di Marcello FAGIOLO
Pubblichiano per gentile concessione dell’autore, questo importante saggio inserito nel catalogo della mostra di Mario Verolini “Resurrezione della forma” curata da Paola Valori con testi in catalogo di Marcello Fagiolo e Giulia Gaibisso, conclusasi lo scorso 31 maggio.
Rimembrando forse Dante…
Dietro la pittura di Mario Verolini c’è la coscienza della lezione del passato, della “fabbrica instancabile dell’arte”, secondo quanto lui dice. Le sue opere sono anche il risultato della distillazione alchemica dell’arte da lui amata, dal Rinascimento al Novecento: dallo spazio-luce di Masaccio e di Piero al mistero di Leonardo, dalle luminescenze di Turner all’Impression di Monet, per giungere infine alle masse cromatiche di Rothko.
Per non parlare dei suoi ideali compagni di strada, da lui scoperti all’improvviso come Böcklin, o non ancora ri-conosciuti come Claudio Lorenese, il signore delle aurore e dei tramonti. Nel viaggio dall’Informale al ritorno della Figura si compie la resurrezione della forma, là dove il mistero della natura coincide con le evocazioni religiose, spaziando dai volumi puri sotto la luce (La resurrezione di Cristo, 1996) fino a enigmatiche strutture megalitiche (Resurrectio, ANNO).
Aldilà delle referenze artistiche, bisognerebbe indagare le suggestioni psichiche da lui stesso evocate:
“gli avvenimenti interiori si concretano in invenzioni di luoghi, in una spazializzazione dell’anima: quanto affiora nel processo dell’opera costituisce quasi il resoconto di un viaggio interiore”.
In questo viaggio della memoria i sensi e le sensazioni si traducono in sentimento della natura e sensibilità dell’anima. Si potrebbe forse capire di più su tali procedimenti, approfondendo gli spunti musicali evocati dallo stesso Verolini; io proverei invece a presentare una ipotesi diversa, la relazione occulta di queste opere con l’universo infinito della poesia, aldilà dell’omaggio esplicito all’amato Leopardi degli “interminati spazi… e sovrumani silenzi”.
Si può partire dalle sue considerazioni su Luce e Colore. Nel 2008 osserva che in Piero della Francesca “la luce è il bianco e la scala cromatica vira verso il bianco”, mentre nella sua pittura
“la scala cromatica propende verso il nero e la banda verticale di luce che attraversa il centro del quadro vale come conferma dei colori…”.
Alcuni disegni del 2016 portano a estreme conseguenze la fissazione manichea di Verolini tra i due massimi sistemi, da un lato i buchi neri che concentrano in sé tutto il mondo della materia e dall’altro i buchi bianchi che fanno risplendere la divinità dello spirito.
L’oscura estrema gravità della Madre Terra (scogliere, montagne, foreste) viene contrastata e infine travolta dagli altri Elementi: l’Aria serena e l’Acqua impetuosa fino alla deflagrazione.
Il trionfo dei non-colori, il Bianco e il Nero, è il punto di partenza (ma anche di arrivo) per comprendere la sua concezione esistenziale (e cosmologica) del dialogo fra Luce e Tenebra, che dalla impressione realistica della Luce del torrente (ANNO, specchio della natura e del cielo) si distende fino alle metafisiche Aurore del 1985 in cui la luminosità disintegra la materia acquatica e terrestre.
Il Sole risorgente dalla Notte esprime l’eterno ritorno della Resurrezione della Luce, e mi piace a questo punto ripercorrere la strada che conduce fino alle divine vette della Commedia (sulle quali mi sono soffermato più volte nel corso delle recenti manifestazioni dantesche). Giunto nell’Empireo, Dante viene colpito da un punto che irraggia una luce violentissima:
“un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume” (Par. XXVIII, 16-18).
Dante sceglie sapientemente la figura geometrica del
“punto, che non ha estensione sensibile, astratto e immisurabile, e che pure tutto misura… L’immagine del punto circondato da cerchi concentrici è usata da Boezio, che si rivela ancora una volta il maggior ispiratore delle immagini cosmiche del Paradiso” (A.M. Chiavacci Leonardi, 1994).
Si tratta di una sorta di buco bianco che corrisponde alla Unità divina; sappiamo altresì che Plotino immaginava una sfera luminosa che si concentrava fino a diventare un punto indivisibile in cui tutte le cose sussistono insieme, come unità. Dio è “centro”, punto di luce abbagliante, e insieme – circondato da un cerchio di fuoco – si pone come circonferenza, periferia dell’universo.
Verolini arriva a proporre visioni analoghe, in piena sintonia con una considerazione di Florenskij:
“Come in una visione sfolgorante, straripante di luce si mostra l’icona” (Le porte regali, 1922).
Nello sfolgoramento di quadri come Aurora o “Stella matutina” o “Benedictus” (1986) appare lampante l’identificazione del Sole con la divinità, in una epifania aurorale fra due quinte di tenebra.
E mi viene ancora da ricordare l’esperienza mistica del Paradiso dantesco, dove la visione di Dio è visione di Luce e Splendore geometrico, e il poeta stesso sembra trasfigurarsi e “trasumanare” quando osa fissare il sole:
Io nol soffersi molto, né poco, / ch’io nol vedessi sfavillar d’intorno / com’ ferro che bogliente esce del foco; / e di subito parve giorno a giorno / essere aggiunto, come quei che puote / avesse il ciel d’un altro sole adorno (I, 58-63).
Si tratta d’un salto in un superiore Spazio-luce, in una quarta o quinta dimensione descritta con l’immagine del doppio sole; e quando Dante, al termine del viaggio, arriva a fissare la divinità, vede Luce Colore Fuoco fusi nell’Amore divino (“che move ‘l sole e l’altre stelle”).
Se l’amore terreno si identifica con l’amore divino negli occhi di Beatrice (“pieni / di faville d’amor così divini”, in un corpo che sembra “fiammeggiare nel caldo d’amore”), in Piccarda, “ch’arder parea d’amor nel primo foco”, l’Amore diventa metafora dello Spirito Santo, che si effonde dal Padre e dal Figlio, quando si saldano indissolubilmente Amore, Carità, Spirito Santo: Dio è “etterna luce, che, vista, sola e sempre amore accende”.
Proprio in questa chiave mi sembra di poter leggere la Trinità del 2002: all’inconsueto Padre rosso-pallido subentra il Figlio rosso-sangue (in sintonia quasi col Mare di sangue inventato da Gian Lorenzo Bernini) e la visione si conclude appunto col rosso-fuoco dello Spirito Santo.
Possiamo altresì soffermarci su un altro tema basamentale: la centralità di acque misteriose che si trasformano in variazioni di luce, dallo Stagno al Fiume, dal Lago alla Laguna. In Aprite le porte al Signore (ANNO) l’aurea palude termina nella montagna, geroglifico del Divino. La domanda “Ma dove incontreremo di nuovo il Risorto”? (1989) trova risposta nell’enigma del Sole che sembra nascere dal profondo della palude, anziché rispecchiarsi nell’acqua.
In due opere del 1985 – La via e Il giorno – il lago di luce trascolora dalla preziosità dell’Oro alla meditazione Celestiale… Ancora una volta possiamo commentare questi incantesimi col flusso di luce del Paradiso dantesco:
e vidi lume in forma di rivera / fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera (XXX, 61-63).
La “rivera” discende dal fiume dell’Apocalisse (“fluvium aquae vitae, splendidum tamquam cristallum”) con magistrali, abbaglianti accensioni. Dante si china ad abbeverarsi all’onda di luce e poi assiste alla metamorfosi del flusso lineare in un lago circolare (simbolo di eternità) con una circonferenza più vasta del sole che si amplia poi indefinitamente. Il salto fantascientifico nell’iper-spazio consente a Dante una visione d’insieme che peraltro si trasmuta continuamente tra visione naturalistica e astrazione geometrico-metafisica. Il lago di luce è lo specchio che – non senza analogia con la visione di san Paolo (“videmus per speculum in aenigmate”) – riflette la luce divina proveniente dalla sommità del Primo Mobile e nello stesso tempo rispecchia l’ulteriore enigma della forma della Gerusalemme Celeste: i circoli concentrici che si moltiplicano lungo il declivio del lago accendendosi nelle luci delle anime beate.
Marcello FAGIOLO Roma Giugno 2023