di Nica FIORI
Uno dei monumenti più celebri della Roma imperiale è la Colonna Traiana, il cui rilievo spiraliforme, che si estende lungo il fusto per una lunghezza lineare di quasi 200 metri, illustra in 155 scene le imprese belliche dell’imperatore Traiano, il conquistatore della Dacia, corrispondente in gran parte all’attuale Romania e alla Moldavia. È proprio un bellissimo calco a colori di una scena della spettacolare Colonna, accanto a un ritratto dello stesso Traiano e a una testa di prigioniero Dace, a introdurre la mostra “Dacia. L’ultima frontiera della Romanità”, ospitata nelle maestose Aule delle Terme di Diocleziano.
La mostra, a cura di Ernest Oberlander, direttore del Museo Nazionale di Storia della Romania (MNIR), e di Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano, è la più grande e prestigiosa esposizione di reperti archeologici organizzata dalla Romania all’estero negli ultimi decenni e ripercorre lo sviluppo storico e culturale, dall’VIII secolo a.C. all’VIII d.C., di un importante territorio che, oltre alla posizione strategica tra il Danubio e il Mar Nero, vantava la presenza di ricche miniere d’oro.
Un oro che letteralmente abbaglia i visitatori, grazie a un nucleo consistente di produzioni di altissimo livello, tra le quali spicca indubbiamente l’Elmo di Coțofenești (metà del V secolo a.C.), un principesco copricapo geto-dacico, forse di un re-sacerdote, scelto come immagine guida della mostra.
Scoperto nel 1929 nell’omonima località della Romania, questo oggetto non doveva avere una funzione pratica, bensì ornamentale o religiosa: è decorato, infatti, sui paraguance con la rappresentazione del sacrificio rituale di un agnello e sul paranuca con animali fantastici tipici dell’arte orientale e greca, quali grifi e sfingi. Sulla fronte sono incisi due occhi, che dovevano probabilmente avere una funzione apotropaica per proteggere il proprietario dal male e allo stesso tempo spaventare il nemico.
Un altro reperto singolare che sicuramente ammalia i visitatori della mostra è il serpente Glykon, proveniente da Tomis (Costanza), la località sul Mar Nero dove andò in esilio il poeta Ovidio e dove nel 1962 venne scoperto per caso un gruppo di 24 sculture romane che erano state depositate in una fossa, probabilmente per proteggerle da un attacco alla città o dalla nuova religione cristiana.
Glykon (nome che letteralmente potrebbe essere tradotto con “Dolcino”) viene menzionato da Luciano di Samosata nel suo libro Alessandro o il falso profeta (post 180 d.C.), nel quale racconta con brillante ironia la vita del mago Alessandro di Abonutico, che si avvaleva di un grande serpente ammaestrato per aumentare la credibilità del dio oracolare Glicone, presentato come l’incarnazione di Asclepio, il dio della medicina. Il culto di questo serpente doveva essere popolare nel mondo romano del II sec. d.C., come dimostrano fonti numismatiche ed epigrafiche, ma la statua di Tomis è l’unica di grandi dimensioni finora pervenuta e ritrae la divinità come un animale fantastico con orecchie e capelli umani, testa di pecora, corpo di serpente e coda di leone. Questa affascinante scultura è considerata un’opera iconica dell’antica Romania, tanto da essere stata riprodotta in un francobollo romeno e perfino in una banconota.
L’esposizione, ricca di ben 1000 oggetti provenienti da 47 musei romeni, dal Museo Nazionale di Storia della Repubblica di Moldova e dal Museo Nazionale Romano, evidenzia le consistenti tracce della romanità, ma anche tanti altri elementi culturali di una terra, compresa tra il Danubio e il Mar Nero, che è sempre stata punto di incrocio tra Oriente e Occidente. Tra i diversi popoli attirati in quest’area ricordiamo gli Sciti che venivano dalle steppe orientali, i Traci dai Balcani, i Celti dall’Europa centrale, i Germani dal nord e i Greci che avevano fondato città sulla costa occidentale del Mar Nero (ricordiamo in particolare Bisanzio che, a partire dal IV secolo d.C., sarà prescelta per divenire la nuova capitale dell’impero romano), e poi non dobbiamo dimenticare le invasioni barbariche, come quella degli Unni, che venivano dall’Asia.
Il filo conduttore della mostra è proprio quello dell’intreccio di culture e della loro influenza reciproca, delle profonde trasformazioni, delle migrazioni e delle lotte che hanno portato a forgiare l’identità culturale di un territorio percepito come “l’ultima frontiera della romanità”, un luogo dove è sopravvissuto fino ad oggi, nonostante le complesse vicissitudini storiche, il nome di Roma.
In un certo senso i Romeni di ora si sentono discendenti dei Romani conquistatori, forse più che dei Daci, un popolo di guerrieri che nel I secolo a.C., sotto la guida del re Burebista, aveva formato un forte regno autonomo, che rappresentò una minaccia per Roma. Dopo essere riusciti a sconfiggere Domiziano, i Daci non riuscirono a fare altrettanto con Traiano che avviò nel 101 una guerra di conquista – divisa in due campagne – che culminò nel 106 con la morte del re dace Decebalo, suicidatosi per non cadere schiavo dei Romani. Con i proventi delle guerre daciche a Roma venne eretto il Foro di Traiano, progettato da Apollodoro di Damasco, e numerose statue di prigionieri Daci ornarono il grandioso complesso.
La maggior parte dell’area conquistata da Traiano formò la provincia della Dacia, mentre il resto andò alla Mesia inferiore. L’esercito, l’amministrazione e i coloni influirono sulla trasformazione della Dacia in una provincia romana, ma le incursioni barbariche del III secolo costrinsero l’imperatore Aureliano ad abbandonarla nel 272. Nonostante ciò, i residenti continuarono a usare il latino, mentre nella Mesia si preferiva il greco. Come evidenziato nel focus “Scripta manent …”, alcuni documenti epigrafici e le tavolette cerate di Alburnus Maior, un’importante città mineraria al centro del cosiddetto “Quadrilatero aurifero” nei Monti Pausini, forniscono notizie precise sulla realtà economica, sul sistema abitativo, sulla vita religiosa e sui rapporti giuridici che governavano la comunità.
È difficile stimare la quantità d’oro estratto in Dacia durante la sua appartenenza all’impero romano, ma certo essa contribuì a risanare le dissestate finanze di Roma per almeno un secolo e mezzo. Come in tutte le province romane, le città vennero dotate di fori con templi e basiliche e di edifici per gli spettacoli (è in mostra un rilievo marmoreo con il gladiatore Skyrtos il Daco, proveniente da Tomis); si svilupparono, inoltre, produzioni locali di beni di consumo, che valorizzavano le specificità delle tecniche e delle decorazioni locali, mentre alcuni prodotti di lusso venivano importati da altre province.
Sono in mostra diverse statue in marmo della “cultura romana provinciale”, relative alle divinità della religione ufficiale, come pure a quelle dei culti orientali che nel II-III secolo erano ampiamente diffusi in tutto l’impero. Accanto a una statua del tipo dell’Ercole Farnese, a una statua di Venere, a una statua di Liber Pater (Bacco) e all’Apollo citaredo, troviamo in mostra un rilievo con il dio Silvano e le Nove Silvane (ninfe silvestri), una statua di Mitra petrogenito e un rilievo con la tauroctonia mitraica, un busto di Iside, oltre a numerosi manufatti in bronzo di diverse divinità che si amalgamavano secondo un singolare sincretismo, tra cui Giove Dolicheno e i poco noti Cavalieri Danubiani, il cui culto dal carattere iniziatico sembra svilupparsi e diffondersi tra le multietniche schiere dell’esercito romano in età tardo imperiale.
Lo sfondo raffigurato in diversi oggetti dell’arte provinciale romana è quello classico dei miti greci e dei poemi epici, ma non mancano decori zoomorfi o di altro tipo. Anche in quest’ambito compare l’oro, come nelle placchette votive del II secolo d.C. rinvenute nelle sorgenti termali di Germisara, dedicate alle divinità guaritrici del luogo Igea e Diana salvifica. Sono invece di bronzo dorato un’applicazione raffigurante la Gorgone Medusa e una statuetta raffigurante la Vittoria (probabile decoro di un carro), provenienti entrambe dalla Colonia Ulpia Traiana Sarmizegetusa Dacica, la capitale della Dacia conquistata da Traiano.
Dopo la prima parte dedicata alla Dacia romana (II e III secolo), la mostra prosegue con la sezione relativa alla tarda Età del Ferro, che vide diversi cambiamenti dinamici nella cultura materiale (bronzi, ceramiche, manufatti in pietra) dell’attuale territorio della Romania, abitato all’epoca dai Traci settentrionali. In questo periodo le popolazioni locali dell’Europa centrale e meridionale combattevano a piedi, usando lance, pugnali, asce a doppio taglio e spade corte, corazze ed elmi di cuoio. Ma scoperte archeologiche relative al VII-VI secolo a.C. hanno evidenziato l’affermarsi di una élite di guerrieri a cavallo che usavano arco e frecce.
I cavalli diventano con loro un elemento determinante dello status sociale e vengono dotati di ricchi finimenti in bronzo, argento e oro. Spesso questi cavalli accompagnavano i loro proprietari nelle tombe come simbolo del loro stile di vita aristocratico.
Una caratteristica originale della civiltà dei Traci settentrionali, inclusi i Geti, era la credenza che i cavalli riccamente ornati, soprattutto nella testa, acquisissero poteri soprannaturali. Del resto la credenza nel soprannaturale e nella magia è sempre stata tipica di questa terra, tanto che la mostra espone anche calderoni e oggetti che rimandano a pratiche di magia nera.
Il culmine della civiltà getica si ha tra il 350 e il 250 a.C., quando i Geti entrano maggiormente in contatto con il regno di Macedonia e con quello ellenistico di Alessandro Magno. In questo periodo gli oggetti di prestigio (tra cui elmi, finimenti, vasi), che prima erano realizzati in argento, cominciano a diventare ancora più lussuosi con l’introduzione dell’oro, come documentato in mostra da alcuni reperti del corredo funerario principesco di Peretu (II metà del IV secolo a.C.), tra cui una bella testa caratterizzata dalla bicromia oro e argento.
Tra le varie popolazioni prese in esame troviamo anche quella dei Bastarni, una popolazione di origine germanica, alleata del re macedone Filippo V contro i Romani e in seguito dei Daci contro i Romani, e quella dei Celti orientali, che effettuavano spostamenti ad ampio raggio geografico con le loro famiglie. Uno dei reperti più spettacolari della mostra è un elmo di un guerriero celtico che ha come cimiero un sorprendente uccello ad ali spiegate, proveniente da una tomba del III-inizio II secolo a.C. di Ciumesti. Da una tomba femminile pure celtica dello stesso periodo proviene una selezione di oggetti, tra cui pezzi di monili in vetro fenicio che erano tanto apprezzati nel mondo antico.
Proseguendo nell’itinerario espositivo si arriva all’epoca della disgregazione dell’Impero, con le difficoltà a mantenere sicuri i confini, le mescolanze di genti e le invasioni di popoli barbarici come i Goti e gli Unni, mentre il potere di Roma si sposta a Oriente con Costantinopoli. Una parte di questa sezione evidenzia il ruolo della cristianizzazione e della diffusione della lingua latina, punti forti dell’eredità di Roma che preannunciano la Romania attuale.
La mostra, suddivisa in 4 sezioni, è caratterizzata dalla presenza di pannelli esplicativi e di grandi illustrazioni a colori sulle attività e l’aspetto dei diversi popoli. L’allestimento è abbastanza gradevole, ma le didascalie risentono di una cattiva traduzione e non sempre sono ben leggibili.
Man mano che si procede nella visione dei reperti in mostra, molti dei quali esposti per la prima volta in Italia, ci si rende conto della straordinaria ricchezza di manufatti in argento e soprattutto in oro, che venivano martellati a freddo come se si trattasse di ferro, per ottenere bellissimi effetti scultorei. Non si tratta solo di tipici gioielli antichi, come diademi, collane, fibbie, anelli, ma anche di piatti, elmi, finimenti per cavalli, ex-voto.
Straordinari per peso e fattura sono i famosi bracciali spiraliformi di Sarmizegetusa, realizzati nel II-I secolo a.C. e decorati con palmette e draghi alati. Ma gli oggetti più preziosi in assoluto sono la patera (ampio piatto usato nei riti religiosi) raffigurante divinità funerarie greco-romane e la coppia di fibulae a forma di aquila del tesoro di Pietroasele (chiamato popolarmente “La gallina dai pulcini d’oro”) del V secolo d.C., appartenenti alla cultura della confederazione unnica. Questi oggetti, insieme ad altri cronologicamente affini (come il diadema proveniente da Gheraseni), sono spettacolari per il cromatismo dovuto all’uso di pietre colorate.
Altri gioielli, come quelli delle tombe principesche gepidiche di Apahida (V secolo), sono invece caratterizzati dall’uso della tecnica della decorazione a smalto (cloisonné). Interessante dal punto di vista storico è la presenza di un lingotto d’oro con ritratti imperiali del IV secolo (oggetto rarissimo perché se ne conservano pochissimi di età antica, quasi tutti provenienti dalla Romania).
Se si esclude qualche tomba principesca, la maggior parte dei reperti preziosi sono stati ritrovati in “ripostigli” ben nascosti, ove evidentemente erano stati collocati per sottrarli a un possibile furto. Furti che sicuramente ci sono stati e continuano a esserci. Nel 2015, in base alla convenzione UNIDROIT sui beni culturali, il Museo Nazionale di Storia della Romania ha potuto recuperare 20 manufatti in argento del II-I secolo a.C. che, dopo essere stati scavati ed esportati illegalmente, erano apparsi sul mercato estero.
Al di là della bellezza di molti oggetti esposti, che, così come avevano affascinato gli antichi, incantano i visitatori di oggi, la mostra vuole colmare un vuoto sulle nostre conoscenze del patrimonio culturale dell’antica Dacia, quasi sconosciuto malgrado l’immigrazione di moltissimi romeni nel nostro paese. Come ha dichiarato il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano nel corso dell’inaugurazione:
“L’Unione Europea non può reggersi solo su una architettura giuridica e sul mercato unico, che pure sono importantissimi, ma deve ritrovare e valorizzare le radici etiche, culturali e religiose comuni. La mostra sull’antica Dacia ci ricorda il glorioso passato che ci lega alla Romania”.
Nica FIORI Roma 26 Novembre 2023
“Dacia. L’ultima frontiera della Romanità”
20 novembre 2023 – 21 aprile 2024
Museo Nazionale Romano – Terme di Diocleziano. Via E. De Nicola 78 – Roma
Orari: dal martedì alla domenica ore 9.30 – 19.00 (la biglietteria chiude alle ore 18.00)