di Marcello FAGIOLO
Pietre del tempo: Apollo e Dafne e il David di Bernini
La sconvolgente poetica berniniana maturata nelle sculture borghesiane costituisce la sorgente della scultura barocca attraverso il movimento, la metamorfosi, la modulazione delle superfici, la sensualità, l’introspezione psicologica e il sentimento del tempo.
Nell’Apollo e Dafne (1622-25) troviamo un chiaro indizio di misura del tempo: la coppia di sassi che scivolano sul pendio e si arrestano come la sabbia nella clessidra [fig. 2].
Tempo in movimento, tempo bloccato: e intorno a questo motivo ruotano tante opere berniniane. Il continuum del tempo artistico induce a privilegiare la mobilità e la caducità. Gianlorenzo scolpisce il tempo (non riuscirà invece, paradossalmente, a rappresentarlo nel gruppo della Verità scoperta dal Tempo) e mette in scena il movimento. La disperazione, la malinconia, il trionfo, il sorriso, il pianto: tutto è movimento…
Le due pietre sembrano accostate come dadi gettati dal destino, a segnare un momento di non-ritorno: quasi “alea iacta est”. Questi dadi virtuali possono far pensare ai primi elementi organici con la funzione di dado, gli ossicini cuboidi del piede (“astragali”). In vecchiaia Bernini ritornerà sul tema dei dadi per esigenze iconografiche, nell’Angelo col manto di Cristo di ponte Sant’Angelo: la statua, realizzata da Paolo Naldini, impugna con le mani una veste che sembra prefigurare la Sindone e la fa oscillare come per muovere i tre dadi e farne cambiare la sorte. Va notato che, visti dal basso, i tre dadi segnano un punteggio altissimo: 5+5+6=16. L’iscrizione sotto l’angelo si riferisce all’episodio dei soldati che estraggono a sorte le vesti di Cristo: “Super vestem meam miserunt sortem”.
L’archetipo cubico del dado sembra ingigantito, nella base del gruppo, da uno spuntone cubico [fig. 3], un dado geometrico alludente forse al blocco di pietra originario da cui tutto discende, come nella teorizzazione dell’opus scultoreo formulata nell’idea e nella prassi di Michelangelo.
Se osserviamo con attenzione il basamento dell’Apollo e Dafne, scopriamo una evidente gerarchia nel trattamento del marmo: gli elementi di pietra geometrizzata e quasi cristalliforme hanno un trattamento semilucido, differenziato dal resto della base che è invece trattata con le stesse striature che definiscono il tronco di alloro [cfr fig. 3]. Si tratta dunque del regno vegetale contrapposto al regno minerale, ed entrambi contrapposti al regno animale, qualificato dalle carni levigate delle due figure. In tal modo, si può dire che nel gruppo sono presenti tutti e tre i regni della natura: il minerale, il vegetale e l’animale. Bisogna dunque meditare ancora una volta sulla superlativa tecnica berniniana nella rappresentazione differenziata delle superfici, fino a che, come ha scritto Irving Lavin, “nel trattare la materia dura come se fosse malleabile, cedevole come la cera, Bernini in effetti creava un nuovo materiale”.
E passiamo al David [fig. 4], a cui Bernini si dedicò durante la lavorazione dell’Apollo e Dafne (1623-24), contrapponendo al tema ovidiano del desiderio amoroso il tema biblico del desiderio di vittoria.
Dobbiamo concentrarci sulla pietra nella fionda, pronta al movimento accelerato: come ha notato Rudolph Preimesberger, si coglie l’attimo preciso tra due azioni successive, nel “passaggio repentino fra due movimenti contrapposti, fra il gesto dello stendere il braccio per colpire e quello prossimo del lancio […] E’ il brevissimo momento di sosta al culmine dell’azione, che è stato qui congelato”. Si tratta di un equilibrio momentaneo tra il pensiero determinatissimo di David e l’inizio successivo dell’azione: il sasso viene quasi soppesato, bilanciato per valutarne la potenzialità offensiva.
La feroce determinazione di David appare intrisa di collera divina, con una terribile smorfia omicida. Preimesberger ha proposto metaforicamente che la sfida dell’eroe creato da Bernini, “il Michelangelo del nostro secolo”, si rivolga non soltanto al gigante Golia, ma anche al David di Michelangelo, nell’anelito di superare il colosso marmoreo che era simbolo della libertà repubblicana di Firenze.
La nudità dell’eroe viene contrapposta alla “corazza a squame” (così in verità viene descritta nel passo biblico la corazza di Golia). Così pure l’espressione della collera viene contrapposta all’armonia musicale, impersonata dalla cetra che appare a terra al posto della spada di Saul. Con l’arpa il pastore avrebbe potuto festeggiare la sua vittoria (come aveva fatto Myriam, sorella di Mosè, dopo che il Mar Rosso aveva inghiottito l’esercito egiziano). La narrazione biblica parla per la prima volta dell’arpa nel giorno successivo alla vittoria, quando David suonando in casa scansò miracolosamente la lancia scagliata da Saul; l’episodio si ripeté successivamente in casa di Saul. E, dopo qualche tempo, lo stesso Saul morirà in battaglia, decapitato dai Filistei quasi per vendicare Golia.
La rabbia di David è immediatamente successiva all’urlo lanciato contro il gigante:
“Tu vieni verso di me con la spada e con la lancia, ma io vengo verso di te nel nome del Signore […] Oggi il Signore ti darà nelle mie mani e io ti abbatterò; ti taglierò la testa […] così tutta la terra riconoscerà che c’è un Dio in Israele e che il Signore non ha bisogno di spada né di lancia…” (I Samuele, 17, 46-47).
La fionda, l’arma pastorale di David, diventa gloriosa come l’arco di Apollo, mentre la bisaccia, contenente le pietre, assume la dignità d’una faretra. Il gesto di sfida contro il mondo “nel nome del Signore degli eserciti” interpreta mirabilmente l’audacia intrepida descritta nel passo biblico: David si era sbarazzato della corazza e della spada di Saul, con cui il re lo aveva fatto armare e in tal modo David sfidava non soltanto Golia ma anche lo stesso Saul.
A questo punto dobbiamo osservare con attenzione la pietra nella fionda di David: vista di fronte, dal punto di vista principale, appare come un sasso normale, mentre sul retro si rivela intagliata geometricamente come una sorta di dodecaedro [fig. 5]. Viene quasi da pensare che Bernini e i suoi consiglieri abbiano collegato le “cinque pietre ben lisce” che nel racconto biblico si trovavano nella bisaccia di David ai cinque solidi regolari di Platone: il tetraedro, il cubo, l’ottaedro, l’icosaedro e il dodecaedro. In tal caso, Bernini avrebbe scelto il dodecaedro, il solido formato da dodici facce pentagonali … Si tratterebbe, secondo la tradizione esoterica, della Quintessenza al centro dei quattro Elementi, corrispondente al Vuoto o all’Etere. E dunque possiamo pensare che la pietra di David venga ad assumere un significato esoterico, capace di qualunque magia per sconfiggere il gigantesco nemico del popolo ebreo; e fra l’altro una pietra spigolosa si sarebbe potuta “conficcare nella fronte” di Golia più facilmente di una “pietra ben liscia”.
Il sasso prismatico potrebbe essere messo in collegamento anche con l’enigmatico poliedro a facce pentagonali effigiato nella Melencolia 1 di Dürer [fig. 6]. Il poliedro è stato definito “troncato romboedrico” ovvero “cubo tronco” o più semplicemente ”poliedro Dürer”, e talora identificato con l’elemento della Terra nel contesto alchemico-saturnino dell’operazione di Dürer.
Guardando con maggiore attenzione il sasso di David, scopriamo che la faccia più visibile del poliedro è un esagono anziché il pentagono che caratterizza le dodici facce del dodecaedro. Forse potrebbe trattarsi di un omaggio alla struttura esagonale dell’alveare e dunque alla geometria delle Api barberiniane, in omaggio all’amico cardinale Maffeo Barberini. Dobbiamo considerare a questo punto un altro solido regolare, elencato da Luca Pacioli nel suo catalogo di 60 poliedri col nome di “Ycocedron abscisus vacuus”, cioè “icosaedro tagliato vuoto” (rappresentato anche come solido pieno, “Ycocedron abscisus solidus” [fig. 7]).
I celebri disegni di Leonardo da Vinci lo rappresentano con 20 esagoni alternati a 12 pentagoni (è la forma nota a tutti noi come l’attuale pallone da football, risultante dall’assemblaggio di pezzi di cuoio esagonali e pentagonali). Non è dato sapere se Bernini volesse accennare a questo poliedro piuttosto raro oppure se ne avesse intuito l’esistenza attraverso la sua sperimentazione in vitro o, per dir così, in petra.
Ritornando all’Apollo e Dafne, scopriamo che sotto il piede di Dafne emerge una ulteriore combinazione prismatica, in forma di cristallo minerale [cfr fig. 3]. Ma soprattutto, nel momento del contatto magico tra le due figure, vediamo compiersi la metamorfosi della ninfa nell’alloro sacro ad Apollo: e le dita allargate, come a sfuggire alla morsa vegetale, sembrano mimare le corde della cetra, quasi predisposte al tocco del dio della luce e della musica.
E’ opportuno rileggere ancora una volta l’epigrafe di Maffeo Barberini: “quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae / fronde manus implet baccas seu carpit amaras”. Il suggestivo distico, composto intorno al 1618 (qualche anno prima del gruppo berniniano), troverà una miracolosa visualizzazione quando verrà inciso nel marmo del cartiglio con finalità didattico-moralizzatrice.
“Inseguire il gaudio della forma fuggitiva”: appare estremamente suggestivo, nella sua polivalenza, il senso della “forma” che sfuma, trapassa e si trasforma. Il vocabolo latino “FORMA” ha infatti una serie di significati applicabili in gran parte alla favola di Apollo e Dafne messa in scena da Bernini:
– primo significato: “aspetto”, “conformazione”;
– secondo: “bellezza” (concetto insieme fisico e metafisico: bellezza concreta e bellezza ideale);
– terzo: “idea”, “carattere”, “conformazione”;
– quarto: “ritratto”, “immagine” e perfino “statua”;
– quinto: “apparizione”, “fantasma”, “larva”.
Quest’ultimo significato è forse il più inquietante. Quando la mano di Apollo sfiora il ventre di Dafne avviene la fecondazione virginea: come in una vertigine non si capisce se il corpo della ninfa venga imprigionato dalla corteccia o se invece si stia liberando dai vincoli vegetali.
Molti anni fa ho proposto di interpretare il gruppo come una coreografia in atto. Più recentemente Anna Coliva ha spiegato attentamente che si tratta di una “figura codificata dalla danza: l’atterraggio dopo il salto, in posizione raccolta su di una gamba avanzata e il corpo in completa torsione su questa gamba. Se Apollo saltasse dal suo basamento, atterrerebbe in questa esatta posizione […] Tutto è ridotto a un istante e a una compressione spaziale tendente al cerchio, dunque all’avvitamento che le figure compiono su se stesse per avere la spinta a librarsi verso l’alto”.
Senza soluzione di continuità nell’Apollo e Dafne si passa dalle fronde d’alloro nella parte inferiore del tronco al drappo dinamicamente teso come la vela della Fortuna [fig. 1] e poi alle chiome di Apollo e di Dafne, i cui lunghi capelli si inarcano verso l’alto a emulare il rigoglio esplosivo delle fronde che spuntano dalle dita delle mani.
Nell’urlo quasi interiorizzato di Dafne, l’amore e la paura sembrano proseguire oltre la vita. Ovidio rivela che l’amore di Apollo si prolunga nel regno vegetale: “Apollo anche l’albero adora e, poggiando la testa sul tronco, sente che palpita il petto pur sotto la nuova corteccia. Come fossero membra, ne stringe i rami, li abbraccia, l’albero bacia, ma l’albero i baci disdegna ancora”.
A rileggere l’esordio della favola di Ovidio si coglie pienamente il parallelo destino tragico dei due eroi, in conseguenza della vendetta di Cupido il quale aveva colpito Apollo con la freccia dorata suscitatrice d’amore “trapassandogli le ossa fino al midollo” e parallelamente trafiggeva Dafne con la freccia di piombo che respingeva l’amore. Una sorta di tragedia della disperazione amorosa (con echi shakespeariani oltre che di metamorfosi come quelle di Piramo e Tisbe), ma con in più una contrapposizione radicale tra il dio della luce che secondo le parole di Ovidio “prende fuoco e arde dappertutto nel petto” e la ninfa acquatica che infine chiede che venga “dissolta e trasformata la sua figura che tanto era piaciuta”. Ed è chiaro che proprio quest’ultima invocazione doveva avere ispirato il distico di Maffeo sul dileguamento della “forma fuggitiva”.
Devo rilevare poi una sorta di gerarchia poetica: i versi di Maffeo sono incisi nella pelle del Drago borghesiano sul retro del gruppo, mentre nel cartiglio settecentesco corrispondente al punto di vista principale, sull’Aquila borghesiana sono incisi i mirabili versi ovidiani: “mollia cinguntur tenui praecordia libro / in frondem crines in ramos brachia crescunt / pes modo tam velox pigris radicibus haeret”. Ovidio descrive in questo modo non il momento statico finale bensì il momento lento e miracoloso della trasmutazione, che Bernini fissa nell’attimo fuggente da lui prescelto. Un momento liquido e fluttuante: i versi di Ovidio vengono rappresentati ricurvi come onde, a differenza dei più lineari versi di Maffeo. Bernini riesce a scolpire icasticamente i “mollia praecordia” (il termine latino designa insieme le “viscere”, il “corpo” e perfino l’”anima”) che si stanno lentamente rivestendo di “tenui libro”. Il termine “liber” si estende dalla “corteccia” alla pagina di “libro” che poteva essere scritta su quella sfoglia vegetale così come su un papiro o sulla pergamena animale: e – mentre l’alloro sta per essere consacrato ad Apollo – sul “tenui libro” immaginiamo che possano essere vergati anche i versi ovidiani. La corteccia è “tenue”, evocando l’immagine di vestito sottile di cui finalmente si ammanta la ninfa pudica, dopo che le sono caduti i veli; e, mentre cresce la suspense, “crescono” i capelli come fronde e le dita come rami.
Marcello FAGIOLO Roma marzo 2018