di Claudio LISTANTI
Molte sono state le iniziative poste in essere nel corso del 2021 per ricordare il sommo poeta Dante Alighieri nella ricorrenza dei 700 anni dalla sua morte.
Anche noi vogliamo associarci a queste importanti celebrazioni ricordando quanto la figura e l’arte di Dante, soprattutto con la Divina Commedia, abbiano influenzato ed ispirato, negli anni a cavallo tra l’800 e il ‘900, i musicisti italiani.
Per questa nostra breve disanima partiamo dal più grande operista dell’800 italiano, Giuseppe Verdi, artista che sicuramente conosceva per esteso la Commedia anche se nelle sue opere vi sono scarse, ma importanti, tracce dell’universo dantesco. Famoso è un giudizio del compositore enunciato dopo un discorso dantesco del senatore Gaetano Negri nel 1896 a seguito del quale estrinsecò l’ammirazione per il grande poeta con queste parole:
“Ah sì: Dante è proprio il più grande di tutti ! Omero, i Tragici greci, Shakespeare, i Biblici, grandi, sublimi spesso, non sono né così universali, né così completi “.
Nell’Oberto Conte di San Bonifacio, prima sua opera del 1839, si incontra il personaggio di Cuniza (mezzosoprano) promessa sposa di Riccardo. A lei si contrappone Leonora (soprano) a favore della quale deve cedere il promesso sposo perché la stessa ne reclama il diritto in quanto sedotta da Riccardo. Ci troviamo di fronte alla classica situazione ‘conflittuale’ ma Cuniza cerca di agevolare questa unione tra Leonora e Riccardo divenendo per la sua rivale anche una sorta di consigliera. Una figura ambivalente, certo non particolarmente centrata, soprattutto perché al di fuori degli schemi operistici di quegli anni nei quali il giovanissimo Verdi non aveva ancora la necessaria ‘autorità’ per gestire una rottura delle consuetudini teatrali così repentina anche se qualche riverbero dell’originale dantesco si può scorgere.
Infatti il modello per la costruzione di questo personaggio è Cunizza da Romano, nella storia sorella di Ezzelino III da Romano che Dante incontra nel Paradiso (IX 25,36) nel Cielo di Venere dove sono accolti gli spiriti amanti:
“In quella parte de la terra prava/italica che siede tra Rialto / e le fontane di Brenta e di Piava,/ si leva un colle, e non surge molt’alto, /là onde scese già una facella / che fece a la contrada un grande assalto./D’una radice nacqui e io ed ella: /Cunizza fui chiamata, e qui refulgo / perché mi vinse il lume d’esta stella; / ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro vulgo.”
Visse con ogni probabilità tra anni 1198 e il 1279. Sposò Rizzardo unendosi poi con il trovatore Sordello da Goito. Dopo la morte di Rizzardo sposò Narnerio dei Breganze fino a quando le sue fortune famigliari crollarono dopo la morte di Ezzelino e si ritirò in Toscana dove visse fino i giorni rimanenti conducendo una vita esemplare e pia.
Ma il grande incontro tra Verdi e Dante avvenne nella maturità del musicista. Testimonianze dell’epoca, anche se non confermate da testi scritti, ci riferiscono che il musicista era profondo conoscitore dell’opera dantesca, affascinato dal contenuto degli scritti del poeta. Dopo l’Otello, andato in scena 1887, per Verdi fu un periodo nel quale era alla ricerca di un equilibrio individuale e di una convinzione religiosa. Anche per lui ci fu un processo interiore analogo a quello che Rossini visse a Parigi dopo il ritiro dalle scene, con le composizioni appartenenti a quei Péchés de vieillesse nei quali trovarono spazio i suoi grandi capolavori sacri che sono lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle, che per il musicista pesarese sono da considerarsi il testamento spirituale e mistico.
Verdi cercò in Dante l’ispiratore ideale per questo suo particolare momento utilizzando due testi, nel 1879, un Pater Noster e un Ave Maria “volgarizzati da Dante”, che vennero eseguiti alla Scala sotto la direzione di Franco Faccio il 18 aprile 1880. Questi versi, però, si rivelarono anni dopo, un falso in quanto giudicati ‘apocrifi’ dalla critica. Il compositore, in buona fede, li trovò attribuiti a Dante in una delle edizioni ottocentesche delle Rime.
Il grande incontro tra Dante e Verdi, avvenne, però, negli anni seguenti il 1887 con le Laudi alla Vergine Maria, dall’ultimo canto del Paradiso, un brano che negli ultimi anni di vita (1898) inserì nei Quattro Pezzi Sacri accanto allo Stabat Mater (altro punto d’incontro con il Rossini maturo), una nuova Ave Maria ma su testo di Arrigo Boito e il Te Deum.
Il testo de Le Laudi alla Vergine Maria è tratto dai primi versi del XXXIII Canto del Paradiso (v. 1,21) il cui incipit è il seguente: “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio”. È un brano per sole voci femminili, un canto a ‘cappella’ colmo di misticismo, reverente verso la figura della Vergine, un vero e proprio omaggio alla polifonia classica e a quel particolare punto di vista ‘verdiano’ enunciato con le sue stesse parole “Tornate all’antico sarà un progresso”. Tradotto, andare verso il nuovo rispettando la tradizione.
Proponiamo l’ascolto di questo breve ma significativo brano perché l’ascolto della musica, meglio di ogni parola, ci può far capire la devozione e l’ossequio del Verdi quasi ottantenne verso la figura della Vergine, un effetto sonoro denso di mistero con le particolari sensazioni che possono influenzare un individuo consciamente vicino alla fine della vita.
Audio
Giuseppe Verdi
Laudi alla Vergine Maria
Sharon Sweet · Ernst Senff Chor · Berliner Philharmoniker
Direttore Carlo Maria Giulini
Edizione SME (per conto di Sony Classical)
https://www.youtube.com/watch?v=ehtsGiwGwJE
Un altro personaggio importate in Dante, sebbene molto misterioso nei suoi contorni, è Pia de’ Tolomei che il poeta incontra nel Purgatorio, nel V canto, (v. 130-136) individuandola tra le anime dei dannati che in quel luogo vanno incontro al poeta fiorentino chiedendogli una preghiera e per sfuggire al limbo del purgatorio e alla quale dedica queste parole: “Deh, quando tu sarai tornato al mondo, / e riposato de la lunga via”, / seguitò ‘l terzo spirito al secondo, / “Ricorditi di me, che son la Pia; / Siena mi fé, disfecemi Maremma: / salsi colui che ‘nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma”.
Poche parole per un personaggio del quale si conosce poco della sua biografia soprattutto circa le cause della sua morte, contornato quindi da un’aura di mistero che ha suscitato sempre un notevole interesse nelle manifestazioni di carattere popolare ispirando anche la fantasia di molti artisti.
Tra questi Gaetano Donizetti, altro musicista di spessore del teatro d’opera della prima metà dell’800 che, dopo l’esperienza del Belisario nel 1836 ispirato all’omonimo personaggio che Dante cita nel Paradiso al VI canto, (v. 25) ‘… e al mio Belisar commendai l’armi’, con un libretto di Salvatore Cammarano, dedicò l’opera, Pia de’ Tolomei, andata in scena il 18 febbraio del 1837 al Teatro Apollo di Venezia su libretto dello stesso Cammarano. Entrambe le opere sono, purtroppo, scarsamente rappresentate come molte altre del compositore bergamasco e semisconosciute. Belisario fu ripreso alla Fenice di Venezia nel 1969 mentre la Pia de’ Tolomei, addirittura, nel 2017 presso il Verdi di Pisa.
Per quanto riguarda i citati risvolti di carattere popolare c’è da ricordare il caso del Bruscello Poliziano, una forma di spettacolo creata a Montepulciano che ha come fondamento la tradizione del ‘Bruscello’ cantato in versi in ottava rima tramite il quale si tramandavano oralmente le gesta di personaggi storici, letterari, nobili, guerrieri e leggendari nei casolari, nei cortili e nelle aie delle campagne. Nel 1939 a Montepulciano fu fondato il Bruscello Poliziano basato sulla partecipazione degli abitanti del territorio, uno spettacolo di carattere operistico, con scene, costumi coro e orchestra per una forma di spettacolo che è arrivato fino ad oggi. Il personaggio di Pia de’ Tolomei ispirò la prima edizione del Bruscello e a dimostrazione del fascino, e della popolarità della sua misteriosa storia, è stato riproposto spesso nel corso degli anni anche se nella sua storia si sono affacciati, ma con minore frequenza, altri personaggi ‘danteschi’ come Paolo e Francesca, e Ugolino della Gherardesca.
Nel V canto dell’Inferno (versi 73-108) Dante incontra Paolo e Francesca che si trovano nel girone dei lussuriosi e sono tra i più illustri rappresentanti di quei dannati che preferirono l’amore carnale rispetto a Dio. Le gesta dei due amanti hanno ispirato le sensibilità di musicisti e letterati. Nell’800 Saverio Mercadante, su libretto di Felice Romani, compose la sua Francesca da Rimini negli anni 1830-1830 ma l’esecuzione avvenne, postuma, solamente nel 2016.
Nel nuovo secolo Gabriele D’Annunzio fu attratto dal soggetto e nel 1901 scrisse per il teatro Francesca da Rimini, tragedia in versi e in cinque atti. Riccardo Zandonai ne produsse una versione operistica in quattro atti con un libretto di Tito II Ricordi ispirato al testo dannunziano, che fu rappresentata a Torino nel 1914 e che godette di un importante successo presso il pubblico fino agli anni ’50 dello scorso secolo quando iniziò un progressivo e ingiusto declino.
Nel ‘900 Giacomo Puccini, nel suo Trittico del 1918, formato da tre opere in un atto, dopo i foschi drammi di Tabarro e Suor Angelica scelse di concluderlo con un’opera dai caratteri ‘comici’ e ‘leggeri’ scegliendo assieme al librettista Gioacchino Forzano di dare una personale interpretazione delle gesta di Gianni Schicchi personaggio fiorentino che Dante cita nel Canto XXX dell’Inferno, nell’ VIII cerchio dove si trovano i falsari. Incontra Grifolino d’Arezzo, che additando uno dei dannati dice (v. 32-33) “Quel folletto è Gianni Schicchi,/ e va rabbioso altrui così conciando” reo (v. 44-45) di “falsificare in sé Buoso Donati, testando e dando al testamento norma”. Puccini e Forzano costruirono una sorta di ‘burla’ dalla trama divertente ed esilarante per un’opera sempre appartenuta al grande repertorio dove Gianni Schicchi è uno dei personaggi chiave che si pone, in stile musicale novecentesco, accanto al Figaro rossiniano e al Falstaff verdiano: tre colonne del nostro teatro d’opera di sempre.
Concludiamo valicando per un momento i confini delle Alpi, facendo riferimento ad un altro evento musicale significativo per il rapporto tra Dante e la Musica. Si tratta, nello specifico, della Dante-Symphonie (Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia) S.109 in due parti per coro femminile e orchestra di Franz Listz. È una sinfonia corale a programma che si collega, in un certo senso al mondo del teatro d’opera, in quanto il compositore ungherese la dedicò a Richard Wagner, musicista che dopo qualche anno divenne suo genero, scrivendo sull’autografo “con commossa e partecipe ammirazione, e con fedele amicizia” aggiungendo a queste parole, nella partitura inviata personalmente a Wagner, altre altrettanto significative: “Come Virgilio per Dante, nello stesso modo tu mi hai insegnato la strada attraverso le misteriose contrade dei sublimi e soprasensibili mondi dei suoni: dal più profondo del cuore salga a te il grido ‘Tu sei lo mio maestro e il mio autore!’ consacrandoti questo lavoro con immutabile appassionata devozione”.
La Dante Sinfonie, eseguita per la prima volta a Dresda nel 1858, è suddivisa in due parti Inferno e Purgatorio con un Magnificat che conclude il brano; supera la concezione classica di questo genere musicale ed è evocatrice di sensazioni e di suggestioni espresse con l’ausilio della grande orchestra che esalta l’abilità di strumentatore di Liszt. Una composizione che segue di pochissimo un’altra, breve ma significativa, del 1849, Après une Lecture de Dante. Fantasia quasi sonata, per pianoforte inserita nel secondo volume degli Années de pèlerinage.
Claudio LISTANTI Roma 29 agosto 2021