di Claudio LISTANTI
Successo per Die lustige Witwe. Convincente e raffinata la parte musicale di Constantin Trinks, più discutibile quella visiva di Damiano Michieletto; tuttavia Die lustige Witwe (La vedova allegra) di Franz Lehàr (fig 1) andata in scena dal 14 al 20 aprile, ha richiamato presso un numeroso ed appassionato pubblico.
Die lustige Witwe, pur appartenendo al genere ‘operetta’ un filone giudicato, spesso anche a ragione, secondario, se non proprio ‘minore’, nell’ambito della produzione del ‘teatro per musica’, è da considerarsi senza dubbio un vero e proprio capolavoro per questo particolare genere musicale (Fig. 2). Infatti la partitura di Lehàr assieme ad altri pochissimi lavori, come ad esempio Die Fledermaus di Johann Strauss o Orphée aux Enfers di Jacques Offenbach, hanno conquistato un posto di prestigio nel repertorio dei teatri lirici di tutto il mondo, elemento che ne contraddistingue, soprattutto, la vitalità delle rispettive partiture per la indiscutibile verve accompagnata da una certa brillantezza dei suoni assieme a ritmi coinvolgenti e trascinanti.
Qui a Roma, se analizziamo la cronologia delle rappresentazioni di Die lustige Witwe, iniziate nel 1908 con la partecipazione della ‘specialista’, per le edizioni in italiano, Emma Vecla, si può notare che fino al 1914 ci sono state molte rappresentazioni del capolavoro di Lehàr ma tutte affidate a compagnie che avevano in repertorio esclusivamente ‘operette’ come la Compagnia operette ‘Città di Milano’ diretta da Paolo Lanzini nel 1908 ed altre compagnie analoghe fino al 1914. Tutti elementi che ci fanno capire il solco netto e preciso che esisteva con il genere principe quello dell‘Opera. Dopo il 1914 nessun’altra rappresentazione fino al 1990 quando una nuova edizione affidata a Daniel Oren ed a grandi cantanti come Raina Kabaivanska, Luca Canonici e Daniela Mazzucato ne ha sancito la rinascita rafforzata anche ad una visione più moderna ed attuale da parte della critica, permettendo al piccolo capolavoro di Franz Lehàr di entrare stabilmente in repertorio.
Die lustige Witwe si basa su un libretto di Viktor Léon e Leo Stein ispirato alla commedia di Henri Meilhac L’Attache d’ambassade. L’azione è ambientata a Parigi presso l’ambasciata del Pontevedro, un minuscolo e ipotetico stato che si vede minacciato, economicamente, dal fatto che una propria concittadina molto ricca, Hanna Glavari, è rimasta vedova ed un suo eventuale nuovo matrimonio con uno straniero comporterebbe la fuoriuscita della sua cospicua e milionaria dote, evento che provocherebbe per lo staterello un vero e proprio tracollo finanziario. La soluzione sarebbe favorire le nozze della vedova con una sua antica fiamma, il conte Danilo, operazione che attraverso varie vicissitudini riesce ad andare a buon fine soprattutto perché tra i due c’è un vero e convinto amore.
La prima rappresentazione Die lustige Witwe ebbe luogo a Vienna al Teatro an der Wien il 30 dicembre del 1905 diretta dallo stesso Lehàr con interpeti la boema Mizzi Günther, soprano di operetta nella parte di Hanna Glavari ed il tenore viennese Louis Treumann. Il successo fu enorme; da quel giorno iniziò il suo cammino trionfale che giunge fino ai nostri giorni. (Fig. 3)
L’edizione andata in scena in questi giorni al Teatro dell’Opera di Roma era in lingua originale ed affidata alla direzione d’orchestra di Constantin Trinks coadiuvato da una validissima ed affiatata compagnia di canto, con la messa in scena di Damiano Michieletto, uno dei registi più in vista di oggi, per un nuovo allestimento coprodotto con il Teatro La Fenicedi Venezia presso il quale era stato precedentemente rappresentato.
Per riferire di questo spettacolo iniziamo dall’esame della parte squisitamente visiva. Anche questa volta Michieletto non ha rinunciato alla propria idea fissa di dare, necessariamente, una nuova ambientazione rispetto a quella originale pensando, forse, di creare i presupposti per ottenere nuova linfa vitale. Per questa occasione la già immaginaria ambasciata del Pontevedro a Parigi dei primi del ‘900 dell’originale è divenuta la sede della Banca del Pontevedro a Parigi ma spostata agli anni ’50 dello scorso secolo. Se nell’originale era lo Stato del Pontevedro che doveva essere salvato qui è la Banca che teme il fallimento nel caso Hanna Glavari andasse in sposa ad uno straniero con conseguente prelevamento massiccio di tutti i suoi depositi, per questo deve attrezzarsi affinché ciò non avvenga. Michieletto presentando lo spettacolo ha tenuto a sottolineare che la sua fonte principale di ispirazione risiede nell’attuale crisi delle banche con le ben note ripercussioni sui numerosi clienti veri e propri truffati.
Quindi il delizioso ed elegante mondo delle ambasciate dei primi del ‘900 si tramuta nello squallore di un ambiente bancario.
Nell’originale ci sono tre momenti fondamentali: il salone delle feste dell’ambasciata, la sfarzosa sala delle feste della casa di Hanna Glavari e la riproduzione del mitico Chez Maxim’s di Parigi ove avviene l’epilogo. Nella versione Michieletto, la prima festa si svolge in una sala della banca quella dove siedono i clienti davanti agli sportelli in attesa di essere serviti, sportelli qui utilizzati come passerella per una incomprensibile ed inopportuna sfilata di ragazze (Fig. 4) .
La sala della casa di Hanna diviene una balera anni ’50 dove, purtroppo, i ritmi dei balli contenuti dalla partitura diventano anacronistici (Fig. 5) e poi lo Chez Maxim’s sostituito di un’altra scena di squallore, un ufficio interno della banca dove trovano a stento posto le danze sfrenate delle ‘grisettes’, uno dei momenti topici della Witve. (Fig. 6)
Questa visione, a nostro parere, contrasta con i presupposti del teatro d’opera, vale a dire la diretta connessione tra contenuto musicale e azione, un rapporto strettissimo perché elemento fondamentale dell’espressione teatrale e drammatico. La musica di Lehàr è chiaramente contestualizzata nell’ambiente viennese di quel 1905 epoca della prima rappresentazione. Erano certo gli anni della ‘Belle Époque’, nello specifico quelli della ‘Austria Felix’ e del grande impero Austro-Ungarico che iniziava a disgregarsi per giungere, dopo poco più di dieci anni, al crollo definitivo decretato dalle battaglie combattute sui campi e sulle montagne della Prima Guerra mondiale, un crollo che non procurerà benessere ma, al contrario, sfocerà, dopo poco tempo, nelle grandi tragedie delle feroci dittature mittleuropee che finirono il loro ciclo sotto il segno di altre grandi tragedie, i bombardamenti e le macerie della Seconda Mondiale.
La musica di Lehàr è del tutto efficace a rappresentare questo ambiente delle ambasciate certo frivolo ma dominato dalla brillantezza che ricorda gli splendidi saloni e lo straordinario senso del ritmo che è sempre presente anche nei cori e nelle arie dei singoli personaggi che ci porta nelle vorticose danze che illuminavano le serate e le notti di follia che animavano questa società caratterizzata, anche, da un certo multietnicismo che fu una delle peculiarità dell’impero Austro-Ungarico che fondeva società e culture diverse qui evidenziate da musiche di origine balcanica e magiara che si intrecciano con i walzer e le mazurke per darci quel senso si danza continua che è una delle caratteristiche del piccolo-grande capolavoro di Lehàr. Affianco a tutto ciò ci accorgiamo che non era spensieratezza ‘assoluta’ perché il walzer che caratterizza la Witwe possiede un indiscutibile senso di tristezza, di nostalgia per il passato e di timore per il futuro; uno stato d’animo che, in maniera anche più grande, sarà espresso, forse con più forza, da Richard Strauss nel 1911 con il walzer del Rosenkavalier, proprio alla vigilia della catastrofe della Grande Guerra.
Tutto ciò contrasta con la mentalità degli anni ’50, periodo che possedeva i germi della rinascita post-bellica, dove l’ottimismo era il principale ingrediente della società, che sulla spinta della ‘ricostruzione’ andava verso la libertà e la rinascita economica, dove iniziavano ad essere introdotti gli elementi di solidarietà e coesione sociale che hanno trionfato fino alla fine del secolo. Michieletto, per la realizzazione di questo spettacolo ha avuto collaboratori preziosi che hanno saputo realizzare al meglio la sua idea di Lustige Witve, a partire dalla regista collaboratrice Eleonora Gravagnola e, soprattutto, dalle scene di Paolo Fantin nelle quali ben si inserivano i costumi di Carla Teti entrambi realizzati con meravigliosi colori pastello ai quali hanno giovato le luci di Alessandro Carletti. Per la parte coreografica, determinante per questo genere di spettacolo, prezioso è stato il contributo dei movimenti coreografici creati da Chiara Vecchi.
C’è da dire che Michieletto ha mostrato ancora una volta una notevole abilità nella cura dei movimenti scenici sia dei singoli personaggi sia delle parti d’insieme riuscendo a dare vigore e credibilità alla sua idea di spettacolo (fig 7). Peccato per questa sua ostinazione nella ricerca ad ogni costo di una nuova ambientazione che, spesso, compromette il rapporto testo/musica dei lavori che interpreta.
La parte prettamente musicale è risultata in linea con lo spirito della partitura per la quale Costantin Trinks ha costruito una direzione che ha messo in risalto tutta la brillantezza dell’orchestrazione, l’eleganza dei suoni ed il fascino ed il trasporto dei ritmi; il tutto trattato con disinvoltura, eleganza e garbo felicemente coadiuvato da tutta l’Orchestra del Teatro dell’Opera, dal Coro delTeatro dell’Opera sempre squisitamente diretto da Roberto Gabbiani e da una ottima compagnia di canto.
Relativamente a quest’ultima componente sono emerse con forza le due parti femminili principali, Adriana Ferfecka (Valencienne) e Nadja Mchantaf (Hanna Glavari) entrambe dotate di ottime ed incisive voci e di una presenza scenica di grande spessore, non solo nelle parti giocose ma anche in quelle più specificatamente danzate. Di rilievo anche il Graf Danilo Danilowitsch di Paulo Szot che ha dato al personaggio la necessaria carica di simpatia. Apprezzati anche il Baron Mirko Zeta di Anthony Michaels-Moore, il Camille De Rossillon di Peter Sonn, il Raoul de St. Brioche di Marcello Nardis, il Vicomte Cascada di Simon Schnorr, il Kromow di Roberto Maietta ed il Njegus di Karl-Heinz Macek, tutti in linea con l’impostazione musicale-scenica imposta allo spettacolo. (Fig 8 e 9)
Una menzione particolare per i cantanti del progetto ‘Fabbrica’ Young Artist Program del Teatro dell’Opera che hanno sostenuto le parti di Bogdanowitsch Timofei Baranov, Sylviane Rafaela Albuquerque, Olga Irida Dragoti, Pritschitsch Andrii Ganchuk e Praskowia Sara Rocchi.
Concludiamo con le simpatiche grisettes, tutte molto brave per queste particolari parti: Alessandra Calamassi (Lolo), Mariateresa Notarangelo (Dodo), Federica Nicolò (Jou-Jou), Marilena Trigilio (Frou-Frou), Chiara Lucia Graziano (Clo-Clo) e Krizia Picci (Margot).
La recita alla quale abbiamo assistito (18 aprile) è stata salutata da numerosi e convinti applausi sia, frequentemente, a scena aperta sia al termine dello spettacolo per tutti gli interpreti, nessuno escluso.
Claudio LISTANTI Roma aprile 2019