor gli alti guadagni che si fanno, alloggiando a l’osteria, e quanto a le virtù l’uom s’accompagni, non anderian gracchiando per la via c’han l’osteria come l’inferno a noia e qualch’altra incredibile bugia”, (100 ).
Il dipinto del Caravaggio raffigura i bari nel momento in cui stanno truffando l’ingenuo malcapitato; si tratta di una parodistica e quasi comica scena che riproduce un brano di vita tipica di questi ambienti evidentemente associati al topos del raggiro, come si deduce dai testi dell’Aretino e del Coppetta. Che l’Inganno sia il soggetto principale del dipinto è confermato anche dagli elementi simbolici simboli presenti; infatti nel suo Trattato il Lomazzo ci dice che: “due che giuocano alle carte sopra una tavola significano frode“ (Lomazzo,1584, Cap. VI pag.443), oltre al fatto che per il lombardo il pugnale che il baro porta alla cintola, è il segno distintivo del ladro e della frode ( pagg. 443, 672-3) ed allo stesso modo la pensava il Ripa (pag.98). Riafforano qui i ricordi di Lombardia anche nella creazione dell’immagine, il cui precednte iconografico credo vada individuato in un affresco del Romanino (Fig.46) ( Ubicazione ignota) che una volta adornava il Broletto di Brescia, cioè il palazzo municipale, (101).
La figura dell’uomo a sinistra è praticamente identica a quella del baro centrale, sia nel viso con barba e baffi, che nel cappello e il mantello sulla spalla, ed anche lui qui fa da osservatore alla partita a carte. Pur con la cautela dovuta allo stato di conservazione dell’opera e alla qualità delle foto, questa figura di uomo nell’affresco sembra dire qualcosa o passare di nascosto una carta, col braccio coperto dalle braccia della donna, mentre la figura femminile che gli è a fianco lo guarda negli occhi. Insomma qulcosa sta accadendo tra i due e l’attenzione degli altri altri giocatori è attirata proprio da questa situazione, mentre la figura femminile di destra tiene le dita in una posizione simile al gesto che troviamo anch’esso nel Baro Caravaggio.
Come nel caso della Zingara anche questo è un soggetto che non ha praticamente precedenti iconografici nella storia della pittura per ciò che riguarda i soggetti singoli, ed allo stesso modo il momento scelto per la rappresentazione è esattamente quello in cui la frode sta avvenendo, l’atto ora diventa palese e scoperto non si tratta più di una allegoria costruita con i simboli. In aggiunta avviene un altro importante cambiamento, in questa creazione scompare il tema amoroso che accompagnava gli altri dipinti, rimane solo il soggetto della frode pecuniaria, introdotto per la prima volta nella Buona Ventura. Per questo motivo l’opera appare come l’ultima evoluzione di questa serie di opere giovanili a carattere allegorico e non a caso appunto fu proprio questa la prima opera ad essere acquistato dal cardinal del Monte prima che il Caravaggio entrasse al suo servizio.
E’ l’illusione dei facili guadagni che qui va in scena, il piacere adrenalinico del rischio e del gioco, ma come avviene anche nelle altre situazioni ciò che più si desidera sarà anche ciò che ti condurrà alla rovina, perchè i piaceri mondani non sono nient’altro che una frode, un’inganno. Anche Jacques Thuillier, con perfetta intuizione, nel suo commento alla versione dei Bari realizzata da Georges de La Tour (La Tour; pag. 6-7) giunge alla stessa conclusione, il pittore in quest’opera
“ …denuncia le illusioni. Il giovane che avanza goffo e avido in questo mondo pieno di promesse, che crede alla buona ventura, predetta dalla zingara che sogna i piaceri dell’amore del vino e del gioco, proposti dalla cortigiana sarà dileggiato da tutti… la bellezza è solo una impostura transitoria. Non esiste altra difesa che disprezzare le mutevoli apparenze delle cose, per rivolgersi come san Gerolamo in meditazione o in penitenza verso le verità eterne.”
Thuiller aveva dunque perfettamente compreso il significato allegorico più profondo dei due quadri di cui abbiamo appena parlato: i Bari e la Buona Ventura; in concreto anch’essi come gli altri già realizzati esortano a rinunciare alle illusioni del mondo per ricercare le verità eterne.
( Continua …)
MIchele FRAZZI Parma 17 Dicembre 2023