di Luca CALENNE
Orazio Zecca e l’arte del Lazio meridionale nella prima metà del Seicento
«Mediocri… ovunque siate… io vi assolvo!»
Con questa battuta, pronunciata da un vecchio ma ancora rancoroso Antonio Salieri, si conclude l’intensa pièce teatrale Amadeus di Peter Shaffer, ma tutti ne ricordiamo la strepitosa versione cinematografica di Miloš Forman. La benedizione finale messa in bocca al compositore italiano – risentito per essere stato eclissato alla corte viennese dall’astro di Wolfang Amadeus Mozart – assume i caratteri della rivalsa tardiva di chi non è riuscito ad entrare nei libri di storia soltanto con il suo duro lavoro e con il suo onesto mestiere, perché privo di quel carattere di genialità che da sempre mette d’accordo la critica e il grande pubblico.
Beninteso, Salieri fu un ottimo musicista, assai celebrato al suo tempo, e la sua segreta invidia per il più giovane collega austriaco è probabilmente un’invenzione letteraria di Puškin, ma ormai un’aura di presunta mediocrità ha avvolto questo personaggio, trasformandolo in un minore, degno di attenzione soltanto da parte dei suoi concittadini di Legnago o di barbosi specialisti. La stessa cosa è capitata a più di un pittore! In effetti, fin dai ai tempi di Giovan Pietro Bellori la parola “mediocre” sembra non avere diritto di cittadinanza nella narrazione della storia delle arti, in cui viene data la massima visibilità – oggi più che mai – solo ai campioni assoluti: Mozart, Beethoven, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio, Van Gogh…
Ovviamente le cose non stanno così, sia in campo musicale che in quello delle arti figurative, anzi, proprio ai mediocri, cioè alle figure di secondo piano (ma anche di terzo o quarto) è spettato sempre il compito di realizzare quel basso continuo, ovvero quel sottofondo su cui si sono stagliati gli assoli e gli acuti dei grandi maestri, nonché il compito di diffondere le loro invenzioni, contribuendo così non poco alla loro affermazione. La cosa era chiarissima già nel 1796 all’abate Luigi Lanzi, il quale in quell’insuperato testo che è la Storia pittorica dell’Italia dal Risorgimento delle belle arti al fine del XVIII secolo sottolineò come soltanto investigando i rapporti tra il centro e la periferia, tra i maestri e i loro continuatori, tra i «capiscuola» ed i cosiddetti «mediocri», sia possibile
«dare a queste cose quella che da Orazio fu detta series et iunctura, senza la quale non può essere né dirsi storia».
Forti di questo autorevole viatico, i curatori dell’Archivio storico diocesano “Innocenzo III” di Segni hanno organizzato il 3 luglio, nella suggestiva cornice del Granaio Borghese di Artena, una giornata di studi dedicata al pittore Orazio Zecca, di cui questo anno ricorre il quarto centenario della morte (10 luglio 1622 – 10 luglio 2022), con un duplice ambizioso proposito [fig. 1]. Infatti, oltre a portare nuovi dati sul suddetto pittore (originario di questo piccolo centro a sud di Roma) che seppe farsi largo anche nel competitivo ambiente artistico romano, il convegno si prefiggeva di gettare una nuova luce su una serie di pittori pressoché sconosciuti, attivi nel Basso Lazio nel Seicento, per avviarne la riscoperta critica, analogamente a quanto è successo per Orazio Zecca nel 2010 grazie a un libro di Luca Calenne, che ha ricostruito la sua attività non solo nella sua patria, ma anche a Roma e a Zagarolo [fig. 2].
Questo convegno dunque può considerarsi un primo passo per smettere di considerare la provincia solamente come un territorio di conquista per gli artisti romani, e il riconoscimento che esisteva un vivace mercato artistico interno a cui contribuivano soprattutto numerosi artisti locali, i quali non di rado riuscivano persino ad approdare a Roma: tralasciando grandi nomi come Sebastiano Conca o il Cavalier d’Arpino, basterà pensare ad esempio a Marco Tullio Montagna di Velletri o a Carlo Ascenzi di Genazzano [fig. 3].
Cinque studiosi hanno indagato con tenacia e acribia filologica la vita e l’opera di alcuni di questi oscuri artisti, fornendo di ognuno una base di dati documentari e un piccolo corpus di opere, che confluirà in un primo repertorio dei pittori del Seicento del Lazio Meridionale, che sarà parte integrante degli Atti di questa giornata. Per impostare correttamente questa operazione l’archivio “Innocenzo III” ha chiesto e trovato la preziosa collaborazione del Professor Massimo Moretti, a cui è affidata la cattedra di Storia dell’Arte di Roma e del Lazio presso il Dipartimento di Storia dell’Arte dell’Università “La Sapienza” di Roma [fig. 4].
A lui è spettata un’introduzione metodologica con la quale si sono aperti i lavori del convegno, che lui ha presieduto con la consueta generosità, plaudendo l’iniziativa e offrendo molteplici spunti di riflessione. Non si può che concordare sulle linee guida indicate da Moretti: anche i fatti di questi artisti minori meritano l’attenzione dello storico, così come quelli degli operai senza nome che costruirono la città di Tebe (ai quali Brecht dedicò una famosa e toccante poesia), o come le eterodosse letture del mugnaio friulano Menocchio (di cui si è occupato Ginzburg ne Il formaggio e i vermi), purché non si scivoli in una storiografia localistica, cronachistica e autoreferenziale. Al contrario, tali fatti devono necessariamente essere inseriti in un contesto più ampio, e inoltre vanno affrontati con lo stesso rigore metodologico riservato agli artisti maggiori, come appunto si cerca di fare con questo convegno.
Federico De Martino ha presentato un panorama della pittura corese del XVII secolo [fig. 5], ricca anche di illustri presenze forestiere (Anastagio Fontebuoni, Giovan Battista Ricci, Il Cavalier d’Arpino), riunendo alcune opere attorno alla personalità ancora misteriosa di un maestro locale, da lui battezzato “Maestro di Cori”.
A un esame approfondito, le scelte stilistiche di questo maestro – decisamente attardate su modelli cinquecenteschi – appaiono imputabili non tanto ad una presunta incapacità tecnica, quanto ad una committenza locale interessata soprattutto alla capacità dei dipinti di veicolare i contenuti religiosi («L’arte senza tempo» della Controriforma cattolica, di cui scrisse Federico Zeri).
Camilla Zuliani ha illustrato il ciclo pittorico del palazzo Marchetti Colonna di Olevano, individuando tutte le fonti iconografiche, ovvero le incisioni del XVI secolo, che il suo autore ha utilizzato per realizzarlo, secondo un modus operandi piuttosto comune in contesti provinciali. Pur in assenza di un’altra opera di confronto, risulta plausibile l’ipotesi che sia stato dipinto per il duca Marzio Colonna da Metello Panvini, pittore nativo di Olevano e non sconosciuto allo stesso Orazio Zecca.
Nino Piras ha invece presentato alcune opere riferibili per via documentaria al sacerdote e pittore Don Agostino Ludovisi, residente a Patrica, ma attivo anche a Morolo e Acuto, nei decenni centrali del XVII secolo. Sorprende la profondità culturale degli affreschi prodotto da questa singolare figura di sacerdote artista, che probabilmente cercava con questa di ovviare alle sue carenze tecniche, dalla citazione della tenda di Parrasio sulle pareti della chiesa di Morolo, al carme figurato che sormonta l’architettura dipinta in trompe-l’oeil nella chiesa di San Sebastiano di Acuto, ossia l’edificio che ha ospitato fino al principio del XX secolo la statua lignea della Madonna con il Bambino oggi esposta al Museo di Palazzo Venezia [fig. 6].
Lisa della Volpe ha dedicato il suo intervento al pittore Domenico Cerroni di Arpino, noto finora soltanto di nome agli studiosi per via del suo coinvolgimento nella decorazione della basilica romana di Santi Nereo e Achilleo, promossa dal cardinale Cesare Baronio. Di questo artista non solo ha presentato altre opere conservate nel territorio dell’antico Ducato di Sora, ma ha pure ricostruito la cerchia dei suoi potenziali amici e protettori (che gli hanno permesso di stabilirsi a Roma sullo scorcio del XVI secolo), e ha chiarito i suoi legami con la bottega del Cavalier d’Arpino.
Infine, Tommaso Cecilia ha presentato i molti dati che ha radunato negli archivi anagnini sul prolifico pittore Angelo Guerra, e sugli altri membri della sua famiglia, dei quali ben tre (Carlo, Bartolomeo e Orazio) hanno praticato l’arte pittorica. Dalle numerose opere che ci sono rimaste di Angelo, tutte facilmente localizzabili per via della sua abitudine di firmarle con un cartiglio, si intuiscono tutti i limiti di questo pittore di provincia, poco più di un artigiano, che però a cavallo tra il XVI e il XVII secolo ha lasciato numerose sue opere a Tagliacozzo, Scurcola Marsicana [fig. 7], Sermoneta, Posta Fibreno e Anagni (senza contare le tante altre pitture ricordate dalle fonti che sono andate perdute).
Un maggiore spessore stilistico ebbe il figlio Orazio, che ha lasciato una tela nella Chiesa del Rosario di Artena, da cui si evince un certo aggiornamento sulla pittura romana del primo quarto del Seicento.
Ma molti altri sono i pittori del Basso Lazio che attendono di essere riscoperti: tra questi c’è ad esempio l’enigmatico Antonio Fatati di Sermoneta che visse per molti anni a Roma in Campo Marzio, o il notevole Domenico Iacovacci di Zagarolo, oppure quel tale Federico Bucatti di Alatri che fu attivo a Veroli. Per tutti loro si rimanda fin da ora al repertorio che sarà allegato agli atti del convegno.
Dispiace rilevare come la seconda parte della giornata di studi sia stata seguita da uno scarsissimo pubblico, soprattutto perché essa era interamente dedicata alla cittadina di Montefortino (oggi Artena) che ospitava il convegno, nonché alla gloria locale, cioè al pittore Orazio Zecca, del quale sono state presentate alcune novità assolute, frutto in particolare delle ricerche di Maria Beatrice de Ruggieri. Tra queste novità, le foto degli affreschi, finalmente ripuliti, che Zecca ha realizzato nel 1620 nella sacrestia della Cappella Sistina della Basilica di Santa Maria Maggiore, nonché le lastre radiografiche dell’unico dipinto su tela del pittore che si conserva ad Artena, realizzate più di quaranta anni fa in occasione di un suo riuscito restauro promosso dalla Soprintendenza, che purtroppo è stato vanificato da un successivo incauto intervento pittorico condotto da un privato. Grazie al provvidenziale recupero di queste immagini, e al restauro dei dipinti di Santa Maria Maggiore, la discreta caratura tecnica del pittore montefortinese emerge adesso con maggiore chiarezza.
Ugualmente interessanti sono state le relazioni di Piero Capozi – che ha offerto un puntuale affresco della situazione demografica ed economica della Diocesi di Segni al principio del XVII secolo, realizzato grazie alla consultazione di numerose fonti archivistiche – e di Matteo Ricelli, il quale ha analizzato la maggiore delle fabbriche realizzate dal Cardinale Scipione Borghese a Montefortino tra il 1614 ed il 1626, ossia la piazza di Corte, che nasconde sotto la sua superba terrazza sulla Valle del Sacco, ben tre piani di locali voltati, anticamente occupati da stalle e granai [fig. 8].
Un’opera ingegneristica dal respiro grandioso, che purtroppo oggi è abbandonata e negletta, oltreché quasi impossibile da visitare.
Pensando all’incerto destino di questa magnifica costruzione, l’augurio di tutti è che Artena riscopra il proprio patrimonio artistico, e ne faccia il volano per una rivalutazione del suo centro storico, migliorando così la qualità della vita dei suoi abitanti, e magari attirando anche l’attenzione di un più vasto pubblico.
Luca CALENNE Roma 17 Luglio 2022