di Nica FIORI (foto di Francesca LICORDARI)
La Roma dei Re, in mostra ai Musei Capitolini
I misteri relativi ai primi secoli di Roma sono così fitti e ingarbugliati che già i primi studiosi che si interessarono alla storia delle origini (Varrone, Livio, Plutarco), facevano non poca fatica nel cercare la verità tra le numerosissime leggende che si erano sovrapposte negli anni, prima fra tutte quella della mitica fondazione (753 a.C.) da parte di Romolo, in seguito alla contesa fratricida con il gemello Remo. I gemelli, figli di Rea Silvia e del dio Marte, sarebbero stati allattati in una grotta ai piedi del Palatino da una lupa, animale che sarebbe diventato uno dei simboli della città. Questa tradizione mitostorica non coincide sempre con i dati a nostra disposizione e i re probabilmente furono più di sette, così come i colli, ma venne scelto quel numero per la sua valenza simbolica nei secoli successivi all’età regia.
La mostra La Roma dei Re, che si tiene nei Musei Capitolini dal 27 luglio 2018 al 27 gennaio 2019, inaugura un ciclo di esposizioni che ha come sottotitolo Il racconto dell’archeologia, come ha precisato il Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali Claudio Parisi Presicce, curatore della mostra insieme a Isabella Damiani: esposizioni che si prefiggono di far capire non solo la topografia e l’architettura della città antica, ma anche la società che si è andata sviluppando nel territorio con i suoi cambiamenti epocali.
Il periodo regio di Roma e la sua affermazione nel territorio circostante viene raccontato in questo caso attraverso materiali archeologici poco conosciuti e spesso inediti.
Ben 840 oggetti recuperati dai magazzini e riassemblati con quelli frutto di scavi recentissimi contribuiscono a restituire un quadro della città dal 1000 a.C. al 500 a.C., partendo in realtà da quest’ultima data, ovvero con un percorso a ritroso nel tempo che dà l’idea degli scavi stratigrafici, da quelli più superficiali a quelli più profondi, e quindi più antichi.
La prima sezione è dedicata ai Santuari e palazzi della Roma regia. Nella prima sala troviamo forse i manufatti più vistosi dell’intero percorso, relativi all’area sacra di Sant’Omobono, prossima alle pendici del Campidoglio e a due passi dall’isola Tiberina, là dove il Tevere offriva un facile guado, permettendo così gli scambi commerciali con gli Etruschi stanziati a nord del Tevere. Ricordiamo che nei pressi c’era il vicus Tuscus, così chiamato dagli emigrati dall’Etruria che vi si erano stanziati, probabilmente in seguito all’ascesa al potere dei re etruschi, ovvero Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Dal 1937 ad oggi si sono succeduti qui scavi e saggi che hanno portato all’individuazione di numerose terrecotte architettoniche dipinte,
che decoravano il cosiddetto tempio arcaico (metà del VI secolo a.C.), o forse due templi gemelli, visto che nel IV secolo a.C. vi si sovrapposero i templi gemelli della Fortuna e della Mater Matuta (la Madre del Mattino, della prima luce e quindi delle nascite). Ammiriamo in particolare elementi decorativi e di copertura del tetto e decori frontonali con i due gruppi scultorei di Eracle e Atena e di Dioniso e Arianna.
Una testa femminile, prestata dalla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, potrebbe appartenere proprio a questo secondo gruppo. Quanto ad Eracle, è raffigurato mentre viene presentato all’Olimpo da Atena in seguito alla sua divinizzazione. Il suo culto a Roma ha origini antichissime perché, secondo una tradizione, ancora prima della fondazione della città, si trovò a passare sulle rive del Tevere con una mandria di buoi. Mentre egli dormiva, il gigante Caco glieli rubò. Ercole uccise il ladrone e allora il mitico re Evandro, grato all’eroe per aver liberato il luogo dal gigante, gli dedicò un’ara nel Campo Boario.
L’apparato decorativo principale del tempio è esposto per la prima volta all’interno di uno spazio frontonale (evidenziando due diverse fasi, delle quali la più recente è maggiormente conservata), secondo una proposta ricostruttiva che rimanda ad ambito greco e magno-greco.
È stata possibile una nuova lettura dei gruppi figurati e delle lastre decorative grazie ai recenti ritrovamenti da parte dell’Università della Calabria e di quella del Michigan. È stato recuperato, tra le altre cose, il cimiero di Atena e parte dello scudo.
Appartengono pure alla prima sezione alcuni esempi di terrecotte, ceramiche, ex voto e altri rinvenimenti
relativi all’area del Foro Romano (vi è pure un calco del famoso Lapis Niger con la sua iscrizione arcaica bustrofedica) e lungo le pendici della Velia e delle Curiae Veteres verso il Colosseo.
Tra i reperti più interessanti ritrovati alle pendici nord orientali del Palatino e prestati dal Parco archeologico del Colosseo, ve ne sono alcuni che appaiono relativi a riti e culti ancestrali, come i crani che probabilmente dovevano essere esposti ritualmente come trofei, perché presentano delle forature funzionali.
Decisamente impressionante è il cranio incompleto di un uomo adulto (VII-VI secolo a.C.), mentre due crani di bue (600-450 a.C.), uno di piccola taglia e uno grosso, con le corna spezzate, fanno pensare che potessero essere alla base del motivo del bucranio, che tanto successo avrebbe avuto in epoca tardorepubblicana e augustea, abbinato a festoni di fiori e frutti, e che troviamo in particolare nella decorazione del Mausoleo di Cecilia Metella sulla via Appia, chiamato in epoca medievale Capo di Bove.
La seconda sezione è dedicata ai Riti sepolcrali a Roma tra il 1000 a.C. e il 500 a.C., con i corredi tombali dalle aree poi occupate dal Foro Romano, e dai fori di Cesare e di Augusto.
Nelle deposizioni nelle quali era utilizzato il rito della cremazione, poteva esserci la miniaturizzazione degli oggetti di corredo, come pure l’utilizzo di urne per le ceneri a forma di capanna, che richiamano le abitazioni dell’epoca.
A Roma la cremazione cederà in seguito il posto all’inumazione, che prevedeva la deposizione del defunto accompagnato dagli oggetti di corredo entro una fossa circondata da pietre. L’utilizzo di sarcofagi è documentato da un esemplare di terracotta dell’VIII secolo a.C. e uno in tufo databile al VI, che si pongono come gli antecedenti della modalità di sepoltura entro mirabili sarcofagi di marmo, che avrà vita lunghissima.
L’uso di seppellire cadaveri di bambini a protezione di un santuario, o anche di una casa (sotto le grondaie), era legato al fatto che i bambini erano ritenuti innocenti, e quindi portatori di bene. Troviamo in mostra gli scheletri di neonati ritrovati entro olle; uno di essi era collocato in posizione fetale ed è morto, probabilmente poco dopo la nascita, per qualche malattia, che forse potrebbe essere individuata prossimamente con un’analisi del DNA.
Il plastico di Roma arcaica, realizzato dall’archeologo Lorenzo Quilici e da Elenio Samperna è il fulcro della sezione intitolata L’abitato più antico: la prima Roma,
con l’illustrazione di nuove testimonianze dell’età del ferro (950-720 a.C.), rinvenute nello scavo alle pendici nord-orientali del Palatino, appena conclusosi nel maggio 2018. Le capanne dell’epoca, conservate solo in minima parte per i successivi interventi edilizi di età imperiale, prevedevano pali centrali portanti per il tetto, e focolari in terra battuta. A queste prime fasi appartiene anche una probabile tomba infantile entro un dolio, rinvenuto coricato e inzeppato di grandi pietre. Altri oggetti e contesti provengono dalla necropoli dell’Esquilino e da altri sepolcreti romani.
Un altro tema trattato è quello degli Scambi e commerci tra età del Bronzo ed età Orientalizzante (1150 a.C. – 620 a.C. circa). Le testimonianze più rilevanti dell’esistenza di scambi, traffici e commerci tra età del bronzo ed età orientalizzante provengono dal Campidoglio, dal Foro Boario e soprattutto dalla necropoli dell’Esquilino, uno dei complessi più importanti della Roma arcaica, esplorato alla fine del 1800, purtroppo in maniera approssimativa per l’esigenza di costruire un nuovo quartiere abitativo. Come scrisse Rodolfo Lanciani nel Bullettino Comunale (1875), “Que’ lavori di escavazione furon condotti non già con sistema regolare, e per iscopo scientifico, ma sibbene secondo l’economia delle leggi edilizie”.
Per la prima volta è esposta una significativa e consistente scelta di oggetti della necropoli dell’Esquilino (in particolare dalla tomba 125), esemplificativa per quantità e tipologia delle importazioni attestate a Roma nel corso del VII secolo, con vasellame proveniente dalla Grecia e dalle prime colonie greche lungo la costa tirrenica, insieme a straordinarie rielaborazioni o creazioni delle fabbriche locali e dei centri etruschi.
Vengono quindi presi in esame gli Indicatori di ruolo femminile e maschile, con una ricostruzione dei ruoli e delle figure sociali che caratterizzano lo sviluppo delle comunità romane attraverso il potenziale illustrativo di corredi e oggetti, provenienti in massima parte sempre dalla necropoli dell’Esquilino. Segnaliamo in particolare la sepoltura di un guerriero con scudo e carro da guerra.
Le sezioni successive, dedicate agli Oggetti di lusso e di prestigio e ai Corredi funerari “confusi”, si collegano alla sezione precedente e suggeriscono la ricchezza originaria della necropoli dell’Esquilino, in buona parte perduta. Inoltre, dal punto di vista della conoscenza archeologica, testimoniano quali sono i danni provocati dall’assenza di una corretta metodologia della ricerca.
La mostra, ospitata a Palazzo Caffarelli, prosegue con un ulteriore approfondimento nel Palazzo dei Conservatori, presso i resti del Tempio di Giove Capitolino. Alcuni ritrovamenti sono relativi agli scavi recentissimi nel Giardino romano dei Musei Capitolini. Sono esposte in particolare delle vere di pozzo circolari in terracotta, senza decori, che attestano nel Campidoglio l’approvvigionamento idrico mediante pozzi di diversa profondità già nel VII-VI secolo a.C.
Altre vetrine, facenti parte del percorso museale, illustrano la “Grande Roma dei Tarquini”. Un oggetto rinvenuto nell’area di Sant’Omobono, in particolare, colpisce la nostra attenzione: si tratta di un raffinato bassorilievo in avorio raffigurante un leoncino, che reca sul retro un’iscrizione etrusca, a testimonianza della frequentazione di quest’area da parte di commercianti stranieri. Se prima dei Tarquini la città era poco più di un agglomerato di capanne di legno e fango, con i sovrani etruschi la città diventa un importante polo di attrazione per gli artisti e i tecnici delle città vicine;
si pensi alla sistemazione idraulica del Foro attribuita dalla tradizione a Servio Tullio con il prosciugamento della palude e alla canalizzazione della Cloaca massima, nonché alla venuta di Vulca di Veio, uno degli artisti più rinomati, per la statua di Giove del tempio Capitolino.
Le figure dei Tarquini fluttuano tra la storia e la leggenda, ma effettivamente deve essere esistito un sovrano tirannico con il quale si chiuse a Roma il periodo regio e il cui ricordo fu conservato talmente a lungo e nello stesso tempo talmente aborrito da evitare poi per sempre il titolo di re. Ma nonostante questa avversione, che portò alla cacciata di Tarquinio il Superbo da Roma (509 a.C.) e all’instaurazione della Repubblica, già qualche storico antico riconosceva che l’influsso dei Tarquini non si limitò al campo artistico o urbanistico, ma furono gettate le basi dell’ordinamento sociale, fondamento di quella che siamo abituati a considerare come civiltà romana.
Nica FIORI Roma 28 luglio 2018