di Elena GRADINI
Marian De Kort é un’artista che affascina dal primo momento di incontro grazie al suo personale carattere meditativo, discreto, a tratti schivo.
Tale specificità si percepisce subito quando si viene posti davanti all’osservazione delle sue opere, significative di un lungo iter artistico e progettuale che ha visto in corso d’opera numerosi cambiamenti ed evoluzioni. Formatasi in maniera spontanea all’interno del mondo artistico per tradizione familiare, inizia le prime sperimentazioni sul finire degli anni settanta con una manualità legata al gesto e segno grafico legato alla produzione di manufatti ceramici e su vetro, facendo già presagire quella predilezione per la materia pura che l’avrebbe poi accompagnata nel corso del suo sviluppo creativo e progettuale che ha portato poi la forma a smaterializzarsi del tutto a partire dagli anni duemila, sino a raggiungere le vette del pensiero spirituale, caratterizzato da una sospensione, una pausa dell’immagine fissata nel pensiero e poi trasportata su tela.
Raggiunta ormai la padronanza del mezzo espressivo, che la frequenza alla Scuola di Arti e Mestieri ha contribuito ad accrescere, l’artista ha via via sviluppato una genesi della materia che in modo più o meno inconsapevole prende forma prima nella sua mente per poi adagiarsi sullo spazio fisico della tela. Nel corso degli anni il suo linguaggio l’ha portata poi ad abbandonare progressivamente la figurazione a favore di una visione concettuale che si scompone in molteplici piani di indagine visiva, portatori di messaggi legati alla personale visione e rimodulazione della realtà che la circonda, la quale, di concerto, fa da stimolo e da trasformatore del suo nodo creativo in quanto dietro ad ogni realizzazione v’è la rivisitazione di un’idea, uno stimolo visivo che viene tradotto in chiave psicologica in quella specifica sequenza stimolo-risposta che lei, Marian, in modo istintuale ed esplosivo, percepisce come un’urgenza da dover fissare sulla tela.
I colori risultano pertanto essere il risultato di una meditazione che nasce in un primo momento come esplosione creativa, per poi via via rarefarsi sulla tela in una sequenza di pensieri che abitano il proprio spazio sospesi all’interno di una loro specifica dimensione spazio-tempo fuori dalle logiche che la realtà frenetica impone. Accade così che forme e colori fluttuano iberi nello spazio, accordandosi tra loro come il felice risultato di una scomposizione logica che trasforma il dato sensibile in materia psichica e nel trasformarsi riflette quella padronanza della materia tanto da sembrare opere uscite ancora una volta da un laboratorio ceramico e non olii su tela. Le geometriche composizioni di Marian De Kort abitano lo spazio artistico con la loro rarefatta compostezza, misurata nell’uso di accordi cromatici, nella densità della materia pittorica, e sembrano voler adagiarsi sui sentieri del pensiero in forma nitida, ordinata, e lì restare come una silenziosa e spirituale presenza rassicurante.
E’ tanta la solennità che trasuda dalle sue composizioni, una quiete imperturbabile che con i suoi ori ed i suoi azzurri antichi rimanda a certi echi latenti di spiritualità bizantina, senza però privarsi della loro specifica individualità. La genesi creativa della sua opera diviene pertanto il momento fondante in cui il pensiero si trasforma in immagine ed il mezzo utilizzato, che sia pennello o spatola, contribuisce a creare l’epifania dell’immagine visiva che si sospende nello spazio fissa, immota nella sua serafica quiete nobilitata nella foglia d’oro.
Nell’utilizzo polimaterico che l’artista adotta attraverso l’impiego di materiali eterogenei come sabbia, legno, cera, insiste tutto un universo creativo che ben si presta ad essere sia opera che complemento d’arredo abitativo, tanta è la sua passione per la gioiosità del colore in tutte le sue forme. A sottolineare il modus operandi dell’artista, concepito per mettere in risalto l’opera a se stante come una creatura data al mondo, contribuisce la sua decisione di voler lasciare spesso l’opera anonima, percependo la propria firma quasi come elemento intrusivo della composizione, disturbante nei confronti dell’apprezzamento concettuale.
Ecco allora che qui accade qualcosa di piuttosto unico nel panorama creativo di un artista, in quanto, in maniera piuttosto sorprendente subentra nel processo creativo sua figlia, Debora Gentilini, scrittrice e ricercatrice dagli interessi poliedrici ben calata nello spirito del nostro tempo, che ha fatto del concetto del self made man uno stile di vita. Con la sua dirompente carica di vivace ed ottimistica propositività di idee subentra ogni qual volta ci sia da attribuire un possibile titolo all’opera realizzata.
La sua però non è un’attribuzione passiva o slegata dal contesto, quanto piuttosto l’effettiva prosecuzione del pensiero creativo che Marian genera e fissa sulla tela e Debora contribuisce a collocare nel suo angolo di spazio nel mondo, come qualcosa che esiste, che con la sua presenza abita il nostro quotidiano. E’ un processo cognitivo pensato a due menti speculari tra loro che si interfacciano senza soluzione di continuità l’una laddove termina l’altra, facendo emergere una caratteristica davvero singolare nella fase della creazione in quanto nel momento in cui Marian pone il punto, Debora consolida, ridefinisce i confini concettuali dell’opera, il suo stare al mondo, entrare in contatto con il pubblico, con il sistema dell’arte, ne trova il titolo, la cornice ed il possibile spazio abitativo. Un processo davvero singolare che mostra ancora una volta come le forme del pensiero creativo siano molteplici e sorprendenti, in cui ogni contenuto si trasforma e nel trasformarsi genera esso stesso qualcosa che è già altro da se, dal pensiero originario, pronto in certo modo per abbandonarsi alle future trasformazioni del mondo e del prossimo spettatore osservante.
Lo stesso spettatore che non può far a meno di notare la profonda sinergia che lega madre e figlia in questo legame artistico che prescindendo dallo stile e dal carattere individuale di ciascuna di esse, sa restituire un’immagine complessa, stratificata tra le pieghe di un pensiero concettuale profondo che attende di essere indagato, compreso, ma non vincolato entro un limite visivo, quanto piuttosto osservato attraverso l’occhio della mente capace di vedere oltre l’apparenza delle cose per giungere ad un grado pieno di conoscenza interiore che si slega dai vincoli della realtà quotidiana. In ogni dipinto emerge una complessa soluzione di possibili significati che rimandano ad loro specifico valore semantico in quanto in ogni gesto si cela una scomposizione di piani visivi ed immaginari che nel loro insieme restituiscono quel complesso universo che l’artista Marian e sua figlia Debora sanno esprimere nelle loro massime potenzialità semantiche e visive.
Elena GRADINI Roma 13 Febbraio 2022