di Francesca SARACENO
Per avere un’idea di quanto possa essere stato difficile per Michelangelo da Caravaggio farsi largo nella giungla di artisti ambiziosi che affollava la Roma a cavallo tra i secoli XVI e XVII, e le ragioni dell’astio che accompagnò costantemente la sua carriera per i pochi anni in cui fu attivo, occorre considerare diverse circostanze e, anzitutto, il contesto specifico in cui gli artisti si muovevano in quel particolare momento storico.
Si avviavano alla fine i lavori di completamento della Basilica di San Pietro, ma da anni Roma era un cantiere a cielo aperto, un opificio di costruzioni, architetture e decorazioni che gli alti gerarchi della Chiesa e l’aristocrazia cittadina facevano erigere in ogni parte della città. Nella zona compresa tra la chiesa di Sant’Agostino e Piazza San Luigi dei Francesi (fig. 1, A-B), avevano preso dimora alcune facoltose famiglie, tra le quali i Giustiniani, gli Aldobrandini e i Crescenzi, ansiosi di arricchire le loro residenze di pregiate collezioni.
Questo contesto così operoso aveva richiamato nell’Urbe una quantità di artigiani e maestranze di ogni genere e provenienza, attratti dalle innumerevoli opportunità di lavoro e insieme di studio, che certamente non mancavano. Proprio nella zona sud di Campo Marzio, su via della Scrofa (fig. 1, C), erano sorte, infatti, molte botteghe d’arte, la cui produzione seriale comprendeva prevalentemente immagini sacre, ritratti e varie copie.
Ma in una situazione così variegata e brulicante di ingegni, attitudini e personalità diverse, era fisiologico si manifestassero fortissime rivalità. Soprattutto nell’ottica del comune interesse ad assicurarsi ciascuno una fetta importante di mercato. Per un artista arrivato da poco o ancora sconosciuto, entrare a servizio nella bottega di un prestigioso maestro costituiva, oltre che un’opportunità di studio e affinamento delle proprie capacità, anche un primo passo verso la possibile affermazione professionale.
E proprio nelle botteghe di Lorenzo Carli, Antiveduto Gramatica e poi dei Cesari, Caravaggio fu attivo nei suoi primi anni a Roma. Alcuni tra i pittori considerati più meritevoli ma ancora sconosciuti, avevano occasione di esporre le proprie opere nelle mostre pubbliche che si allestivano in città durante le festività religiose che prevedevano processioni. Una delle più partecipate era quella detta delle “Rogazioni”, che si teneva a Roma tra aprile e maggio, nel periodo che precedeva la festa dell’Ascensione. Da uno studio di Orsetta Baroncelli (2011) si evidenzia infatti che
“In queste circostanze gli artisti esponevano e vendevano i loro manufatti assieme ad artigiani e mercanti: questo tipo di compravendita, considerata non dignitosa per un pittore affermato, era praticata prevalentemente da artisti agli inizi della carriera, da pittori di genere, da artisti appena giunti a Roma o che vi erano tornati dopo una lunga assenza.”
Lo stesso Caravaggio, come risulta dal racconto di Carlo Cesare Malvasia (1678), ebbe modo di fruire di questa opportunità “minore” ma comunque utile, nel suo primo tempo romano, quando le sue opere
“che prima, per non esser mirate d’alto, anzi avvilite dal bisogno, mendicavano con poca riputazione ogni dispaccio sulle pubbliche mostre.”
Sulla “poca riputazione”, però, ci torneremo a breve.
È chiaro che non tutti potevano ambire agli onori della ribalta; vuoi per la difficoltà di agganciare conoscenze utili, vuoi per l’assenza di particolare talento, indispensabile per farsi notare. Peraltro, si veniva da quello che Luigi Antonio Lanzi (1796) definì un “guasto secolo”, quello in cui i pontefici (soprattutto Sisto V), per le opere più prestigiose, avevano favorito artisti “che aveano celerità di pennello” a scapito di quelli davvero talentuosi, temendo solo di non riuscire a godere delle loro commissioni finite fintanto che erano in vita; e questo aveva – secondo lo storico marchigiano – prodotto opere eseguite in maniera frettolosa e dunque di non eccelsa qualità e gusto. E le cose non erano migliorate sotto Clemente VIII, assurto al soglio pontificio sul finire del secolo XVI, mentre ci si preparava alacremente al giubileo dell’anno 1600, quando a Roma si attendevano una gran quantità di pellegrini e visitatori da ogni parte d’Europa; da qui, la necessità di concludere in fretta il maggior numero di opere in cantiere e presentare la città nella sua veste migliore, con il rischio, però, di perpetuare quella condizione di produzioni non eccelse, figlie più della fretta che non della maestria.
In questo contesto si staglia, quale estremo paradosso, la figura singolare e leziosa di Giuseppe Cesari d’Arpino (fig. 2), pittore fortunatissimo e non altrettanto consapevole o grato, favorito e onorato dai più influenti personaggi dell’alta aristocrazia cittadina nonostante la flemma proverbiale. Per decenni a Roma (e non solo), Cesari fu asso pigliatutto nell’ambito delle decorazioni pittoriche di chiese e residenze prestigiose; lavori che, spesso, l’artista arpinate eseguì con estrema (a volte estenuante) lentezza, tanto da irritare non poco pontefici e vari facoltosi committenti. Eppure, incredibilmente, era proprio la sua “maniera” a spopolare, praticamente incontrastata, nel contesto artistico romano di fine Cinquecento. Il suo, riferisce Lanzi, era quel “gusto del secolo già depravato [che] correa dietro il falso, purché avesse un po’ di brillante”, e rincara la dose quando afferma che in quel turbinare affollato e “vago” di figure d’arpiniane, i più non ravvisavano
“le scorrezioni del disegno, […] la monotonia dell’estremità, […] il non render ragione a sufficienza delle pieghe, delle degradazioni e degli accidenti de’ lumi e delle ombre”.
In definitiva la fortuna del Cavaliere si era fondata, non certo sulla “celerità di pennello” ma, essenzialmente, sull’abbaglio che le sue scene fantasiose, ridondanti e ben colorite, avevano provocato ai ricchi committenti, facendo loro persino sopportare le sue infinite lungaggini. E faceva proseliti a non finire quella “maniera” tanto esaltante quanto estremamente idealizzata, anche perché non aveva rivali.
La bottega del Cavalier Giuseppe Cesari e del fratello Bernardino si trovava alla Torretta (Crf. fig. 1, D) e, attingendo all’ampio bacino offerto dai cantieri romani, formava e impiegava pittori su pittori, fedeli al venerato e impegnatissimo maestro più ancora che alle proprie inclinazioni. Un artista come il Caravaggio, però, non poteva rimanere nell’ombra per molto. Troppo chiaro il suo talento, troppo dirompente la sua personalità, troppo ferma la sua determinazione. Ma soprattutto, troppo diverso il suo stile pittorico.
Egli arrivò a Roma in un momento ben preciso che praticamente tutte le fonti storiche individuano, quello cioè in cui
“l’arte veniva combattuta da due contrari estremi; l’uno tutto soggetto al naturale, l’altro alla fantasia” (G.P. Bellori, 1672).
Già questa premessa inquadra lo sfondo fortemente antitetico nel quale i due pittori si trovarono a operare ma, fino all’arrivo del Merisi, con una preponderanza evidente del manierismo sul naturalismo. Nella seconda metà del Cinquecento, il Barocci aveva iniziato a tingere di avvolgente, intenso chiaroscuro l’idea di una pittura più vicina al naturale, ma forse proprio per questo fu osteggiato al punto da voler lasciare Roma per tornare nella natia Urbino.
Quando il Merisi, dopo il passaggio presso le botteghe di Carli e Gramatica, approdò all’atelier del cavalier d’Arpino, nella primavera del 1596, la terra alla Torretta dovette tremare non poco. Non si trattava certo del ragazzino inesperto e dimesso da relegare alla macina dei colori o che si poteva pensare di lasciare a “dipinger fiori e frutti” a tempo indeterminato. Il cavaliere sapeva riconoscere risolutezza e talento, quando li incontrava, e sentiva già che quel giovane lombardo avrebbe ben presto posto un argine allo strapotere della sua “maniera”.
Michele era arrivato come un gatto randagio, affamato di successo e di “verità”, in una gabbia di uccellini cinguettanti leggiadre e fantastiche favole colorate.
La realtà nuda e cruda contro la fantasia estrema. I “fatti” contro la “vaghezza”. Si profilavano già le premesse per una lotta senza quartiere, destinata a sconvolgere gli equilibri dell’ambiente artistico romano, ai più alti livelli. E se si considera che entrambi gli artisti avevano attratto ciascuno un numero consistente di accoliti e seguaci, che ai loro rispettivi stili pittorici si trovavano inclini, oltre a condividere interessi commerciali, la formazione di due partiti contrapposti e belligeranti era del tutto inevitabile. Ciascuno aveva preso posizione secondo le proprie convinzioni artistiche e aspirazioni professionali, ritenendo maggiormente utile alla propria carriera, appoggiare il Cavaliere piuttosto che il Caravaggio. Lo scontro era inevitabile e non tardò a manifestarsi.
Un personaggio come d’Arpino, cresciuto nel mito di se stesso, senza quasi temere rivali, col solo fastidio dei committenti che letteralmente lo pregavano di finir loro le opere iniziate, vide invaso il suo territorio di conquista, nonché insidiato il suo fruttuoso ideale artistico, da un talento straordinario, impossibile da sottovalutare. Anche perché, l’artista lombardo, fece molto presto a guadagnarsi la stima e l’ammirazione non solo di molti colleghi pittori ma anche di personaggi facoltosi ai più alti livelli della buona società romana e delle alte gerarchie ecclesiastiche.
E questo per un maestro come il d’Arpino, fino a quel momento il solo venerato artista oggetto del desiderio per quelle importanti personalità, significava avere un rivale pericoloso, sia dal punto di vista stilistico, per la novità tecnica e concettuale che il Caravaggio aveva introdotto (e che piaceva moltissimo), sia per la concreta possibilità che egli riuscisse a sottrargli molta parte dei lavori di prestigio che in città si intendevano compiere. Un timore (fondato) di cui, nel tempo, lo stesso cavaliere arpinate doveva essere stato causa per i suoi colleghi pittori, i quali, da quando Gioseppe era comparso sulla scena artistica romana, coperto da potenti protezioni, dovevano aver avuto ben poche occasioni di emergere.
Il Cavaliere probabilmente non aveva mai sentito su di sé, fino ad allora, l’alito venefico dell’invidia che quel suo strapotere poteva aver generato e forse si trovò impreparato nel momento in cui, come scrive Malvasia
“Gli emuli, stimolati non meno dalla invidia, che inaspriti dal danno di così potente protezione, gli concitarono contro il Caravaggio”.
Operazione, se davvero ebbe luogo, assai facilitata dalla evidentemente già nota avversione del Merisi per l’ex maestro. Il quale non era stato certo “benevolo” con il suo allievo lombardo quando, continua Malvasia,
“in certa infermità accadutagli mentre serviva il Cavaliere, poco da questi compatito, e meno sostenuto, di servitore, se gli era dichiarato nemico.”
La circostanza riportata dal Malvasia, si riferisce all’episodio della ferita alla gamba procurata al Caravaggio dal calcio di un cavallo, mentre stava a bottega dal Cesari, e per la quale quest’ultimo non volle chiamare un chirurgo che la curasse.
Ma c’era dell’altro; avendo il Caravaggio eseguito il ritratto del priore dell’Ospedale della Consolazione – dov’era stato condotto dall’amico Lorenzo Carli proprio per il mancato aiuto del d’Arpino – Malvasia (contraddicendo in parte la sua stessa affermazione secondo cui le prime opere del Merisi “mendicavano con poca riputazione”…) racconta che
“Essendo poi questo esposto per le rogazioni, fu venduto; né conosciuto di chi fosse, né stupì l’istesso [Giuseppe Cesari] e lo lodò, fece subito sapere il Caravaggio esser lui, allora vollero il maestro e gl’altri retrattarne la lode […] ma non ferono in tempo.”
La vicenda dovette svolgersi in occasione di una di quelle mostre pubbliche citate all’inizio, durante la processione delle “Rogazioni”. Lodare l’opera del dichiarato – ma in quella circostanza anonimo – nemico, fungendo indirettamente da trampolino verso la sua affermazione, fu una leggerezza che il Cesari forse non si perdonò, perché sapeva che la sua “voce” nell’ambiente aveva un peso notevole, e non poter più “ritrattare” dovette irritarlo parecchio. Con un rivale come Caravaggio non c’era davvero di che stare sereni.
Ma in quel preciso momento, nel fitto intreccio di correnti e affiliazioni, Caravaggio e d’Arpino avevano, in realtà, un concorrente in comune: si chiamava Annibale Carracci (fig. 3), ed era destinato a un successo professionale e accademico pari, se non maggiore, a quello ottenuto dall’arpinate. Annibale era arrivato a Roma nello stesso periodo del Merisi, ma lo aveva preceduto la grande fama guadagnata a Bologna. La sua scuola offriva a quel “guasto secolo” dibattuto tra manierismo e naturalismo, la sintesi perfetta, che dall’uno e dall’altro stile prendeva il meglio, ponendosi quale compromesso virtuoso tra gli eccessi di un naturalismo che sembrava non contemplare alcuna “idea” e quelli di una maniera che invece pareva rifiutare ogni riferimento alla natura. Il bolognese Carracci proponeva tutto ciò di cui l’arte aveva bisogno: “historie” non troppo affollate, una vivacità cromatica decisamente più tendente al naturale che all’ideale, attenzione nella scelta delle forme migliori, cura nel disegno e armonia nella composizione. Il che faceva di lui l’eroe “dall’indole ordinatissima” che “innalzò il suo felice genio” permettendo che con esso “risorgesse l’Arte caduta, e quasi estinta” (G.P. Bellori, 1672).
Il cavalier Gioseppe dovette vedersela, dunque, oltre che col nemico Caravaggio e i suoi seguaci, anche con il virtuoso Annibale e con gli adepti che la sua scuola, in numero sempre maggiore, accoglieva. A differenza del Caravaggio, però, Annibale e i suoi allievi, dipingevano magnificamente anche a fresco (tecnica che Caravaggio non praticava), e questo, insieme al quel nuovo stile così caldamente accolto, significava un gran numero di lavori lunghi, prestigiosi e molto ben pagati che il d’Arpino si sarebbe visto mancare, per volarsene nelle abili mani del lodatissimo bolognese. Ebbene, se con i committenti, forte del suo strapotere, il Cesari aveva potuto ostentare un atteggiamento indolente al limite dell’antipatia, con questi suoi nuovi inattesi rivali non esitò a mostrare il lato di sé più agguerrito, risoluto e scaltro.
Pensare al cavalier d’Arpino come a una sorta di “dandy” della pittura ha valore solo in parte, perché, a quanto raccontano le fonti biografiche, Giuseppino pur nella sua spocchiosa “eleganza”, non si sottraeva al fascino (e si presume alla necessità) della forza come espressione di potere e del proprio status sociale. Racconta Giovanni Baglione (1642), che il cavaliere si era
“sempre copiacciuto di apparir bizzarro, di andare bene spesso a cavallo, e di cingere sepre spada infino a’ giorni dell’ultima malattia; anzi diletossi di fare scelta di bellissime armi, come nel suo studio si è veduto”.
Le stesse armi che Scipione Borghese, nel 1607, gli sequestrò per mettere le mani sulla sua collezione di dipinti (tra i quali due dei sei Caravaggio ancora oggi alla Galleria Borghese).
Dunque non era solo il Merisi ad essere affascinato dalle armi e a compiacersi di andarsene in giro con la spada al fianco, ostentando i “segni” della conquistata affiliazione ai più alti ranghi della società romana; non era costume solo suo, ma di qualunque personaggio potesse avvalersi di quei segni. Possedere delle armi faceva la differenza, anche per la fama di un artista. Allo stesso modo, non era solo il “rissoso” Caravaggio a doversi guardare le spalle da potenziali pericoli. Le occasioni per usarle, quelle armi così fieramente ostentate, non erano affatto rare per le strade di una Roma affollata e turbolenta.
Tra artisti, però, le ragioni del contendere spesso esulavano dai moventi “cavallereschi” ai quali orgogliosamente tenevano a legare la propria immagine e la propria professione; il più delle volte la ragione vera era la “fede” artistica, la reputazione accademica che ciascuno teneva a difendere e, più di tutto, le opportunità professionali che tutti bramavano procacciarsi.
In un contesto così profondamente divisivo, in cui si fronteggiavano due opposti modi di intendere l’arte, il rischio era che saltasse ogni regola, destabilizzando l’ambiente e rendendo la situazione generale difficile da gestire. Nessuno scrupolo, ogni mezzo era lecito, e il beneamato cavaliere arpinate non esitò a tirar fuori le unghie. Ne fece esperienza il pacifico Annibale. Scrive infatti Bellori che
“Il Cavaliere Giuseppe d’Arpino hauendo udito ch’egli haveva biasimato una sua opera, lo sfidò con la spada: pigliò Annibale il pennello, e disse io ti disfido.”
Col nemico Caravaggio, però, nonostante fosse guerra aperta, il d’Arpino pare non volle misurarsi con le armi, a suo dire perché “questi non era ancor cavaliere” (L.A. Lanzi, 1796) Oppure… perché sapeva che, a differenza di Annibale, Michele usava la spada esattamente come usava il pennello. Il talentuoso e rampante ex allievo, Giuseppe Cesari preferiva batterlo sul terreno della professione e, per farlo, escogitò piani d’azione degni del più consumato stratega.
Stando alle cronache dei biografi, a essere coinvolto nei piani del d’Arpino fu l’ignaro Guido Reni (fig.4), mosso dal cavaliere come una pedina sull’ampio scacchiere dei lavori che si presentavano in città. Quando Guido era arrivato a Roma, tra il 1600 e il 1601, Giuseppe Cesari era già Principe dell’Accademia di San Luca, dunque rivestiva una posizione di potere che gli permetteva di tessere le sue trame con una certa disinvoltura, forte anche delle numerose affiliazioni dentro e fuori dall’Accademia. Sapendo forse che il Carracci non era affatto contento della presenza dell’ex allievo in città, d’Arpino aveva preso a promuovere il virtuoso Reni presso i committenti, non tanto per il suo indubbio valore di artista, quanto perché, attraverso quel suo talento che tanto piaceva ai potenti, il cavaliere sapeva di poter infastidire il Carracci e insieme, nuocere concretamente alla carriera dell’odiato Caravaggio.
A tal proposito, racconta Giovan Battista Passeri (1772), l’episodio in cui il cardinal nepote, Scipione Borghese, nell’ordinare una Crocifissione di S. Pietro per la chiesa di San Paolo alle tre fontane,
“voleva dare questo lavoro a Michel Angelo da Caravaggio. Il Cavaliere Giuseppino che l’odiava […] procurò, che questo pensiere del Cardinale andasse a vuoto, acciocchè il Caravaggio restasse privo di quella occasione da farsi conoscere maggiormente, e gli sortì il suo intento, procurando che Guido avesse il quadro della Crocifissione […].”
Ma non bastava soffiare al rivale la commissione; l’onta per il fiero Caravaggio, doveva risultare oltremodo bruciante. Doveva essere battuto sul suo stesso terreno. E infatti, continua il Passeri
“Avuta che Guido ebbe tale incombenza fu pregato dal Cavalier Giuseppe che s’ingegnasse di dipingere nello stile del chiaro scuro, et che procurasse con la nobiltà della sua idea di superar quello nella maestà, e nel decoro. S’adoprò Guido con ogni diligenza per servire il Cavaliere, e per fare a se medesimo un maggior vantaggio […] Esposto che ebbe il quadro ne ricevè applauso grandissimo, ed il Cavalier Giuseppino allora accreditato al maggior segno, ne faceva encomi non ordinari.”
Da ciò si evince che l’intento del d’Arpino era, anzitutto, screditare lo stile pittorico del Merisi, opponendovi la poesia, la morbidezza del pennello di Guido che smorzava le tetraggini e i bagliori chiaroscurali del naturalismo caravaggesco; uno stile simile ma che lo superava proprio in ciò di cui la pittura del lombardo, secondo i suoi detrattori, difettava: ovvero “maestà e decoro”. Che poi
“queste lodi benchè fossero di gran giovamento alla fama di Guido erano fatte dal Cavaliere più per abbattere l’avversario [Caravaggio], che per giovare a Guido”,
si potrebbe considerare una forzatura da parte del biografo, se non fosse che, subito dopo, egli afferma:
“Non s’accorgeva Guido che egli era lodato solamente per maligna politica ed oltre ciò stimava gran valentuomo il Caravaggio, come realmente lo era, ne lo credeva solamente capace, come disse taluno di dipingere piedi fangosi, e scuffie sdruscite, e sudice.”
Sullo sfondo di una prevedibile riforma delle regole di mercato e degli statuti accademici, l’espressione “maligna politica” rende alla perfezione la realtà del clima fortemente competitivo in cui gli artisti operavano, e che aveva un’origine materiale ma anche teorica, perché a scontrarsi erano fondamentalmente due modi diversi di intendere la pittura. E riferire, nonostante tutto, la stima di Guido Reni verso il “valentuomo” Caravaggio, a cui si unisce lo stesso biografo che ammette “come realmente lo era”, ci dà l’idea plastica dell’ostilità ingiusta e spropositata di cui il Merisi fu fatto oggetto e che non poté di certo accettare passivamente.
Dal canto suo, Annibale Carracci, al quale la fortuna professionale sorrideva più che in abbondanza, tanto da poter presumere non dovesse avere poi molto da temere (nemmeno dal Caravaggio), non dovette digerire davvero la presenza di Guido Reni, il quale, oltre che per lavorare, pare fosse venuto a Roma
“altresì [per] rivedere, e riverire l’amato Annibale, [suo antico maestro] che altrettanto stimava, quanto da quegli veniva poco corrisposto.”
Infatti “ad Annibale non piacque questa prossimità di Guido, e non potè non darne manifesti segni di poco gusto, dolendosì con l’Albani, che ve l’avesse condotto.” (C.C. Malvasia, 1678)
Pare sia proprio di certi maestri temere gli allievi più talentuosi, e Annibale, se ne deduce, temeva l’estro di Guido, quanto il d’Arpino quello del Caravaggio. E questo già dai tempi in cui lo aveva in bottega a Bologna, quando il cugino Ludovico – ingenuamente – gli insegnava i segreti del mestiere, e lui lo ammoniva:
“non gl’ insegnar tanto a costui, non gl’insegnar tanto, che un giorno ne saprà più di tutti noi […] Raccordati, Lodovico, che costui un giorno ti vuol far sospirare.” (C.C. Malvasia, 1678)
Ora, se comunque è meglio prendere con le pinze gli aneddoti dei biografi, della cui attendibilità e imparzialità spesso è bene dubitare, non si può certo dire che Annibale non avesse avuto la vista lunga, perché in verità il talento del suo ex allievo, prese il largo ben presto sia a Bologna che a Roma, dove realmente non tardò ad emergere e dare filo da torcere alla concorrenza; e le lodi del cavalier d’Arpino al nuovo pupillo, nonostante potessero avere un “movente” personale (ostacolare il più possibile l’ascesa del Caravaggio e della sua fazione “naturalista”), certamente furono utilissime al virtuoso Guido, cui, al momento opportuno, si spalancarono anche le porte dell’Accademia. In qualche modo però, la sponsorizzazione di Guido da parte del d’Arpino, qualche effetto sul Merisi dovette sortirlo, perché la sua presenza in città, scrive Malvasia,
“se non piacque ad Annibale, tanto più spiacque al Caravaggio, che temette assai dì una nuova maniera, totalmente alla sua opposta, ed altrettanto, quanto la sua gradita.”
Ebbene, che Malvasia tenga a rimarcare sulla distanza stilistica tra i due artisti, e sull’identico gradimento in favore del Reni (che pure a Caravaggio guardò e anche parecchio, almeno nel suo primo periodo di attività romana) è abbastanza evidente. Ma credo sia importante notare che, a differenza di quanto riportato dal Passeri che sottolineava l’acredine personale del cavalier d’Arpino verso l’artista lombardo (“Il Cavaliere Giuseppino che l’odiava”), in riferimento ai timori del Caravaggio verso Guido, Malvasia ne parla invece specificamente in termini di “maniera”, ossia riferisce di motivazioni esclusivamente artistiche. Non accenna a eventuali ritorsioni del lombardo contro l’arpinate, magari rivalendosi sul suo protetto, ma sottolinea che l’ostilità del Caravaggio verso il Reni si fondava essenzialmente sul concreto intralcio che il successo del bolognese costituiva per la sua carriera, nell’ottica di un confronto stilistico serrato e progressivamente discorde. Il che rientra perfettamente nella casistica delle rivalità tra artisti a matrice prevalentemente professionale.
Dunque, mentre lo stile del Caravaggio, nonostante le invidie e l’ostilità, esplodeva in tutta la sua trascinante, “naturalistica” magnificenza, sul fronte opposto si delineava sempre più chiaramente una tendenza conservatrice volta a preservare i fondamenti tecnici e teorici dell’arte, ancorandoli alla tradizione classica ed elevando la pittura al rango di “arte liberale”, attraverso la valorizzazione delle pitture di storia (per le quali si avevano le commissioni più prestigiose e pubbliche) su quelle naturalistiche e di genere (per lo più legate a committenze private e meno blasonate).
In tal modo si allontanava progressivamente l’arte pittorica dal più umile contesto artigianale; proprio quello in cui si voleva – invece – circoscrivere lo stile del Caravaggio, totalmente votato all’imitazione della natura, alla sperimentazione tecnica e compositiva, affidando tutto alle innate capacità manuali e trascurando lo studio delle necessarie basi teoriche (del cui insegnamento in Accademia era stato sostenitore Federico Zuccari), nonché il rispetto quasi sacrale verso il “decorum”. Si cercava di affermare, quindi, il principio dell’arte non più intesa come “mestiere” ma come espressione di intelletto. “Pittori”, dunque, e non “dipintori”. E forse non è un caso che Caravaggio non fu mai, o non fece in tempo a diventare, membro dell’Accademia di San Luca, dove infatti si allargava sempre di più il partito dei conservatori, i quali tendevano a escludere artisti che praticavano un genere di pittura considerata meno “nobile”.
È chiaro che, in tal senso, la caparbietà del Caravaggio nel rimanere fedele al suo ideale artistico, e insieme il consenso che questo riscuoteva a piene mani, dovevano dare parecchio fastidio in quell’ambiente. Ma i mezzi per nuocere al Merisi non mancavano di certo; danneggiare la fama di un personaggio come lui era un fine perseguibile anche attraverso quella pratica becera, ma pur sempre efficace, chiamata “maldicenza”.
D’altra parte, come risulta anche dagli atti del processo in cui fu imputato Caravaggio nel 1603, nel quartiere degli artisti intorno a via della Scrofa, si moltiplicavano le collaborazioni ma anche la concorrenza tra laboratori d’arte, e la reputazione di un pittore poteva essere esaltata o distrutta in poco tempo, correndo di bottega in bottega, nelle osterie come nelle rivendite di colori e materiali dove gli artisti si rifornivano; tutti luoghi dove spesso si incontravano e avevano modo di scambiarsi opinioni, pettegolezzi e pronostici su chi avrebbe ottenuto un certo lavoro o una certa commissione. E magari riuscendo anche a essere determinanti in tal senso. La reputazione, ovvero il consenso di cui un artista poteva godere da parte dei colleghi, era importante quanto le protezioni più influenti.
Se è dunque veritiero e documentato il racconto di questa aspra e generalizzata rivalità tra artisti nella Roma di fine Cinquecento e inizio Seicento, è vero pure che il discorso va ricondotto entro i confini di un contesto sociale e professionale comune, e di un progressivo riassetto teorico e istituzionale di tutto l’ambiente artistico, all’interno del quale montava l’ostilità verso la figura e lo stile pittorico del Caravaggio.
Non per niente, tra i nemici giurati del lombardo, che più di tutti probabilmente riuscì a nuocere alla sua carriera, troviamo Giovanni Baglione (fig. 5); la cui acrimonia nei confronti del rivale fu pari solo alla ferma determinazione con cui agì per minare la sua reputazione. L’astio tra Giovanni e Michelangelo era nato nel periodo in cui il lombardo frequentava la bottega e i collaboratori di Antiveduto Gramatica, il quale, dopo diverse partnership, era entrato in conflitto con il pittore Tommaso Salini (fig. 6), noto “piantagrane” all’interno delle società di cui fece parte, nonché amico fraterno del Baglione, con il quale il sodalizio, invece, fu pressoché indissolubile.
Ora, che anche Baglione potesse sentirsi minacciato nella professione dal Merisi è ovvio e verosimile, considerando che il talento era abbondantemente a favore del lombardo. E, dal momento che i riconoscimenti pubblici da parte dei colleghi così come di esimie personalità, avevano un valore e un peso sull’ascesa di un pittore, è plausibile che Baglione, coadiuvato dal fido Salini, si adoperasse anche lui, in ogni modo pur di screditare il rivale. Poteva bastare poco: una critica ben piazzata, un sospetto di trasgressione, badando bene – comunque – di uscirne ogni volta “pulito” e attingendo parecchio anche dalle frequenti intemperanze “extra-professionali” del pittore lombardo, che di certo al romano facevano gioco. Ma i risultati migliori vennero quando l’ambizioso Baglione, che già aveva nel mirino una posizione di prestigio all’interno dell’Accademia di San Luca, si pose alla pubblica attenzione come “vittima” del Caravaggio, forte delle norme contenute in un bando del 1599 emesso da papa Clemente VIII, che prevedeva pene severissime per ogni forma di diffamazione a mezzo di scritti (avvisi, lettere o versi resi pubblici).
Quando nel 1603 Baglione riuscì a trascinare in tribunale Caravaggio e i suoi seguaci, con la scusa dei famigerati “libelli” diffamatori fatti circolare ovunque negli ambienti frequentati dai pittori, all’accusa di calunnia si accompagnò la lesione “dell’onore” dell’artista romano. Ma per Caravaggio si era trattato molto probabilmente di un atto di ritorsione per dei torti a sua volta ricevuti. L’artista lombardo, già esacerbato dall’antica faziosità tra il suo “clan” e quello del romano, non aveva certo dimenticato il commento sprezzante del potente Federico Zuccari (portato proprio dal Baglione a vedere le tele Contarelli) verso la sua “Vocazione di San Matteo”; giudizio che l’infido Giovanni aveva probabilmente provveduto a diffondere ovunque provando a svilire e ottenebrare il successo strepitoso di quei dipinti. Ed è chiaro che, non appena se ne presentò l’occasione, il Caravaggio ripagò il rivale della stessa moneta e con gli interessi.
La pala della “Resurrezione” di Giovanni Baglione, “soffiata” al Caravaggio per la Chiesa del Gesù, fu il bersaglio perfetto per la vendetta. Un dipinto (andato perduto) tanto enorme quanto pretenzioso, almeno a giudicare dallo studio preparatorio oggi al Louvre, nel quale si nota che l’artista romano aveva attinto, in qualche modo, sia dalle atmosfere carracciane che dalle potenti immagini caravaggesche a San Luigi dei Francesi. Ebbene, i testi dei libelli diffamatori, nei quali Baglione viene pesantemente insultato, parlano chiaramente, e in massima parte, della sua pittura, della sua scarsa abilità, delle mancate capacità tecnico-stilistiche per le quali, tra l’altro, secondo Caravaggio e i suoi amici, il rivale non avrebbe certo meritato quella grossa collana d’oro che aveva ricevuto in dono dal cardinale Benedetto Giustiniani per il quadro dell’Amor Sacro; anch’esso un chiaro tentativo di sminuire il trionfale “Amor vincit ominia” del Merisi eseguito per il fratello del cardinale, ovvero il marchese Vincenzo.
In un ambiente in cui abiti sfarzosi e armi spavaldamente ostentate, definivano lo status sociale anche dei pittori, una collana come quella costituiva un riconoscimento molto importante, che oltretutto, a livello professionale, innalzava grandemente la fama di un artista. Ma ottenerla mortificando l’opera e il successo di un collega era un affronto che non poteva rimanere impunito, e costituiva un pesante precedente. Diventava, a quel punto, davvero una “questione d’onore”.
I libelli, come detto, costarono al Caravaggio una denuncia per diffamazione, e le cronache documentali degli atti del processo evidenziano i mezzi subdoli e truffaldini con cui Baglione e Salini si procurarono le “prove” per inchiodare i rivali alle proprie responsabilità. Caravaggio, in sede di interrogatorio si destreggiò egregiamente e alla fine se la cavò con poco, grazie all’intervento dei suoi protettori. Ma l’eco di quella vicenda, unitamente alle maldicenze quotidiane e alle intemperanze caratteriali, avrebbero tarlato progressivamente la pur consolidata reputazione artistica del Merisi, con pesanti ripercussioni sul prosieguo della sua carriera romana, fino a sfociare nei controversi casi delle “Madonne” contestate, per arrivare al rifiuto della “Morte della Vergine” da parte dei padri rettori di Santa Maria della Scala.
Quando il Caravaggio fu costretto a fuggire da Roma, dopo l’omicidio di Ranuccio Tomassoni (28 maggio 1606), la strada per Giovanni Baglione fu tutta in discesa. Una volta fuori gioco l’avversario, immediatamente il romano si adoperò per ritagliarsi una posizione di prestigio tra i colleghi più titolati, con l’elezione del nuovo Principe dell’Accademia di San Luca, evento che si tenne pochi mesi dopo i fatti di Campo Marzio e il repentino allontanamento del Merisi.
Il vento stava cambiando nell’ambiente artistico romano e la separazione sempre più netta, bellicosa e destabilizzante tra conservatori di fede classicista e “progressisti” artigiani del naturalismo, imponeva un profondo riassetto degli ordinamenti accademici e tendeva a porre la pittura su un piedistallo di nobiltà concettuale, che escludeva di fatto dai lavori di maggior prestigio, tutti quei pittori di generi e stili considerati minori, che non erano ben visti nell’ambito accademico. A completare il quadro, l’idea di una “oligarchia accademica” che avesse
“il controllo indiretto delle botteghe e del mercato minuto, negando ai propri membri la possibilità di lavorare a bottega.”
E che istituisse il rilascio di un «privilegio», una sorta di patentino con cui si sarebbero abilitati “i membri all’esercizio della professione”, esentandoli “dal pagamento delle tasse alle quali sono altrimenti sottoposti i non accademici” (I. Salvagni, 2008)
Su queste basi si fondava il pensiero “riformatore” di Paolo Guidotti (fig. 7), ambizioso pittore spalleggiato dai Borghese, che diede la scalata ai vertici dell’Accademia di San Luca fino all’elezione alla massima carica di Principe nell’agosto del 1606. In favore di questa elezione si spese Giovanni Baglione, e quando nell’autunno di quello stesso anno venne assaltato da un certo Carlo Piemontese, che aveva tentato di intralciare l’elezione di Guidotti, ed era ritenuto affiliato al “partito” del Caravaggio, Baglione non esitò ad accusare il rivale lombardo, già esiliato, di essere il mandante di quella aggressione. Un’ulteriore “ombra” sulla reputazione del Merisi, appesantire la sua “fedina penale”, avrebbe potuto rendere più difficili le trattative per ottenere il perdono papale (per il quale già i protettori del Caravaggio si erano attivati) e impedire quindi il suo ritorno a Roma. Sappiamo tutti come la vicenda si concluse e come, in seguito, un’ingiusta damnatio memoriae inghiottì per quattro secoli la figura del Caravaggio, che forse, nelle acque agitate delle dispute tra i pittori del suo tempo, fu il più aspramente perseguitato.
Ma di storie di ordinaria (e “non ordinaria”) rivalità tra artisti, in quegli anni e successivamente alla morte del Merisi, se ne ha notizia anche al di fuori delle mura dell’Urbe; e i protagonisti furono, anche in questo frangente, i suoi concorrenti romani, “vittime” – guarda caso – di altri pittori seguaci del lombardo. Celebre è la storia della commissione per le decorazioni della Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro a Napoli, che iniziò nel 1618, e per la quale Guido Reni e forse lo stesso cavalier d’Arpino (che anche questa volta si era fatto attendere oltremodo) furono oggetto di gravi intimidazioni e indotti a rinunciare all’incarico. Nel contesto artistico partenopeo, al prestigio di un lavoro di tale importanza, si aggiungeva un forte spirito campanilistico, nutrito dal sentimento direi viscerale dei napoletani verso il loro santo patrono.
Qui non si trattava solo di stile pittorico, reputazione e carriera, ma di un profondo senso di appartenenza culturale che legava gli artisti locali al proprio territorio, al punto da voler impedire con ogni mezzo che pittori forestieri potessero lasciare la loro impronta in un luogo così intimamente napoletano.
I caravaggeschi Battistello Caracciolo, Belisario Corenzio e Jusepe Ribera, componenti di quella che venne denominata la “cabala di Napoli” e che operò le più efferate azioni di contrasto verso gli usurpatori stranieri, rivendicavano anzitutto il loro diritto di prelazione su quella commissione in quanto residenti; diritto che sentivano essere stato violato della Deputazione (l’organismo cittadino che si occupava dei lavori della erigenda Cappella) in favore di artisti provenienti dall’Urbe. Dopo varie proteste e i numerosi atti di pericolosa ostilità ai danni dei pittori concorrenti, nel 1628 tale diritto venne riconosciuto e le loro proposte furono vagliate ma rifiutate.
Due anni dopo la commissione per le decorazioni della Cappella fu finalmente assegnata a Domenico Zampieri, ma il rancore e la delusione di Battistello e dei suoi era ancora talmente forte da riuscire a mettere in fuga anche il pittore bolognese, costretto qualche tempo dopo – nonostante i fondati timori – a tornare a Napoli e riprendere i lavori, se non altro per recuperare moglie e figlia, imprigionate e tenute “in ostaggio” dai napoletani. Zampieri non riuscì comunque a completare il ciclo pittorico che gli era stato assegnato morendo improvvisamente (forse avvelenato) nell’aprile del 1641 e, alla fine, il “sigillo” sulla Cappella lo mise Jusepe Ribera, eseguendo l’ultima opera rimasta a disposizione, ovvero la pala del “San Gennaro esce illeso dalla fornace” (fig. 8) per l’altare di sinistra.
Di rivalità tra artisti è piena la storia dell’arte e probabilmente è una condizione fisiologia quando a fronteggiarsi sono intelletti superiori. Il Rinascimento ci ha consegnato l’antagonismo tra Leonardo e Michelangelo, e tra lo stesso Michelangelo e Raffello. Il barocco fu segnato dalla dura competizione tra Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini. In tempi più recenti possiamo annoverare il rapporto conflittuale tra Pablo Picasso e Henri Matisse. Scontri titanici dai quali è stata l’arte a uscire vittoriosa, perché se è vero che l’ambizione è un sentimento umano è pur vero che essa si nutre conoscenza, di sperimentazione. E il confronto tra artisti, per quanto aspro, nasce inevitabilmente dall’osservazione dei rispettivi talenti. L’invidia si genera dal riconoscimento del valore altrui, dalla presa di coscienza di quel qualcosa che “manca” nelle proprie competenze e che attraverso “l’altro” si riesce a compensare.
E non è un caso che anche i più maligni colleghi detrattori del Caravaggio, abbiano almeno per un periodo, imitato il suo stile, subito la fascinazione del suo naturalismo estremo, dando vita a capolavori immortali. Con buona pace del conservatorismo di tutte le epoche, la competizione artistica ha sempre stimolato la ricerca e la sperimentazione, generando una crescita e una evoluzione che nessun canone codificato potrà mai interrompere.
Francesca SARACENO Palermo 27 Febbraio 2022
BIBLIOGRAFIA