Dall’Armenia ad Ariccia (Palazzo Chigi) il mondo surreale di Arsak Sarkissian; in mostra le opere di un artista polifonico (con un saggio di Dominique Lora)

di Dominique LORA

Dal 2018 al 2020, in collaborazione con Ambasciatori, Istituti di cultura, organizzatori e curatori dediti a far conoscere i tesori della nostra penisola all’estero, parte della collezione di Palazzo Chigi in Ariccia ha intrapreso uno straordinario periplo attraverso le terre dell’est europeo. Di queste diverse tappe del nostro moderno Grand Tour ricordiamo con orgoglio la mostra Bernini e il barocco romano, capolavori da Palazzo Chigi in Ariccia, presentata alla National Gallery of Armenia di Jerevan. Qui grazie al contributo della nostra ambasciata abbiamo realizzato una mostra densa di significati e, soprattutto, portavoce della nostra storia e portatrice di quell’idea di bellezza e di umanità forgiata durante il glorioso secolo che ha visto la nascita, lo sviluppo e la diffusione del barocco romano nel mondo. In tale contesto, il museo di Palazzo Chigi è lieto di completare il dialogo culturale bilaterale iniziato con l’Armenia ospitando la mostra di Arshak Sarkissian, uno dei suoi artisti contemporanei più promettenti. L’esposizione assume un carattere particolarmente significativo proprio in queste giornate in cui l’enclave armena del Nagorno Karabakh è soggetta ad attacchi militari.

Palazzo Chigi in Ariccia 10 ottobre 2020 – 10 gennaio 2021
Conservatore del Museo: Francesco Petrucci
Mostra a cura di: Dominique Lora
Organizzazione: Glocal Project Consulting srl
Con il supporto della Hasratyan-Minasyan Cultural Foundation, Yerevan

Arshak Sarkissian /Angeli e Demoni

Un viaggio attraverso i misteri dell’animo umano

 L’arte è la parte non ancora realizzata di noi stessi. L’arte ci rende umili, e, quando mi accovaccio contro la parete al Musée des Beaux-Arts di Nizza, scrutando La Testa di Vecchio (olio, ovale, 60 x 50, 1765), dipinto alla prima da Jean Honoré Fragonard, ho la visione di una promessa di felicità.

(Y. Tenret, Portrait d’un artiste en révolté, 2009)

Il Presente e la Memoria

Il popolo armeno, le cui terre e relativi confini sono stati nei secoli mutilati e implacabilmente ridistribuiti tra i paesi limitrofi, ha sofferto barbarie non solo geografiche ma soprattutto umane e, nel tempo, si è disperso attraverso il globo pur sempre mantenendosi unito nella memoria e nello spirito, oltre i confini del tempo e dello spazio.

Tale straordinaria capacità di resilienza e di comunione spirituale è definita armenità, un termine che, per chi non è armeno, si può intuire, afferrare, forse, persino amare nella sua enigmatica profondità, ma mai totalmente comprendere. Come per gli aborigeni australiani di Chatwin, che percorrono le loro vite in simbiosi con la terra alla quale appartengono, in Armenia, i sentieri, le montagne (l’Ararat!), le città, la memoria dei luoghi e degli umani costituiscono un insieme di segni, di labirintici percorsi e storie che sono visibili soltanto per occhi di chi vi è nato, o di chi vi appartiene per origine. Una terra che magicamente viaggia impressa nel DNA di ogni suo discendente, vicino e lontano che sia.

Arshak Sarkissian è imbevuto di armenità.

Arkas Sarkissian

È nato e cresciuto a Gyumri, la seconda città più importante dell’Armenia e tristemente conosciuta per il disastroso terremoto che la distrusse quasi interamente nel 1988. Figlio della sua epoca l’artista ha vissuto la fine dell’impero sovietico e la complessa transizione verso una nuova nazione indipendente ma tutta da ricostruire. All’epoca, servivano idee, strutture, risorse economiche ma soprattutto persone armate di una o più visioni, pragmatiche quanto creative. Inizia così, da giovanissimo, la sua carriera nel mondo dell’arte.

Come un ricercatore polifonico che sconfina oltre la dimensione progettuale del lavoro, sperimenta e alterna mezzi espressivi quali pittura, disegno, grafica, scultura e installazione, giocando con e tra i confini di segni, simboli e materiali che – come idiomi babelici – si confondono, si sovrappongono e infine si riorganizzano; la visione di Arshak inizia e si compie attraverso opere pregne di memoria, di colori, di forme antiche e moderne, di tensione e di umorismo, dense di un dramma personale quanto collettivo. La natura versatile e mutante dei suoi personaggi esprime una storia ibrida e dolorosa di cui neanche lui probabilmente è del tutto cosciente, quale parte autoctona della sua eredità storico-culturale.

A. Sarkissian, Dance with 11.Octopus (olio su tela, 2020)

La sua fervida immaginazione genera un’arte vivida, seppur nel suo processo creativo egli sia continuamente ispirato dai modelli iconografici dei grandi classici della storia dell’arte occidentale, reinventando espressioni quali pittura, incisione, scultura e maschere di scena. L’artista cerca di combinare tonalità del mondo classico e contemporaneo, esplorando la complessità anatomica e fisiognomica dei suoi protagonisti, raffigurando l’uomo contemporaneo mediante le sue fantasticherie e, materializzando “angeli e demoni” di un’umanità a lui prossima o tramandata dalla storia del suo popolo.

Fortemente influenzato da espressioni provenienti dalla strada – rivisitata spesso con formalismi ispirati ai grandi maestri del passato – l’artista crea rappresentazioni ironiche, parodie sociali e culturali dalle quali emerge un’intensa concentrazione di energia. Le sue opere sono in costante movimento generando un sovra-linguaggio a volte strumentale ma spesso rivolto verso una libertà espressiva basata su due certezze: la prima è che il tempo e lo spazio non esistono; la seconda è che lo spettatore assiste a qualcosa di molto più complesso rispetto alla rappresentazione primaria.

Seguendo tale linea di sperimentazione Sarkissian viaggia indisturbato attraverso i terreni della memoria citando, quasi con civetteria, gli artisti che più ha amato facendo del suo gesto artistico un gesto al contempo classico e moderno che, nella sua ricerca semantica e simbolica, giunge ad un universo fisico e tangibile in cui profondità, intensità, segno e colore si galvanizzano in un processo unitario al contempo artistico e scientifico: l’opera d’arte come una forma e un movimento che è un infinito incluso in un insieme finito.[1]

Antica Bellezza e Moderna Disarmonia

Le composizioni di Arshak sono animate da bizzarre figure, saltimbanchi, popolani, amene fanciulle, satiri ubriachi, strani animali antropomorfi o ancora creature stravaganti e fenomeni da baraccone. Questo teatro eteroclito ed eccentrico sconfina in una formula fresca ed originale tra grottesco e satira contemporanea. L’artista è al contempo attratto dalle gioie carnali e sedotto dal richiamo dell’ascetismo, abbagliato dalla bellezza, dal fantastico, dalla natura e – rifiutando di attribuirle un valore divino o umano – si rassegna ad  una Docta Ignorantia, rivelando in tal modo le antinomie del suo tempo come trama della sua creazione artistica.[2]

A. Sarkissian, Story Tellers (olio su tela, 2020)

L’innegabile forza attrattiva di tali eccentrici individui, la poesia e l’intensa particolarità dei loro volti si manifesta attraverso uno stato di costante metamorfosi, di autenticità e di invenzione. Arshak ritrae soggetti inconsueti, il cui corpo si fa spesso emblema, mezzo espressivo essenziale a cui viene conferita una bellezza straniante e sovrannaturale. Personaggi grotteschi in pose classicheggianti, con volti dall’espressione composta e dignitosa, che, lungi dal farci distogliere lo sguardo, rivelano il dramma di un’umanità magnetica che ci attrae … volenti o nolenti. Sullo sfondo di uno spazio neutro, per non dire spesso assente, egli concentra l’attenzione su soggetti inesorabilmente svelati dalla lente d’ingrandimento della rappresentazione artistica, esponendone la dolorosa e profonda nobiltà umana che si compie attraverso la caducità fisica.

Un percorso dunque, attraverso il quale l’artista racconta i confini mutevoli e aleatori che separano la visione di ordine e disordine, la natura dell’uomo da quella della donna e definiscono i canoni che sempre più avvicinano l’idea di bellezza a nuove forme di disarmonie estetiche. In sostanza, una serie di rappresentazioni che sfiorano, scivolano, percorrono, penetrano e rivelano – anche se spesso metaforicamente – il mistero della vita.Orlando e il Travestimento

A. Sarkissian, Hot in my studio (2017)

Grandi artisti come Max Ernst, Matthew Barney, Cindy Sherman, Marina Abramovic, e, più recentemente Matteo Basilé, ci hanno già dimostrato che il travestimento postmoderno è sinonimo di trasformismo, alterazione, mutazione, e, che nel complesso, diventa il paradigma di un’indagine necessaria verso un processo di determinazione identitaria (individuale quanto collettiva) in continua fluttuazione. Arshak Sarkissian spalanca varchi inconsueti sull’idea di effimero esistenziale.

È un immaginario che rivela un mondo in bilico tra sogno e realtà, animato da personaggi teatralmente irreali ed allo stesso tempo specificatamente reali. Nella sua opera l’ambiguità diviene metafora simbolica e coinvolge ogni sorta di tipologia umana all’interno di una rinnovata spiritualità contemporanea dal piglio laico, che, pur mantenendo i contatti con la tradizione dal punto di vista iconografico, inventa nuovi riferimenti. Corpi decadenti e disturbanti, figure dall’orientamento sessuale elusivo eppure fieri della loro diversità, manifestazioni di una condizione archetipica universale.

A. Sarkissian, The Singers (terracotta, 2018)

Qui la deformità seduce e la deviazione intriga, entrambe componenti di un macrocosmo dove la differenza diviene consuetudine e in cui l’individuo anomalo – nel proclamare la sua condizione d’imperfezione – diviene modello, la cui vulnerabilità ci racconta le ferite della sua anima e il dramma del suo corpo alterato. Poiché una linea veramente sottile separa il santo dal folle e la bellezza estrema dalla deformazione.[3] Una mutazione continua di forme tattili ed epidermiche che scorrono dentro e fuori il piano e che generano un linguaggio sensuale e coinvolgente. Le sue raffigurazioni sono realizzate in un mix ibrido e sapientemente umoristico. Esplorando la sua profonda sensibilità, l’artista sperimenta poesia, forme, accordi e corrispondenze; qui l’opera d’arte è un movimento, una danza di forme, un insieme di materiali di archivio e di memorie vive che si accordano in un manifesto emotivo che esprime con coraggio e speranza il disagio, l’inconsistenza e il significato dell’assenza materiale e spirituale di una contemporaneità spesso mediocre e indigente.

In un momento storico dove il relativismo generale si confonde con un sistema accellerato e sfuggente, parliamo di incroci, multiculturalismo o cancellazione dei confini senza essere davvero in grado di coglierne le implicazioni umane, sociali e culturali, Arshak Sarkissian traccia una mappa, una sorta di archivio personale, umano e per giunta illustrato. L’artista esplora il mondo per mezzo di un’arte di maniera, voluttuosa e grottesca, popolata da ambigui, straniati e improbabili personaggi con il fine di individuare – nel riposizionamento semantico di questa temperie popolana – una continuità tra passato e presente, un senso dell’inconsueto come principio dell’universale, un luogo che sveli la transitorietà del tutto e lo rimetta nuovamente in discussione.

Arshak è come un Ensor moderno, risorto, ma soprattutto armeno, nella sua schizofrenia pittorica e ciclotimica, che usa tutte le tecniche, combinando diversi approcci pittorici per attraversare i confini spazio-temporali dell’animo umano.

Le Cronache dei Freaks

A. Sarkissian, Four leg girl (incisione, 2019)

Nel cuore della mostra, uno scrigno, un diario segreto, una serie di disegni e incisioni ispirati al soggetto del Freak Shows e spiritualmente derivanti dai celeberrimi Caprichos di Francisco de Goya. In questa nuova serie di originalissimi lavori, intitolata The Freaks Chronicles, Arshak si allontana temporaneamente dalle gioiose e stravaganti composizioni che solitamente lo contraddistinguono per sperimentare una nuova qualità strutturale dell’opera. Qui la realtà statica e immobile è soppiantata da una rappresentazione monocroma che vibra all’interno di uno spazio introspettivo, senza un centro né una periferia. Il risultato è una formula alchemica dove lo spazio mentale dell’opera diventa una mappa immaginaria in cui l’artista riorganizza e traccia i propri sogni, le proprie geografie, le proprie architetture.

La base del suo lavoro sono le fotografie di archivio degli artisti di spettacolo, dei così detti Freaks, resi famosi al grande pubblico dall’omonimo film diretto da Tod Browning nel 1932. La cultura visiva sta cambiando, specialmente a causa degli avanzamenti tecnologici e, come per la pittura, anche l’incisione sembra diventare un genere di archivio, di documentario visivo. Ispirandosi al diciannovesimo secolo al processo di documentazione in bianco e nero, Arshak esplora l’origine e il carattere del corpo contemporaneo, richiamando rappresentazioni corporee e forme dell’anatomia umana ormai quasi dimenticate.

Oggi, il tradizionale Freak Show ha cessato di esistere, o quasi, al seguito dello shock delle due guerre mondiali che significarono sofferenze indescrivibili per milioni di persone che ne uscirono con svariate forme di disabilità.  L’interesse per tale genere di spettacolo scomparve o fu bandito. Eppure, oggi, è possibile percepire ed osservare l’attrazione che ancora esercita sulla gente, latente e sotto altre forme; ad esempio attraverso la moltiplicazione e diffusione della letteratura fantastica, di film sci-fi e di serie televisive su mutanti e antieroi che diventano supereroi, tutti improbabili e non convenzionali. Il freak show è dunque diventato “super”. In fondo il personaggio di Wolverine negli X Men non è che una moderna cannibalizzazione dell’archetipico freak… un eroe a metà strada tra uno zombie e un cyborg, metafora contemporanea del confine tra uomo e macchina, solo più seducente…

Tradizione, Nomadismo e Metamorfosi

A. Sarkissian, Fishmonger (terracotta, acrolico, 2019)

La cultura transnazionale contemporanea rappresenta in qualche modo una condizione, un punto di vista politico e uno stato economico che presuppone, da parte di diverse società, la perdita ma anche l’assimilazione di valori e credenze e che per tutti implica una crescente dipendenza per beni di consumo accessori. Tale condizione è causa di innumerevoli disparità e tensioni che richiedono una continua ricerca di forme di dialogo e di convivenza tra gli esseri umani e il loro ambiente naturale quanto artificiale. Negli artisti tale condizione induce al comune desiderio di perseguire una dialettica tra etica ed estetica in cui la dimensione spirituale ed immaginaria dell’opera d’arte costituisce l’unico glossario possibile per definire la propria identità.

Arshak Sarkissian è alla costante ricerca di definizione, come una caccia al tesoro che si sviluppa, si svela e procede sempre attraverso le sue immagini che perlustrano storie passate, presenti e future, permeate di antica sapienza, tradizioni tramandate, superstizioni, poeti, cantastorie, scienziati e artisti. Una narrazione che non si estende su di una linea cronologica, impersonale e lontana, ma che si compone di microcosmi lontani quanto vicini e che scorrono a partire dal e attraverso il suo DNA.

I ritratti di Arshak rivelano l’anima generosa e il temperamento inossidabile di un popolo unito da un glorioso e crudele passato e oggi intensamente proiettato verso il domani. La sua è una umanità nomade che si muove e muta costantemente. La visione dell’artista diventa tutt’uno con l’esperienza dello spettatore, indicando come il potere delle immagini continui a rappresentare una forma autonoma di conoscenza, una visione sciamanica accessibile a tutti.

Confermando le parole di Deleuze e Guattari, nell’opera di Arshak non vi sono forme stabili nel reale e se il reale è un “caosmo”, ossia un continuo andirivieni tra il caos e l’ordine, il soggetto, vale a dire la superficie di ricettività di questo andirivieni, non è una forma stabile, una forma nel senso aristotelico del termine, ma una forma che si forma e si deforma di continuo. In altre parole, si tratta di una forma in perenne formazione.[4]

La pittura (come la poesia) seleziona dall’universo ciò che più gli è appropriato. Riunisce in un singolo essere immaginario le circostanze e le caratteristiche che si verificano in natura. Da questa combinazione, ingegnosamente composta, risulta una felice imitazione in virtù della quale l’artista si guadagna il titolo di inventore e non di servo copista.

Francisco de Goya

Come predetto un secolo fa da Walter Benjamin nel saggio L’opera d’arte nell’ era della riproduzione tecnica, viviamo in un’era di riappropriazione, costretti a rimettere in questione nozioni quali diritto d’autore e originale, e pertanto scuotiamo le fondamenta che fino a ieri sostenevano l’idea di valore estetico. Tuttavia, almeno in ambito artistico, il campionamento e lo sconfinamento significano un punto di vista alternativo nell’ordine naturale delle cose.

Gli armeni hanno sofferto e subito crudelmente quello che noi designiamo come il secolo breve, il più importante e brutale tra tutti secoli. Hanno vissuto in un isolamento forzato e autoreferenziale, costretti da guerre, usurpatori e isolamento economico-culturale che hanno imposto al paese un prolungato congelamento e uno stato di (apparente) apatia culturale. Bandita ogni forma di pensiero e di spirito creativo, i suoi dittatori hanno tentato di spezzarne la spina dorsale cancellando ogni traccia di memoria ancestrale, riportando ogni cosa ad un presente immobile e governato da una piccola oligarchia di uomini-dei.

Oggi la creatura dormiente si risveglia dal letargo e, attraverso l’opera di artisti come Arshak Sarkissian, ricorda le sue storie e le sue leggende e forgia un’identità rinnovata, una struttura moderna e più forte che guarda indietro nell’incedere… perché senza passato non esiste futuro.

Dominique LORA  11 ottobre 2020

NOTE

[1] U. Eco L’Opera aperta, 1962, p.
[2] Y. Tenret, Portrait d’un artiste en révolté, Parigi, 2009, p. 52
[3] Francesca Baboni, 2007
[4] Deleuze, Guattari, Qu’est-ce-que la philosophie, Édition s d e Minui t (collection Critique ), Parigi, 1991, p.179