Da Argan a Urbani a Brandi a Zeri. Luigi Ficacci parla del ‘suo’ ICR: “Cosa dico ai miei allievi? Parametro deve essere la concretezza del cantiere!”

P d L

Luigi Ficacci (Roma, 1954) dirige dall’agosto del 2018 l’Istituto centrale del Restauro, una delle eccellenze italiane nel campo della conservazione e tutela del patrimonio artistico. E’ stato allievo di Giulio Carlo Argan ed ha insegnato alle Università di Viterbo, Cassino e Pisa; tra il 2005 e il 2016 ha ricoperto la carica di Soprintendente in varie città italiane; è autore di numerose pubblicazioni relative ad artisti di varie epoche. Ha curato e relazionato in convegni e mostre in Italia e all’estero. Lo abbiamo incontrato a latere della giornata di studi Dentro Raffaello. Per una nuova conoscenza dell’artista. Tecnologie diagnostiche di ultima generazione, tenutasi il 23 settembre alla Galleria Borghese, dov’era tra i relatori.

-La prima cosa che vorrei chiederti è un parere sul tuo primo anno come Direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro che coincide con l’80° anniversario della sua nascita

Giulio Carlo Argan

R: Una valutazione non può che partire da quello che è e che è stato l’Istituto che nacque dal progetto  che  Giulio Carlo Argan presentò al periodico convegno dei Soprintendenti nel luglio del 1938, a Roma, all’oratorio dei Filippini. Posso dire che l’istituzione e la validità di quella idea restano del tutto attuali; si trattava infatti di un progetto assolutamente avveniristico, elaborato da Argan nella logica della esperienza maturata nella Bauhaus, che si era conclusa alcuni anni prima e che lui pensava potesse riproporsi nell’Italia di quel periodo, questa volta non tanto nel senso della progettazione architettonica, bensì orientata sulla conservazione del patrimonio artistico. Comportava la creazione di una figura professionale nuova, quella del restauratore, che di fatto non esisteva, differente dal pittore o dall’artigiano. Si sarebbe trattato di una professione in cui dovevano convergere le competenze e le conoscenze tanto manuali che storico artistiche, come pure fisiche, biologiche, chimiche, allo scopo di maturare una visione complessiva senza distinzioni tra scienze umane e scienze esatte, ma in una loro convergenza finalizzata alla conservazione del nostro patrimonio. Si trattava di creare una scuola basata sulla ricerca e che rivoluzionasse le categorie scientifiche. Una scuola non solo destinata ai futuri restauratori, ma anche al personale già attivo nelle gallerie e nelle soprintendenze, che avrebbe dovuto riscolarizzarsi, per dire così, in questo nuovo istituto, nel senso che tutto il personale dei Beni culturali si sarebbe dovuto impegnare in periodi di aggiornamento.

-Mi pare però che tutto questo non si è affatto realizzato.

R: Solo episodicamente e saltuariamente, proprio per questo la validità dell’idea fondativa è sempre più attuale, come quella di una scuola che si potrebbe definire “democratica”, sulla scia della Bauhaus per l’appunto, nella quale docenti e discenti si trovino uniti nella ricerca e i confini distintivi delle professioni evolvano, quanto a ambiti cognitivi, senza questo provochi modifiche impossibili dei ruoli operativi (il restauratore resta restauratore, lo storico resta tale e così il chimico, il biologo, il fisico). Molto difficile effettivamente da attuarsi perché allora come oggi la logica organizzativa e amministrativa non era predisposta. Diciamo che ancora oggi è un obbiettivo più avanzato rispetto a quanto non lo siano i mezzi convenzionali per realizzarlo. Appunto, è un obbiettivo che va insistentemente perseguito, non solo per la sua convenienza funzionale, ma anche per contribuire al progresso della stessa amministrazione, che senza spinte – si sa- è quanto esiste di più conservativo.

Pensi che ci siano modelli in Italia che abbiano poi intrapreso in qualche misura questo percorso indicato da Argan? forse qualcosa del genere è riscontrabile all’Opificio delle Pietre dure di Firenze?

R: Per la compresenza di scienze storiche, scienze manuali e scienze della natura, l’Opificio è come noi.  Per contro, l’Opificio ha una personalità molto diversa e particolarissima: è nato nel ’66 sull’emergenza creata dalla alluvione e sei anni dopo fece ciò che il nostro Istituto non aveva ancora mai fatto, cioè una memorabile mostra, intitolata “Firenze restaura”: era la prima grande esibizione in assoluto di restauri, incentrata sull’identità restauro/ricerca. Fino allora, ogni soprintendenza rendeva nota la propria attività di restauro in mostre che si risolvevano in discorsi storico critici sull’arte dei vari luoghi geografico culturali: il restauro era una condizione accessoria, magari un’occasione. In effetti, le condizioni prodotte dal tragico evento dell’alluvione avevano alterato qualsiasi ordine e prassi di metodo fino lì praticati. Di conseguenza la ricerca nasceva proprio in ragione della eccezionalità della situazione. Va detto che la mostra fu splendida, con un riscontro di pubblico esorbitante e certamente da lì si è creata una sorta di evidenza senza pari dell’unità interdisciplinare: come fosse un linguaggio specifico e nuovo. A questo poi aggiungi quel senso di compattezza civica e civile che Firenze è in grado di dare alle sue istituzioni, di integrità, la capacità di fare gruppo unitario; e la città attorno alle sue istituzioni. Firenze insomma ha questa straordinaria caratteristica, questa tensione alla compattezza, che è la forza stessa dell’Opificio, secondo me.

-Pensi che sia un modello cui potersi ispirare in qualche modo, anche nella conduzione dell’Istituto qui a Roma ?

R: No assolutamente, qui è impossibile; a Roma non prevale la compattezza ma la molteplicità. Non voglio alludere alla città, piuttosto a quella complessa condizione di ricerca di sintesi del molteplice che è intrinseca alla centralità delle istituzioni culturali romane. E’ una caratteristica ereditata dallo Stato fascista che, partendo dal centralismo tipico dei primi anni dell’unità d’Italia, trasformato in centralità tecnica, è in condizione di recepire e permearsi delle informazioni delle varie realtà geografiche del paese, nel caso dell’Istituto del Restauro integrarle in un centro di ricerca avanzata, per poi restituirle alla realtà geografica del paese, coi risultati. Questa dinamica è ancora validissima. Il suo sviluppo è indispensabile per uno sviluppo delle scienze effettivo e peculiarmente “italiano”. Certo le cose oggi sono cambiate e quello che prima era possibile definire come un ‘sistema nazione’ oggi è più corretto definire ‘sistema paese’; si tratta peraltro di una definizione che ho sentito recentemente pronunciare dal Sindaco di Modena, qualche giorno fa, al momento della restituzione alla città della pala del Guercino trafugata e ritrovata dal Comando Tutela Patrimonio artistico dei Carabinieri:

Guercino Pala post restauro
Guercino Pala rubata pre restauro

il sindaco Muzzarelli parlava della convergenza delle varie istituzioni e delle varie discipline per la salvaguardia delle opere d’arte, che aveva ottenuto quell’importante risultato. Lo qualificava come una dimostrazione di funzionalità di un  ‘sistema paese’; credo avesse ragione;  per quanto mi riguarda ho potuto spiegare che uno dei risultati per cui lavoriamo è che  l’ISCR sia un esempio del passaggio da un “sistema nazione” a un “sistema paese”, sul tema delicato ma molto preciso della conservazione e del restauro.

-A proposito del furto del Guercino, hai potuto capire come è stato possibile che una pala di quella dimensione sia stata sottratta senza che nessuno se ne accorgesse?

R: Purtroppo la questione rientra nell’ambito della peggiore cronaca nera, una degenerazione della condizione ambientale della sua custodia che, tra debolezze umane, sottovalutazioni e equivoci ha consentito si creassero circostanze criminose incredibili considerando la collocazione centrale della chiesa che conservava il quadro. In un paese come il nostro, che nel corso degli ultimi decenni ha riconosciuto l’ambizione al pieno esercizio dei differenziati diritti di proprietà anche dei beni culturali, le responsabilità possono essere diventate gravose per una molteplicità di soggetti. Ma proprio questo è il problema che va risolto, tanto più in una città la cui tenuta comunale è così avanzata e la cui soprintendenza ha avuto un ruolo così importante, ai tempi in cui lo Stato era l’unico responsabile della conservazione dei beni storico artistici, chiunque ne fosse il proprietario. L’Arma, col suo Comando tutela ha fatto il suo pregevole lavoro di indagine e recupero, la Magistratura il proprio, lo Stato ha esemplarmente restaurato ciò che restava dell’opera, ora è indispensabile che la proprietà si dimostri all’altezza delle proprie responsabilità di custodia. Per un contesto come quello modenese, che dimostra per tradizione una strutturale capacità di cooperazione, non è così difficile e soprattutto non si rischia di rimanere soli.

-Hai parlato di conservazione e restauro ma sono termini che si devono distinguere ?

Giovanni Urbani

R: Una volta non era necessario; poteva non esserlo, ad esempio, negli anni Trenta. Si capiva benissimo, allora, nelle punte più avanzate , come quelle che dettero luogo alla legge di tutela del 1939 e all’Istituto Centrale del Restauro, che l’attività di chi si occupa di questo settore dovesse fondarsi sulla prevenzione e l’ideale fosse prevenire il  restauro. Se Giovanni Urbani nella sua direzione dell’Istituto, durante i dieci anni successivi il 1973 ritenne di dovere ribadire con tanta forza i concetti della conservazione preventiva e infine dimettersi dall’amministrazione per quella che gli parve una vertiginosa caduta della cultura della prevenzione e della programmazione è perché si faceva sempre più utopistica l’attuazione concreta di queste consapevolezze e il restauro si stava affermando sempre più come una finalità in sé. Eppure l’esigenza di una prevenzione era molto chiara già a partire dalla fine dell’Ottocento –pensiamo a Cavalcaselle, ad Adolfo Venturi e così via- però non si era mai attuata davvero tanto che veniva sempre superata dalla spettacolarità dell’intervento. Del resto l’idea della necessità della prevenzione si era affermata a fine Ottocento perché era un concetto proprio della cultura positivistica, in cui la tendenza alla prevenzione si registrava in tutte le discipline e le scienze (basti pensare alla medicina). Considera che siamo noi a distinguere tra tutela e valorizzazione. Nel lessico d’uso dall’ottocento fino al primo dopoguerra esisteva la “conservazione” , composto di tutela e studio e messa in valore, una unità, quest’ultima, consistente nella pubblicazione e esposizione del patrimonio culturale. Era un ordine normale e corrente del tardo umanesimo proprio della cultura idealistica del tempo.

-Hai fatto un ampio panorama sulle origini e sull’attualità dell’Istituto che dirigi; passando ora all’attualità, dal momento che da poco si è realizzato un cambio di governo e che alla testa del Mibac è tornato il ministro Franceschini, ti domando: se ci fosse una cosa precisa da chiedergli cosa chiederesti?

R: Non ho niente da chiedere, come Direttore dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, perché gli ultimi ministri che si sono succeduti, soprattutto Franceschini, ma anche Bonisoli, hanno avuto una chiara ed efficacissima individuazione della natura, delle attività e delle necessità dell’Istituto. Avrei invece molto da chiedere se fossi ancora un soprintendente.

-Allora proviamo, magari in materia di autonomia gestionale e finanziaria che tutti i direttori che abbiamo interpellato come About Art ci hanno indicato come prioritaria?

Cesare Gnudi
Raffaello Causa

R: Assolutamente si, il tema del ripristino di una effettiva e funzionale autonomia è forse il più urgente. Va considerato peraltro che tutti i nostri grandi predecessori nella carica di soprintendenti l’autonomia l’hanno sempre voluta per sé, parlo di Cesare Gnudi, di Bruno Molajoli, di Raffaello Causa, di Palma Bucarelli, di Andrea Emiliani,  e così via, per tutti l’autonomia era una delle esigenze fondamentali; occorre dire che–anche se ora non mi riguarda più direttamente- il problema è l’urgenza dell’approfondimento e del completamento della riforma Franceschini. Se è vero che l’autonomia sta procurando grande efficacia ai musei, è ancora da risolvere il rischio di un loro isolamento dal territorio. E’ indispensabile che la distinzione sia solo gestionale e non si affermi invece –come invece succede- come separazione sostanziale. Da attuare compiutamente invece l’unificazione delle soprintendenze, perché è una riforma di capitale importanza: che le varie istanze architettoniche, paesaggistiche, quelle delle tecniche dell’arte e dell’archeologia trovino nel soprintendente una figura di sintesi verso le esigenze della realtà e degli ambienti esterni alle scienze storiche della conservazione è indispensabile a una conservazione efficace e condivisa. Ogni singolo settore scientifico che non riesca ad uscire da se stesso, che si chiuda nell’isolamento e nell’ipertrofia della propria identità, produce il rischio dell’idiozia.

-E allora, come evitarla?

R: Lo dico sempre agli allievi della Scuola di Alta formazione in restauro dell’Istituto, all’apertura dell’anno accademico: piuttosto che porsi nell’ossessione di chi sa quale nuova invenzione occorre che si realizzi una coalescenza del sapere, si superino le identificazioni in settori distinti. Questi sono necessari nella fase iniziale, distintiva, delle evoluzioni della conoscenza. La nostra disciplina, la moderna storia dell’arte –di cui il restauro è parte- è una disciplina ancora giovane. Può essere considerata in una sorta di crisi adolescenziale, il passaggio alla maturità richiede appunto una nuova coalescenza.

-Vorrei ora sentire il tuo parere ed anche quello dei tecnici che ci assistono, Paolo Scarpitti e Carlo Cacace, sul tema della diagnostica, su cui peraltro è incentrato il convegno che si apre lunedì 23 settembre alla Galleria Borgese visto che riguarda il restauro della Pala Baglioni e di due altri capolavori di Raffaello. Ti chiedo cioè se questo sviluppo prorompente delle analisi diagnostiche non rischi un domani neppure troppo lontano di ridimensionare il ruolo dello storico dell’arte.

Giovanni Morelli

R: Il ruolo dello storico dell’arte è proprio quella garanzia di coalescenza che si diceva prima: è indispensabile, se è inteso come la autentica sintesi di tutte le rilevazioni oggettive, la loro coniugazione e interpretazione nella cultura storica. Vero è che le rilevazioni e i modi stessi delle rilevazioni cambiano ed evolvono; considera che siamo partiti dall’epoca in cui Johann David Passavant si presentava al mondo intero come una specie di mago, tanto che nella Prefazione al primo dei tomi del catalogo generale dell’opera di Raffaello, presentava se stesso affermando qualcosa come “solo io posso riconoscere il vero Raffaello perché sono l’unico che li ha visti tutti” ed era quello il momento direi mitologico dell’emergenza del conoscitore. Ma era un’impostazione che già suscitava il sarcasmo feroce di Giovanni Morelli; quando poi è arrivata la fotografia lo storico dell’arte ha potuto avere maggiori facilitazioni nelle sue ricerche; che voglio dire insomma? Che più le scienze -e la tecnologia che ne deriva- producono strumenti di indagine che possano giovare agli studiosi, meglio è, purché siano strumenti; strumenti per l’occhio; occhio inteso, come dicevo prima, quale contenitore di cultura e storia.

Hai nominato Giovanni Morelli e allora consentimi una domanda sul suo famoso ‘metodo’ che secondo molti autorevoli studiosi invece ha comportato spesso un freno per la ricerca.

Federico Zeri

R: Ma guarda che credo che il ‘metodo Morelli’ sia diventato tale a latere della sua opera di conoscitore e storiografo; piuttosto sull’onda del suo successo mondano; per ragioni di convenienza editoriale e pubblicitaria. La figura di Morelli non si esaurisce in quel prontuario magico divulgativo che ne è una volgarizzazione. E’ un po’ come se pretendessimo conoscere l’opera di Federico Zeri in base alla lettura di “Sbucciando piselli” che certamente è un libro strepitoso, ma effetto della sua interazione con Roberto D’Agostino e non potrebbe propriamente  dirsi esaustivo sulla sua figura di conoscitore e storico dell’arte. E in ogni caso c’è di peggio. Ad esempio, la così detta “teoria del restauro” di Cesare Brandi sai come si è irrigidita in teoria prescrittiva con effetti quasi di legge? Perché Einaudi aveva bisogno di un titolo per  pubblicare e ripubblicare una serie di saggi assai interessanti e importanti, frutto dell’esperienza di precisi restauri. Credo che Brandi fosse effettivamente portato ad una certa ansia di teorizzare, sistematizzare e prescrivere, per quell’indole che Zeri sapeva stigmatizzare in maniera irresistibilmente comica; ma proprio la sistematicità implicita in un titolo non rende ragione dell’interesse, della sensibilità critica e storiografica di quel sublime interprete che è Cesare Brandi. D’altra parte non si può pensare di trattare la “teoria di Brandi” -come pure la carta del restauro- come un prontuario o una legge. Cercarvi una risposta a quanto l’opera richieda, nella propria singolarità e in quel dato momento della sua esistenza sarebbe un equivoco;  mentre vi si trova, questo si, un inquadramento culturale; ma è una impostazione del problema. E come tale deve essere chiarito agli allievi: come l’approdo di un’esperienza dimostrativa e induttiva , piuttosto che una discendenza deduttiva. Quello che indico ad apertura di anno accademico è “Teoria? No! Dimenticatela! Vostro parametro deve essere la concretezza del cantiere”. Ma questa avvertenza all’abbandono di una teoria pregiudiziale non si potrebbe assolutamente azzardare se non all’interno di una teoretica e solo entro il suo ambito. Lavorando, comparando, capire questa differenza è molto più semplice e lineare che non ragionandovi in astratto.

-Ora, per entrare meglio nel tema del convegno che si apre il 23 prossimo vorrei che mi commentassi dal tuo punto di vista di storico dell’arte questa frase che compare nel comunicato di presentazione dell’evento  e che recita così, cito “In seguito agli esiti prodotti, sarà possibile operare la revisione estetica della superficie pittorica e la revisione conservativa del supporto …” ; cioè si parla di indagini che danno la possibilità della revisione estetica dell’opera d’arte; se non ho inteso male mi sembra una cosa enorme ..

R: Guarda, a dirti la verità io quel comunicato non lo ho letto e non saprei come interpretare questa frase. Posso però confermarti l’importanza prioritaria di conoscere sempre meglio la tavola e il suo comportamento. Vedi, Raffaello giovane, quello dello Sposalizio della Vergine di Brera del 1504, per fare un esempio, o questo appunto della Deposizione Baglioni del 1507, ha una pittura così perfetta, che richiede una conservazione altrettanto impeccabile della superficie pittorica.

Non che l’intera opera di Raffaello non meriti di essere conservata al meglio, ma intendo che la comprensione della sconvolgente conquista del Raffaello giovane, l’espressione del moto nella immobilità assoluta delle forme, con una totale nitidezza piena di sfumature, richiedono la conservazione perfetta della sua stesura, che è assolutamente impeccabile. Insomma la comprensione di un tale capolavoro dipende dalla perfetta conservazione materiale del suo supporto e della superficie dipinta. Per questo è così fondamentale conoscere perfettamente la condizione e il comportamento della tavola stessa.

  • Una domanda ora la vorrei rivolgere a Carlo Cacace che ha lavorato sulla tavola, ed è la seguente, cioè se avete trovato particolari difficoltà nell’analisi del dipinto.
  • R: Il nostro Istituto, dopo avere restaurato l’opera nel 1972, ne monitora da anni il comportamento della tavola, con rilevamenti continuativi ogni quindici minuti. Il nostro ruolo di fisici esperti in conservazione ambientale è quello di chiarire gli aspetti tecnici a coloro che poi –architetto o storico dell’arte che sia- hanno la capacità di sintetizzare ciò che la strumentazione con la quale noi lavoriamo ci offre, cioè noi analizziamo l’opera al meglio per fornire al collega restauratore la possibilità di operare sulla base delle informazioni che abbiamo ricavato, a partire dalle condizioni del supporto.

R: Ecco vedi, quando all’inizio ti parlavo della grande attualità dell’Istituto a 80 anni dalla sua nascita intendevo proprio questo, cioè la grande capacità di costituire gruppo interdisciplinare, di far interagire tutte le professionalità, nella considerazione che ogni cantiere è obbligatoriamente posto sotto la conduzione dello storico; e credo che questa possa essere in buona misura la risposta ai dubbi che avanzavi sul rischio di ridimensionamento del ruolo e della funzione dello storico dell’arte. Se pensiamo all’ICR vediamo proprio che lo scienziato o il restauratore arriva oggi con una preparazione non solo in storia dell’arte ma anche in storia del restauro. Mettere la sua competenza e la sua scienza anche storica in una condizione accessoria, subordinata alla direzione di uno storico dell’arte, è una deontologia di distinzione convenzionale dei ruoli, anche tra competenze condivise. E’ un ordine culturale che crea una condizione di operatività ottimale. Le nostre stesse tesi di laurea, non sono mai lavori individuali del laureando, come in molte discipline umanistiche o giuridiche; sono l’esito di un lavoro di gruppo.

Quindi in Istituto tutti contribuiscono con le loro specificità professionali ma non isolatamente, è così? Ma quali potrebbero essere i guasti adottando una logica differente.

R: Le scienze da sole sono sempre pericolose, perché ricostruiscono irresistibilmente dei simulacri di interpretazione storica e critica, ma debordando impropriamente e presuntivamente dalla specificità delle proprie conoscenze.

Vorrei insistere ancora sul tema della diagnostica applicata alle opere d’arte; tu certamente sarai al corrente di come questo tipo di indagini siano oggi sempre più all’ordine del giorno per quanto riguarda lo studio di opere attribuite o ritenute di possibile mano di Caravaggio, al punto che a volte bastano tre incisioni e un paio di pentimenti per gridare al miracolo di un ritrovamento anche quando si è palesemente  lontani. Questo rischio di una utilizzazione superficiale –quando non scorretta a bella posta- dello strumento diagnostico non può comportare il forte rischio dello svuotamento degli studi e delle ricerche?

R: Ti rispondo che hai ragione nel sollevare queste perplessità e che dunque occorre comportarsi con la massima attenzione e cautela da parte dello storico dell’arte, che per contro deve necessariamente avere la più approfondita contezza anche delle pratiche diagnostiche, le deve conoscere, deve saperle interpretare, e in ogni caso è sempre dall’occhio che non si può mai prescindere. Un occhio consapevole della materia nella sua qualità fisica; della tecnica nella sua qualità storica e artistica. La tecnica è linguaggio, storico e individuale ad un tempo. Materia e tecnica sono elementi imprescindibili dell’interpretazione storico artistica. Ti faccio un esempio che mi ha visto personalmente coinvolto, e risale a quando si stavano restaurando gli affreschi della Loggia di Psiche, alla Farnesina; sul cantiere si poteva vedere come la situazione fosse piuttosto compromessa, anche perché le pitture furono a lungo esposte all’aria aperta, quindi molti passaggi esecutivi si erano perduti e scoloriti; tuttavia salendo sull’impalcatura, stando dentro la materia dell’opera, perfino nel suo degrado, potevano vedersi fasi dell’esecuzioni che le stesse perdite di materia riportavano alla vista, essendo perdute molte rifiniture. Vi erano punti in cui la perdita delle rifiniture svelava momenti esecutivi in cui la conduzione del pennello appariva di una qualità così vertiginosa  da rivelare che in quei punti il pennello era stato tenuto da una mano superlativa in cui non potevi che riconoscere quella di Raffaello, e la cosa curiosa era che queste parti non erano quasi mai i volti –che si potevano presumere essere le parti privilegiate, condotte con maggior attenzione, dalla mano del maestro- invece no, quei punti erano apparentemente accessori, ma cruciali, magari lo snodo di un polso o altri particolari apparentemente meno determinanti. E invece si capiva essere quelli decisivi alla vitalità della forma nello spazio. Per dire dell’importanza decisiva dell’occhio, in una osservazione interna dell’opera o di ciò che ne resta dagli accidenti del tempo e delle sue vicende.

  • Mi dai lo spunto per chiedere ancora a Carlo Cacace se le tecniche usate per analizzare nel nostro caso la Deposizione Baglioni, cioè una tavola, abbiano la stessa valenza scientifica nell’analisi di altri supporti, ad esempio l’affresco, o la tela e così via, oppure se non ci sono altri percorsi da seguire.
  • R (Carlo Cacace): Faccio riferimento alla nostra esperienza. Innanzitutto occorre conoscere bene quale tecnica è stata seguita nella realizzazione dell’opera, intendo dire la tecnica esecutiva che è competenza del restauratore; noi utilizziamo macchinari che ci danno determinate risposte che poi ovviamente occorre interpretare; lo strumento diagnostico occorre conoscerlo bene naturalmente, per poi applicarlo a seconda del supporto e non è precisamente la stessa identica cosa avere di fronte un tipo di supporto piuttosto che un altro perché cambiano le modalità di utilizzo.

R: Ecco, per tornare alla tua domanda iniziale sul primo anno della mia esperienza qui all’Istituto puoi capire perché ho parlato di coalescenza, le risposte di Carlo Cacace mi pare siano state esaurienti circa l’attività di diagnostica sull’opera estesa nel corso del tempo. Ma vorrei chiarire un’altra cosa in relazione al prossimo convegno, e cioè che si tratta della presentazione di un progetto di indagini dirette sull’opera di Raffaello progettate in proprio dalla Galleria Borghese. Questa è una prova del funzionamento della centralità dell’ICR, che integrerà le proprie conoscenze sull’attività eseguita autonomamente dalla Galleria. E così funziona nei rapporti con Soprintendenze o musei non solo italiani, ma Europei o esteri. L’istituto non è un’entità esclusiva e direttori di musei come soprintendenti sono assolutamente in grado per la propria professionalità di intraprendere le iniziative diagnostiche che ritengono necessarie e valide; il nostro compito è recepirne i modi e i risultati, discuterne, se necessario, valutarne gli esiti e assumerne gli elementi che risultassero validi per restituirli ad altri luoghi della geografia culturale come proposte di applicabilità. Un centro appunto, che recepisce la molteplicità della ricerca e la diffonde.

P d L Roma settembre 2019