“Coucou, Sèlavy!” About Art intervista l’attrice Silvia Pegah Scaglione: “Sono nata infetta d’arte, non artista”.

di Marco FIORAMANTI

“COUCOU, SÈLAVY!” (parte seconda)

UNA MISTERIOSA MISSIONE

Intervista a Silvia Pegah Scaglione

– Come nasci e come ti definisci come artista?

R: Non sono mai completamente nata – e né mi sono definita – artista. Cosa ci facciamo qui a parlare allora, mi dirai? Parliamo di dubbi e di un disperato tentativo di sfuggire alle definizioni e quindi ai destini, al proprio di destino. Io non mi sono mai presa la responsabilità che un artista dovrebbe. Non si tratta solo di talenti o tendenze e richiami, credo abbia a che fare ancora più intimamente con una missione, una misteriosa missione i cui dettagli non conosci e nemmeno il fine ultimo ma ne senti – e soprattutto ne accetti, qui il discrimine – tutto il peso e dedichi a questa missione la tua totale attenzione e dedizione.

Silvia Pegah Scaglione

Non credo si tratti di mancanza di coraggio, so che così non è. Forse ho pensato che avrebbe chiuso altre vie e vite e io sono terrorizzata da tutto ciò che diventa definito e definitivo, come se fosse una bara. Ma si muore comunque, non è vero? Ad ogni modo certe cose le si paga a caro prezzo e allora ho vissuto tutta questa faccenda come una malattia i cui sintomi hanno cominciato a emergere piano piano, mi hanno invaso il corpo mentre la mente li scacciava e a tratti i segni sono e sono stati visibili sulla pelle. Da sempre, da quando ricordo. Non conosco altro modo e non so se posso trovare alternative perché i miei tentativi di fuga si sono tradotti in un percorrere orbite ellittiche intorno al nocciolo della questione. Sono nata infetta d’arte, non artista. Cosa che vivo con un certo grado di colpa non espressa, come in ogni malattia.

– Quando nasce “Cuocou, Sèlavy !” e come si sviluppa il sodalizio con Francesco Vigna Taglianti?

Silvia Pegah Scaglione e Francesco Vigna Taglianti

R: Ero poco più che ventenne. Studiavo medicina ma non mi davo pace, non poteva essere quello il mio mondo, non solo quello. Avevo cominciato da qualche anno a frequentare un corso di teatro e quell’anno decisi di fare anche un corso di filmmaker. Un giorno arriva al corso di teatro questo ragazzo, Francesco, dall’aspetto e dall’aria di un vampiro millenario intrappolato nel corpo di un giovane uomo. Non aveva mai fatto teatro ma era artista già maturo. Lui sì che aveva aderito alla sua missione, ecco in lui ho sempre riconosciuto l’artista, ho ammirato la sua intransigenza, la sua purezza di visione, la sua profonda irrequietezza, il suo studio ossessivo, il suo saper dialogare con gli altrove: questo ragazzo mai stato in scena, attore non era, era un poeta della scena. Mi ritrovai a osservare attraverso di lui, come se fosse uno squarcio sul telo del mondo, un paesaggio lontano verso cui sentivo grande nostalgia, un paesaggio che riconobbi.

Per me Francesco rappresentò questo, una ferita di quello che era considerato reale, per la prima volta sentii che la mia profonda irrequietezza aveva un luogo di pace e che anche lui lo conosceva. Non poteva viverlo, ma diventando varco si donava generoso all’occhio che contempla. Per la prima volta pensai che anche io potevo essere quel portale, per la prima volta compresi che non stavo cercando solo una via di espressione. Sai, l’esprimermi non mi ha mai davvero soddisfatto, piuttosto mi ha lasciato un senso di vuoto e di sporco, come se fossi stata compromessa, perché esprimersi significa dare forma a ciò che per sua natura è “in sovrapposizione di stati”, esprimersi significa tagliare via fette di verità, significa già non essere più realmente autentici. No, potevo fare qualcosa di diverso, potevo gemmare universi, potevo farmi cassa di risonanza di verità inesprimibili appieno. Ecco, non cercare più l’essenza come oggetto da comunicare ma trasformarmi nel corpo dove le onde si propagano e risuonano, risuonano, risuonano.

Tornando invece a “come” nacque “Coucou, Sèlavy!”… 

R: Sai, pur essendo diversi su quasi ogni aspetto espressivo e percettivo e caratteriale e culturale, qualcosa di ancora più fondamentale ci accomunava, o meglio, comunicava tra di noi nonostante noi. Il nostro lavorare insieme non poteva che essere naturale conseguenza e così adottammo questo nome che già esisteva, era il nome di un progetto musicale con un altro artista con cui Francesco collaborava fino a quel punto. Ma il nostro primo lavoro non fu un lavoro teatrale. Stavo lavorando, per il progetto di fine anno del corso di filmmaker, su un cortometraggio. Avevo sentito alcuni lavori audio di Francesco. Volevo utilizzare alcune di quelle tracce ancora in elaborazione. Ma ben presto tutta la parte audio prese un’importanza cruciale e le immagini e il sonoro si plasmarono a vicenda. Fu un lavoro a due a tutti gli effetti. Nacque “Occhio, caballo muerto!”, video che custodisco gelosamente e che quasi mai rivediamo e facciamo vedere.

Perché no?

R. Non so, mi genera orrore e ammirazione allo stesso tempo. Ho pietà per la persona che ero, profonda pietà per quella ingenuità e quella forza che la vita ha dissipato, no, che io ho dissipato. Profonda ammirazione per il coraggio e le visioni che nacquero. Profonda gioia per l’inaspettato che ogni volta si è rivelato alla mia stessa anima. Profondo orrore per la cecità della gioventù, per la mia di gioventù che pensava di poter imprimere la propria impronta sul mondo. Pensavo di poter affermare qualcosa e questo mi fa sorridere, pensavo di poter ritrovare qualcosa di perduto e questo mi fa piangere, pensavo che le speranze fossero qualcosa di limpido e direzionale e allora provo disprezzo e pena in me. Però ci sono momenti in cui rivedo e rivivo alcuni frammenti di quei mondi impossibili che ho toccato e per un istante sento una sorta di gratitudine. Ho la grazia di quei momenti, a darmi un attimo di sollievo.

– Qual è il vostro procedimento nel lavoro creativo alla nascita e sviluppo di uno spettacolo?

R: Francesco e io siamo molto diversi. Partimmo che lui era tutto visione e immaginazione e io tutto cuore e passione. Parlo puramente a livello espressivo, sulla scena. Lui era l’immagine e io il colore.

Tra l’altro, pur anelando alla via della sparizione in scena, eravamo e forse siamo ancora, due primedonne. Questo paradosso non ci abbandonerà mai, forse, l’esigenza di essere visti e riconosciuti e amati nella nostra unicità e al contempo l’esigenza di sparire alla nostra individualità, l’esigenza di farci teatro della vita che sovrascrive il singolo, il particolare. Ma questo non è forse uno dei tanti conflitti profondamente umani?  Abbiamo avuto anche furiose e frequenti discussioni prima di creare un linguaggio comune. Ah se ripenso a quanta passione e necessità ci doveva essere per superare o generare tutti quegli ostacoli! E ce ne sono stati tanti, anche e soprattutto personali, le malattie, i corpi che cedevano. Ma andiamo oltre, sarebbe un discorso troppo lungo.

C’è sempre stato quindi un forte scambio reciproco tra voi…

R: Nel corso degli anni abbiamo preso molto l’uno dall’altro, tantissimo, e ci siamo trasformati. Ma questo per quanto riguarda l’essere in scena. Nella costruzione è tutto un altro discorso. Per anni abbiamo avuto un dialogo costante e su tanti aspetti della vita e dell’arte e delle visioni e nonostante le grandi differenze di vita e di formazione e di costituzione c’è un fulcro intorno a cui i nostri lavori girano. Un fulcro che non tocchiamo mai, c’è e questo basta, non lo vogliamo definire, perché significa ridurlo al senso e renderlo a senso unico. Assomiglia a quel paesaggio di cui parlavo prima, un paesaggio antico al di là della ferita sul telo del mondo, un paesaggio di nostalgia intorno a cui gravitiamo come corpi inermi.

A volte ci diciamo che noi portiamo in scena sempre lo stesso spettacolo. Cambia tutto in realtà da spettacolo a spettacolo ma questo fulcro rimane sempre lo stesso e si perpetra e si espande e riverbera nell’occhio nostro e dello spettatore per poi attenuarsi e scomparire al ricordo. Ma torna, torna sempre. Io spesso ho il terrore di non riuscire a tornare in scena, ho paura che questo seme di infinito mi sia precluso, ho il terrore che diventi tutto esercizio d’arte e compiaciuta arte. Entrambi amiamo i fallimenti e le cadute clamorose (per congenito masochismo? oppure per quello spirito infondo rivoltoso che vuole sfidare gli dei ma sa di essere fragile eppure osa, osa!). Come due pazzi cerchiamo di volare. A volte, lo sguardo collettivo, del pubblico e anche il nostro, permette a tutti i coinvolti questa sospensione, questo germoglio di volo.

– Da chi nasce la scintilla dell’idea che poi porterete in scena? 

R: Non partiamo mai con un’idea da portare in scena. Il senso di quanto facciamo non è mai preconfezionato e si rivela a noi durante il lavoro ma soprattutto durante e dopo l’essere andati in scena. Lavoriamo costantemente, anche durante i lunghi periodi in cui non siamo in scena, a volte anche anni. È un rito che facciamo. Spesso lavoriamo indipendentemente l’uno dall’altro nella creazione di molte parti. Una poesia, una musica, una parlata particolare di uno sconosciuto per strada, un sogno, un’immagine, le passioni irrealizzate, tutto si ricombina in un pezzo di tre minuti che offriamo l’uno all’altro durante le prove/rito. A volte, chi di noi sta osservando, può fornire qualche suggerimento, ma sai, i suggerimenti esistono solo perché suggeriti già dal lavoro dell’altro. Piano piano le cose si collegano. Ora parlerò con un linguaggio da fisico (cosa che poi finii per studiare) ma credo renda bene l’idea: immagina atomi isolati, l’elettrone che gira intorno al nucleo e crea un minuscolo campo magnetico. Noi produciamo questi atomi in continuazione col nostro lavoro personale e quotidiano, ma questi atomi hanno la specificità di poter mettere in comune i loro domini. Quando decidiamo che è tempo di andare in scena è perché si è acceso un campo in grado di allineare i microscopici campi magnetici fino ad allora disposti casualmente e allora questi minuscoli campi si allineano e si sommano e nasce un effetto macroscopico, visibile, percettibile. A quel punto il lavoro si è magnetizzato. Cosa attragga questo magnete non lo so, forse i fantasmi. Sì devono essere i fantasmi.

– Il vostro è un teatro lirico. Quali sono le sue componenti emotive?

R: Sono tutta l’umanità che ci è passata attraverso, tutta quella che non salvammo, tutta quella che non salveremo mai. Sono le nostre infanzie con le loro ombre e le loro proiezioni, sono tutto ciò che ci ha abbandonato e a cui abbiamo voltato le spalle. Sono i futuri noi a cui abbiamo abdicato, sono generazioni a venire che ci tenderanno una mano per salvarci o per rigettarci nell’oblio. Sono le promesse verso cui corriamo ancora anche se da lungo tempo tradite. Sono incubi che originano in un sogno tenero, hanno il sapore di una ninna nanna e dello scherzo bambinesco e del gelo di un oltretomba. Non so mai se fuggire o farmi abbracciare. Nel dubbio, rimango.

– E poi, cosa accade?

R: Ricordo sempre poco. Però ricordo che subito dopo mi sembra che sia un miracolo essere sopravvissuti. So di aver lottato contro dei mostri immensi, quelli a cui avevo dato ancora più alimento nei giorni e mesi prima di andare in scena. Ho giocato con tutto, lì dentro era confluita tutta l’essenza della vita, quella vita con cui non si è quasi mai davvero in contatto: i giochi sono la cosa più seria che possano esistere e in scena lo si fa con grande cuore. C’è un istante – quando l’ultima battuta ha risuonato tra le pareti, la luce non è ancora stata accesa e l’applauso è in sospeso – che nel buio riesco a vedere molto chiaramente ogni singolo sguardo. Quell’istante so che abbiamo combattuto e amato e sfidato il cielo, tutti insieme, non c’è più distinzione tra chi stava in scena e chi guardava. “Vi vedo, compagni!”, vorrei urlare.  So bene che a minuti sarà tutto affievolito e a giorni tutto rimosso. Anche alla mia coscienza.  E io sono contenta, sono contenta di questo perché significa che non c’erano appigli, l’appiglio della storia o della trovata geniale… so che era una caduta libera, e spero, spero tanto che dal fondo dell’anima – mia o di una persona altra – in un istante qualunque mentre ci si sta lavando i denti, risalga una scintilla e il ricordo di un incontro, di un gesto eroico. Per il resto, noi rimuoviamo tutto quello che è essenziale, lo facciamo di continuo, per poi sorprenderci quando lo ritroviamo e poi, di nuovo: oblio. È giusto così, è buono così o forse semplicemente è così e basta.

Un “Cuocou”- pensiero, tra i tanti possibili…

R: “C’è una speciale provvidenza anche nella caduta di un passero”… e della polvere il canto si levò.

Marco FIORAMANTI  Roma 6 Ottobre 2024