Dall’uovo alla Dea nelle stanze segrete Doria Pamphilj. L’animalità metamorfizzata di Chiara Lecca (fino al 27 Aprile)

di Luca CALENNE

«La scultura è quella cosa in cui  vai a sbattere mentre cerchi la distanza giusta per osservare un quadro» («Sculpture is something you bump into when you back up to look at a painting»).

Per Jacqueline Lichtenstein fu il pittore americano Adolph Reinhardt a liquidare la scultura con questa freddura, ultima di una serie di maligne osservazioni, cominciate circa un secolo prima con il memorabile «la scultura è noiosa» di Baudelaire

Data periodicamente per «morta» fin dal principio del Novecento (Martini dixit), la scultura ha saputo tante volte risorgere e sorprendere nuovamente, e basta sfogliare il bel libro di Alex Potts, The Sculptural imagination (Yale University, 2000) per averne prova, ma il mercato italiano sembra gradire quasi soltanto i manufatti tridimensionali ancorati alla rassicurante dimensione nostalgica del frammento, oppure declinati nell’atavico paradigma antropomorfico, quasi che la figura umana e la pietra siano le  uniche opzioni possibili per uno scultore, e che il genere della natura morta gli sia precluso a priori. La perizia tecnica e la sincera ispirazione dei moderni epigoni di Michelangelo sono fuori discussione, ma la scultura può e deve esplorare altri territori, se non vuole appiattirsi in una nuova oleografica dimensione instamgrammabile, o soggiacere alla logica dell’opera realizzata su commissione.

Per questi motivi è da raccomandare la piccola ma raffinata mostra di Chiara Lecca, Dall’Uovo alla Dea, allestita negli appartamenti segreti del Palazzo Doria-Pamphilj [fig. 1].

Fig. 1. Locandina della mostra.

L’esposizione, a cura di Francesca Romana de Paolis, realizzata con il supporto della Principessa Gesine Pogson Doria Pamphilj e di suo marito Don Massimiliano Floridi, in partnership  con la Galleria Fumagalli di Milano, propone undici opere dell’artista romagnola suddivise in quattro stanze, dedicate ai quattro elementi alchemici (aria, terra, fuoco, acqua).

In verità, il filo conduttore alchemico – per quanto intrigante – quasi non è necessario, poiché artista e curatrice sono riuscite a integrare perfettamente le opere con gli arredi originali delle stanze, creando delle perfette risonanze formali e cromatiche: ad esempio, alcune forme tornite che fingono il marmo richiamano l’urna funeraria del soprastante quadro di Pietro Testa dedicato agli amori di Venere e Adone [fig. 2],

Fig. 2. Chiara Lecca, Fake Marbles, Foto Marco Parolin.

mentre esuberanti fiori turchesi trovano una eco nella decorazione ottocentesca del piccolo ninfeo domestico dipinto da Annibale Angelini, al cospetto della statua della dea Diana ricordata nel titolo della mostra [fig. 3].

Fig. 3. Chiara Lecca, Turquoise Still Life. Foto Marco Parolin.

Per l’occasione, due dipinti secenteschi della collezione di famiglia quasi mai esposti al pubblico – ossia l’enigmatico Venditore di meloni già attribuito a Leonello Spada [fig. 4] e la superba Natura morta con un uomo e un cane dipinta a quattro mani dal mio amato Pasquale Chiesa e da Alexander Coosemans – sono stati eccezionalmente collocati nel percorso di visita, rendendo con i loro frutti dipinti ancora più ghiotta la mostra.

Fig. 4. Chiara Lecca, Golden Still Life. Foto Marco Parolin.

Una tale ambientazione, in stanze già sature non solo di quadri di alta epoca, ma pure di legno, cotto, carta, lana e cotone, risulta assai congeniale per le opere di Chiara Lecca, a mio parere più della white box oggi imperante nei musei e nelle gallerie di arte contemporanea, poiché le sue opere sono realizzate quasi interamente con elementi naturali, soprattutto di natura organica, come vesciche di animali, tassidermie, ritagli di pellami, squame essiccate, persino lo sterco; tutti materiali che l’artista romagnola trasfigura in splendidi bouquet o in eleganti sculture che ricordano gli artificialia di una Wunderkammer del Seicento, a cui la mostra rende un deferente omaggio. La scoperta della vera natura dei materiali che costituiscono le sue opere, soprattutto dopo avere apprezzato de visu la levigatezza stilistica del risultato finale, è decisamente spiazzante.

Come bene ha scritto la curatrice Francesca Romana de Paolis, non si tratta dell’ennesimo tributo al ready made (anche se l’operazione non è priva di ironia, pure nella scelta dei titoli delle opere) e non può dirsi nemmeno una novità l’utilizzo di materiale di origine animale (basti pensare ai feltri di Joseph Beuys, al pappagallo di Jannis Kounellis, alle farfalle e allo squalo in formaldeide di Damien Hirst, alle disturbanti Aletheia di Berlinde De Bruyckere): al contrario di tanti illustri precedenti, le opere di Chiara Lecca non ricercano la spettacolarizzazione della vita o (peggio) della morte dell’animale, ma uniscono una grande manualità a una poetica lucida e profonda, che l’artista (classe 1977) ha esternato in più occasioni, rievocando la sua infanzia nell’azienda agricola e zootecnica della propria famiglia, nei pressi di Faenza, in quella Romagna che pur accettando prima di altre regioni la modernità, rimane fieramente ancorata al suo passato contadino, e al suo buon senso. Ella vorrebbe riannodare il filo tra il sistema valoriale di quel mondo archetipico – in cui uomo e animale vivevano a stretto contatto – e lo spettatore del XXI secolo, che spesso conosce quegli animali soltanto dalla vaschetta del supermercato. Quello che il cittadino ha rimosso dal suo habitat, sostanzia invece l’immaginario estetico di Chiara Lecca, e viene da lei offerto in una veste nuova che lusinga lo sguardo dello spettatore ma al tempo stesso l’illude, proprio come una natura morta barocca.

L’arte di Chiara Lecca, ne sono sicuro, sarebbe piaciuta al suo conterraneo Piero Camporesi, il grande esploratore della cultura materiale della prima età moderna, raccoglitore ed esegeta di quei testi disertati dall’accademia nei quali si parla di caglio, di letame, di cotenne, di rape e di fame; quello studioso – come scrisse Eco – che ha preso il meraviglioso tappeto del Rinascimento e del Barocco italiano, lo ha rovesciato e ci ha mostrato che «sotto a quella superfice dai disegni e dai colori bellissimi, brulicano vermi, scarafaggi, larve».

Allo stesso modo opera Chiara Lecco, che con la sua arte prova a sanare la frattura tra l’uomo e quella natura da cui si è distaccato, proponendo di sostituire il dominante antropocentrismo – fastidiosamente cinico e autoassolvente – con un più universale e corresponsabile biocentrismo, ma senza concessioni new age o teosofiche, piuttosto dimostrando che il concetto di “scarto” era ignoto alla società preindustriale e precapitalistica. Del resto, nessun animale è stato immolato all’altare dell’arte: l’artista romagnola utilizza quello che la grande distribuzione e l’industria alimentare ha rinunciato a lavorare. Una delle prime mostre realizzate con la Galleria Fumagalli, non a caso, si intitolava «Del maiale non si butta nulla», ovvero la frase che meglio riassume il senso di quel Testamentum Porcelli che già si leggeva al tempo di San Girolamo.

Fig. 5. Chiara Lecca, True Fake Marble, Foto courtesy Galleria Fumagalli, Milano.

Gonfiate e modellate ad arte, come farebbe al tornio un valente ceramista faentino, le vesciche di suino o di bovino assumono forme inaspettate (Bigbubbles), talvolta un aspetto quasi metafisico diventando simili a grandi pezzi degli scacchi di marmo venato (Fake marble e True Fake Marble), nei quali si coglie pure un discreto omaggio al tranquille saboteur René Magritte [fig. 5].

Altre volte sono montate su lucidi e levigati piedistalli (Black Bigbubbles), e posizionate sopra al pianoforte come dei giganteschi sopramobili ovoidali, degni eredi dei più rari mineralia e delle uova di struzzo (o di altri ancestrali esseri fantastici) che venivano ingemmati e incastonati nei secoli passati [fig. 6, fig. 7].

 

Fig. 6. Chiara Lecca, Black Bigbubbles, Foto courtesy Galleria Fumagalli,Milano
Fig. 7. Chiara Lecca, Bigbubbles. Foto autore.

Ancora più vicine allo stile di una Schatzkammer sono le tre Purpura Snakes ricavate dalle mute dei serpenti, che fanno bella mostra di sé sopra a un tavolino [fig. 8], e la piccola e graziosa Still life sotto vetro che gli è vicino, così come le campane ripiene di pelliccia di cinghiale (Masks), mentre i due grandi mazzi floreali che aprono e chiudono la mostra (Golden Still Life e Turquoise Still Life) sono volutamente mimetizzati negli ambienti che li ospitano.

Fig. 8. Chiara Lecca, Purpura Snakes. Foto Marco Parolin

Con la loro calcolata bellezza sono due perfette trappole per l’incauto visitatore: immobili attendono che il suo sguardo si intrufoli nei loro petali pelosi realizzati con tassidermie, dove avverrà la perturbante agnizione dal giglio al coniglio [fig. 9].

Fig. 9. Chiara Lecca, Golden Still Life (dettaglio). Foto Marco Parolin.

La mostra ha un’inattesa ma preziosa appendice nell’antico Ospedale di Santa Francesca Romana a Trastevere, antica fondazione caritativa della famiglia Pamphilj, dove al centro della cappella ottocentesca di San Vincenzo è collocato un altro splendido vaso di carnosi gigli scuri, sempre derivati dagli umili scampoli degli animali, qui vivacizzati da centinaia di nere palline di sterco [fig. 10].

Fig. 10. Chiara Lecca, Black Still Life. Foto autore.

Non posso giurare che l’artista ci abbia pensato, ma quest’ultima composizione – così sontuosa e così povera insieme – a me pare un doveroso risarcimento alla secolare tradizione dei fiori di stoffa o di carta, con cui generazioni di anonime mani femminili hanno decorato gli altari di Roma ad maiorem Gloriam Dei, dando un contributo incalcolabile al fasto cattolico. Nel silenzio di questa cappella, seguendo il loro esempio, anche Chiara Lecca giunge a ibridare l’arte con la natura, l’effimero con il durevole, il caduco con l’eterno.

Luca CALENNE  Roma  23 Febbraio 2025