di Marco CARDINALI & Maria Beatrice De RUGGIERI
«Perché sto scrivendo questa recensione? Quale può essere considerata la “causa” di questa recensione e fino a che punto essa è il risultato delle mie intenzioni?»,
così scriveva Martin Kemp nel 1987 presentando un libro seminale come Patterns of Intention (Forme dell’intenzione) di Michael Baxandall. Potremmo rispondere istintivamente: perché ci riguarda da vicino! Sarebbe però una risposta troppo personale, quasi a rubare la scena all’autore del libro di cui si parla.
La recente comparsa sul mercato antiquario dell’Ecce Homo di Madrid dimostra come, nonostante la storia dell’arte si sia nei decenni interrogata sui suoi obiettivi, rinnovata attraverso nuovi terreni di ricerca e di specializzazione, gli studiosi si trovino ancora una volta di fronte al tema fondante della disciplina, quello delle attribuzioni e degli strumenti metodologici per affrontarlo. Nel caso del dipinto spagnolo è stato al momento riaffermato – come primo, e finora unico, discrimine – il primato dell’occhio, sebbene esercitato indirettamente attraverso una riproduzione fotografica, dal momento che ben pochi tra gli studiosi intervenuti hanno potuto vedere il dipinto.
L’esplosione mediatica provocata dall’Ecce Homo rientra certamente in quella Caravaggiomania, malattia dei nostri tempi, dalla quale muove il volume di Richard Spear Caravaggio’s Cardsharps on Trial:Thwaytes v. Sotheby’s, uscito per i tipi di The Burlington Press nel 2020, che qui intendiamo considerare per quegli aspetti che lo rendono molto più che una semplice narrazione, rimandando alla recensione di Massimo Francucci su questa rivista le note di contesto preliminari alla vicenda del processo e al suo svolgimento[1].
Le diverse prospettive affrontate dal volume lasciano infatti affiorare come prima domanda a quale genere letterario appartenga, non essendo del tutto scontato che possa annoverarsi tout court tra i saggi di critica d’arte, dedicato quindi ad un pubblico di specialisti, anzi di caravaggisti.
L’opera si presenta come un affascinante e riuscito intreccio di generi letterari, tra narrazione, critica e crime novel, in cui solo alla fine verrà svelata la soluzione. In questa direzione, nel solco dei gialli della migliore tradizione anglosassone, i capitoli del libro sono preceduti da un paio di pagine con l’elenco dei personaggi coinvolti nella vicenda(Who’swho). Il lettore potrà trovare all’interno del volume non solo la dettagliata disamina della vicenda giudiziaria che investe anche la questione se Caravaggio abbia mai replicato in maniera identica una sua opera, ma anche una riflessione sull’attività delle case d’asta e sull’approccio alla catalogazione, sul ruolo della connoisseurship, sull’uso delle indagini tecniche.
Ma il volume è anche un saggio sul tema dell’attribuzione, a 360 gradi. E il suo autore, per nostra fortuna, ci soccorre anche nel rispondere alla domanda imbarazzante da cui ci siamo mossi.
A margine del webinar organizzato da The Court of Arbitration For Art (CAFA) dal titolo The Role of Expert Witness in Art Disputes (25/2/2021), Richard Spear ha affermato che la «Technical Art History is the best part of Art History». L’affermazione, che proferita da altri studiosi (per esempio da chi scrive) sarebbe apparsa radicale e provocatoria, assume un valore di carattere metodologico generale provenendo da un professore emerito di storia dell’arte e decano della disciplina.
L’importanza del libro, a nostro avviso, è proprio nel rilievo disciplinare delle questioni trattate, a partire dall’argomento che è stato sollevato in sede istruttoria dalla controparte (rispetto alla Sotheby’s per la quale Spear ha prestato la propria consulenza di Expert Witness): solo la discussione dei dati tecnici e tecnico-esecutivi può stabilire lo statuto di copia ovvero di originale della versione Mahon dei Bari e in ultima istanza la sua compatibilità o meno con i dipinti autografi di Caravaggio.
Per questo motivo, gli esperti scelti dalla controparte provenivano dai ruoli della conservazione e del restauro, che in questi decenni hanno visto una capacità di crescita delle competenze ben al di là di quelle relative all’intervento conservativo, fino a integrarsi ai domini della connoisseurship e della storia dell’arte da un lato e dell’analisi scientifica delle opere d’arte dall’altro.
Negli stessi decenni non è avvenuto un fenomeno analogo nella formazione degli storici dell’arte e – non a caso – vengono spesso preferiti conservator e conservation scientist per il ruolo di “testimoni esperti”nell’ambito delle cause legali.
Ma nel nostro campo simili assunti prestano il fianco a pericoli evidenti: circoscrivere l’argomento in discussione ai dati tecnico-esecutivi potrebbe voler dire che il concetto di qualità sia da tenere prudentemente fuori dal dibattito. Questo è un dato cruciale nella tesi di Spear, laddove l’analisi diagnostica e tecnica è necessaria ma non sufficiente e va integrata nella lettura complessiva e articolata di un technical art historian.
Il libro si divide in quattro parti, di cui le prime due –The background to the case e The Issues–offrono una cornice che da un lato intreccia gli antefatti del processo allo stato dell’arte degli studi caravaggeschi e dall’altro approfondisce le problematiche legate alla complessa attività di una casa d’aste fra attribuzione, valorizzazione, valutazione economica, in cui il nome Caravaggio può rappresentare un pericoloso cortocircuito e un vero campo minato.
The court in session e The verdict entrano invece nel vivo del dibattito giudiziario, il cui racconto si svolge con un taglio documentaristico, che mira a fornire in maniera oggettiva lo svolgimento dei fatti.
Il lavoro di Spear si pone, nei suoi due capitoli iniziali, come un saggio metodologico che obbliga a una riflessione sugli strumenti di conoscenza della storia dell’arte e, per quanto ci riguarda da vicino, sul ruolo della Technical Art History.
Sebbene non sembri una affermazione contestabile che
«Caravaggio’s attributions, like all attributions, are based on three fundamental categories of evidence: stylistic, documentary and technical»[2],
la premessa che rende del tutto particolare una vicenda come quella del processo Thwaytes v. Sotheby’s risiede in quel fenomeno della Caravaggiomania su cui Spear è tornato più volte[3].Il proliferare di pubblicazioni, mostre, eventi, performance, di livello assai diseguale e talvolta totalmente fuorvianti, fornisce un contesto del tutto particolare anche al tema delle attribuzioni di numerosi e improbabili dipinti che, se riconosciuti di mano del maestro, acquisirebbero un valore economico straordinario.
Ne scaturisce che le categorie stilistica, documentaria e tecnica, anziché guidare il giudizio critico siano state stravolte e forzate, spesso privilegiando il dato tecnico attraverso un uso anche spregiudicato delle indagini scientifiche. Al punto che talvolta si sono persino impiegate nel tentativo di rafforzare la prova documentaria: paradossale apparve, durante il convegno Caravaggio a Napoli. Ricerche in corso (Napoli, Museo dia Capodimonte, 13-14/1/2020), la presentazione delle indagini sul cartellino apposto sul retro dell’ultima versione della Maddalena penitente, proposta come autografo di Caravaggio, al posto delle indagini sul dipinto!
Vale così la pena di riaffermare alcuni punti cruciali pertinenti al ruolo e all’etica dello storico dell’arte, così come Spear li espone nel libro, anche in riferimento alla particolare situazione degli studi italiani.
È interessante quanto la necessità di chiarezza dei termini e di rigore nella logica delle proposizioni sia un’urgenza che attraversa il libro e quanto, sotto il severo esame dell’autore, molte delle affermazioni della controparte nel caso giudiziario perdano di importanza per assenza di questi due presupposti.
Ne consegue che la sola precisazione dei termini ‘replica’, ‘variant’, ‘repetition of a subject’, ‘copy’ , diviene dirimente per considerare non accettabili alcuni dei confronti messi in atto dalla controparte per validare l’attribuzione del dipinto Mahon, classificati invece sotto un più generico e dunque ambiguo termine ‘versioni autografe’[4].
La Buona Ventura, nelle versioni del Louvre e della Pinacoteca Capitolina o i due Suonatori di liuto (San Pietroburgo, Hermitage e New York, Metropolitan Museum) rientrano nei casi di varianti, mentre il Ragazzo morso dal ramarro (Londra, National Gallery e Firenze, Fondazione Longhi) o il San Francesco in meditazione (le due principali versioni in Roma, chiesa di Santa Maria della Concezione e Gallerie Nazionali d’Arte Antica Palazzo Barberini, proveniente dalla chiesa di San Pietro a Carpineto), appartengono alla sfera delle repliche, ma soffrono di dispute attributive e di non unanimità nel riconoscimento della paternità a Caravaggio; di conseguenza, cadono come confronti affidabili.
La critica dell’autore non manca di rilevare che la stessa ambiguità si ripropone anche nella lettura delle fonti. Una ‘copia di devotione’, come quelle che Caravaggio eseguiva, secondo Giulio Mancini, da Pandolfo Pucci, sarebbe da considerare uguale alla replica di un proprio dipinto? E le due versioni del San Matteo e l’Angelo, sarebbero forse repliche, o non sono più precisamente delle ripetizioni di uno stesso soggetto, cioè uno stesso soggetto declinato in modo differente?
Altro tema cruciale, come accennato, è quello del giudizio di qualità che è dirimente nel distinguere un originale da una copia ed è strettamente legato sia alla connoisseurship sia agli strumenti di cui il connoisseur si serve, come la documentazione tecnica.
Un serrato confronto mette uno accanto all’altro i due dipinti e le interpretazioni argomentative contrapposte: la luce, il punto di vista, la resa pittorica di dettagli come la manica del giocatore giovane o la piuma sul cappello del giovane a destra. Le posizioni che si fronteggiano non si muovono in realtà sullo stesso terreno e lo slittamento semantico avviene proprio nella considerazione o meno del giudizio di qualità. Prescindendo da questo, l’analisi delle minime variazioni che una versione di un dipinto può avere rispetto ad un’altra, come in questo caso, scivola su un pericoloso piano inclinato, dove si vorrebbe intendere le incertezze di un copista come una diversa intenzione dell’artista in termini espressivi o di rappresentazione della dinamica temporale della scena.
Chi studia le copie e le versioni di derivazione sa bene come di frequente i piccoli cambiamenti, le riprofilature o i lievi spostamenti siano rivelatori della copia e non di una caratteristica espressione di un pittore che replica se stesso. Le indagini scientifiche andrebbero usate con molta prudenza e con un grado di approfondimento appropriato alla complessità del tema, documentando i processi e i procedimenti piuttosto che i materiali.
La distinzione infatti tra originale, replica, copia di bottega, copia tarda si gioca in una rete articolata dove l’analisi tecnica può dare un contributo importante, se correttamente impostata e al netto di ogni scorciatoia “sensazionalista”. La mostra che si va preparando a Capodimonte, con l’ausilio di un vasto corredo di documentazione scientifica, si misurerà con una sfida simile nel campo ancora più intricato dei doppi raffaelleschi.
Alla luce di queste riflessioni appare poco sensato doversi ancora occupare di pentimenti immaginari, come l’occhio nascosto del compare del Baro, che sarebbe coperto dal cappello del giovane, vittima del raggiro.
Quante descrizioni di pentimenti fantasiosi si leggono in numerose pubblicazioni specialistiche e quanto tutto ciò può diventare fuorviante per un lettore che ha come unico strumento di giudizio le piccole riproduzioni a stampa.
È del tutto logico che anche un copista, se di livello, replicherà alcune sovrapposizioni di campiture, disegnerà alcuni elementi nascosti, se lo ritenesse necessario per non rendere piatta la sua riproposizione di un modello dipinto. Ad esempio, proprio in ambito caravaggesco, la copia del San Giovanni Battista di Kansas City (Napoli, Museo di Capodimonte), a nostro avviso dipinta da Bartolomeo Manfredi, presenta il disegno sottogiacente dell’occhio nascosto nell’ombra e appena accennato anche nel modello di Caravaggio, sebbene la stesura pittorica non se ne sia propriamente servito e sia risolta in una modulazione del chiaroscuro.
Non è questa la sede per quella che sarebbe una lunga digressione, ma vale la pena ricordare come troppo spesso l’imaging multispettrale venga decodificato secondo una grammatica interpretativa semplificata che non considera l’interazione tra le radiazioni impiegate e la risposta dei materiali pittorici. Troppe volte le radiografie sono state lette come fotografie in bianco e nero. Al contempo nessuna immagine tecnica è decisiva in sé, ma solo in una integrazione e sovrapposizione delle diverse risposte è possibile ricostruire visivamente la dinamica e il processo creativo.
Ma, in definiva, quali caratteristiche deve avere un conoscitore affidabile di Caravaggio?
È un altro punto cruciale delle considerazioni dell’autore, preliminari al racconto della vicenda. Va detto che il quadro che l’autore rappresenta, in particolare per gli studi italiani, non è davvero confortante, in particolare se pensiamo alle caratteristiche che Sotheby’s richiedeva cercando il proprio esperto nella causa: uno storico dell’arte, connoisseur, esperto di conservazione, restauro, indagini tecniche e tecniche artistiche. Insomma un technical art historian, per il quale manca tuttora in Italia un percorso formativo accademico.
Marco CARDINALI & Maria Beatrice De RUGGIERI Roma 30 maggio 2021
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