Chi è davvero Monna Lisa ? Poche luci e molte ombre in un recente libro (ma è in corso di stampa una pubblicazione che farà discutere)

di Franco PALIAGA

Franco Paliaga (Pisa, 1956) si è laureato e specializzato all’Università di Pisa, è stato borsista presso la Fondazione Longhi di Firenze, è dottore di ricerca (Università degli Studi di Udine) ed è abilitato come Professore Associato per l’insegnamento di Storia dell’Arte nelle Università. E’ autore di numerose pubblicazioni sulla pittura Cinque-seicentesca, tra cui Natura in vetro. Studi sulla Caraffa di fiori di Caravaggio, Orazio Riminaldi (con Pierluigi Carofano), L’apparenza inganna. Pittori falsari nell’arte italiana del Seicento; fa parte del comitato di redazione della rivista “Valori Tattili”; sta per dare alle stampe un importante studio sulla Gioconda di Leonardo (vedi copertina alla fine dell’articolo) con cui rilegge alla luce dei risvolti esoterici filosofici religiosi il capolavoro del genio di Vinci. Con questa recensione inizia la sua collaborazione con About Art.

Martin Kemp, Giuseppe Pallanti

Mona Lisa. The People and the Painting

Oxford, Oxford University Press, 2017, pp. 272.

 

Qualche anno fa, in un volume conservato presso la Biblioteca Universitaria di Heidelberg dal titolo Epistulae ad Familiares di Cicerone stampato a Bologna nel 1477 e appartenuto ad Agostino Vespucci, fu rinvenuta a margine di una pagina (p.111), una postilla redatta di pugno dallo stesso proprietario del libro nella quale il segretario e collaboratore di Niccolò Machiavelli, annotò alla data 3 ottobre 1503 che Leonardo da Vinci stava eseguendo due dipinti, la Sant’Anna e un ritratto (la testa) di Lisa del Giocondo, limitati entrambi allo stato di abbozzo. Si trattava di una scoperta importante perché nel caso del secondo dipinto confermava quanto scriverà anni più tardi Giorgio Vasari, che nelle Vite, sia nell’edizione del 1550 che in quella del 1568, identificava nella tavola oggi conservata al Louvre e notoriamente nota come Gioconda, Lisa Gherardini, moglie di Francesco del Giocondo.

Su questi dati, inconfutabili in apparenza, hanno preso le mosse gli autori del volume in oggetto scritto a due mani da un noto studioso inglese di Leonardo, Martin Kemp e da Giuseppe Pallanti, insegnante di economia e ricercatore dilettante di archivio. E’ partendo da queste informazioni, assunte come dati certi, che gli autori, grazie ad approfondite ricerche archivistiche, hanno sondato in profondità la vita della coppia, Lisa Gherardini e Francesco Del Giocondo, rivelando ogni aspetto delle loro condizioni economiche e sociali, i motivi del loro matrimonio, il tenore di vita tenuto nella Firenze di fine Quattrocento e soprattutto i modi con i quali Francesco del Giocondo cliente dell’affermato e ricco notaio fiorentino ser Piero da Vinci, padre di Leonardo, avrebbe avuto l’opportunità e l’occasione di venire in contatto con il pittore per commissionargli l’opera in oggetto. L’incontro sarebbe dovuto avvenire presso il monastero della ss. Annunziata a Firenze intorno al 1500 dove ser Piero aveva avuti incarichi legali per molti anni e Leonardo, al suo ritorno nella città toscana, aveva fissato la sua sede dell’attività artistica e scientifica.

Nonostante i buoni propositi dei due autori sembra tuttavia di scivolare sulla sabbia. Sono pure congetture le ipotesi che vedono ser Piero, redattore di atti notarili per i vari componenti della famiglia del Giocondo, essere stato responsabile di aver introdotto Francesco del Giocondo al cospetto di Leonardo, al suo ritorno a Firenze dopo un’assenza di diciotto anni. Nonostante gli sforzi encomiabili intrapresi dai due studiosi, essi forniscono nel corso del libro unicamente congetture più o meno affascinanti, cercando di chiudere un cerchio che tuttavia non è assolutamente chiuso, essendo le loro interpretazioni prive di riscontri oggettivi. Non è stata infatti rinvenuta alcuna prova documentaria e certa che Francesco del Giocondo abbia commissionato il famoso dipinto a Leonardo e che questo sia poi da identificare con la tavola del Louvre.

Che il del Giocondo appartenesse a una ricca famiglia dedita al commercio e che fosse in rapporto con i Medici non giustifica che avesse commissionato un ritratto a Leonardo anche in considerazione del fatto che, come le attestazioni documentarie rivelano, egli non fu assolutamente un amante dell’arte, né amò circondarsi di oggetti particolarmente preziosi e  rari.

Se dobbiamo dare merito ai due autori è quello di averci fornito indicazioni sull’esistenza e sulla vita di questi personaggi (ricerca più utile ai fini sociologici sulle condizioni di vita di una coppia appartenente alla classe medio alta borghese dei primi del Cinquecento), ragguagli sulle proprietà e sull’eredità lasciata da ser Piero da Vinci nel luglio-agosto 1504 (cfr Appendice pp. 229-234), sul lento scorrere della vita di un piccolo borgo come quello di Vinci, sulla vita della madre di Leonardo (Caterina Lippi?), sulla educazione ed infanzia del pittore e infine sull’attività al suo ritorno a Firenze. Utili sono anche le informazioni relative allo stato di conservazione del dipinto che riassumono i risultati ottenuti dalle indagini diagnostiche non invasive condotte dall’Equipe del Centre de Recherche et de Restauration del Museè du Louvre nel 2004 (pp. 197-209), già rese pubbliche nel volume Au coeur de La Joconde. Léonard de Vinci décodé, Paris 2006 e quelle condotte con il metodo LAM che tende a ricostruire l’immagine attraverso fotografie digitali mediante l’uso della camera multispettrale (pp. 213-223).

Nulla però traspare di nuovo circa l’identità della misteriosa donna del Louvre. L’indagine sociologica difetta proprio nella mancanza di un’approfondita analisi sui contenuti del dipinto in relazione al pensiero del genio di Vinci.

Allo studio iconografico della tavola, gli autori infatti dedicano poco meno di una cinquantina di pagine rispetto alle 260 di cui è composto lo scritto. Essi ne ripercorrono tutte le vicende critiche a partire dalle fonti, dalla nascita delle copie, al furto compiuto nel 1911 dall’ imbianchino italiano Cesare Peruggia, unitamente ai risultati scientifici condotti sulla tavola, informazioni del resto già note, ma alla fine della lettura, siamo proprio sicuri che quella donna costituisca l’effigie della moglie dell’affermato mercante fiorentino come vogliono farci intendere? Molti, forse troppi indizi, come una certa critica ha avanzato ormai da anni, fanno ritenere di no. Numerose sono le contraddizioni iconografiche presenti nella tavola da non farci tranquillamente credere all’assunto vasariano che quella donna rappresenti l’immagine di Lisa, quesiti ai quali i due scrittori non forniscono adeguata risposta.

Per quale motivo ad esempio la donna non ostenta alcun gioiello alle dita o al collo contrariamente alla tradizione iconografica quattro-cinquecentesca (si pensi al solo Raffaello) che vede la donna imbellettarsi al punto da costituire la sua immagine uno status symbol, particolarmente evidenziato al momento del matrimonio? Sebbene Lisa Gherardini provenisse da una famiglia di modeste condizioni sociali, al punto che la sua dote fu ottenuta vendendo un podere di campagna, appare inconcepibile pensare che un marito appartenente al ricco ceto borghese e attivo nel commercio dei panni come Francesco Del Giocondo, avesse rinunciato ad evidenziare i segni eloquenti del rango come i gioielli nel ritratto della moglie. E sappiamo viceversa dal testamento di Francesco che Lisa di gioie ne aveva diverse.

Perché la donna veste un sottilissimo velo scuro, che ha fatto giustamente pensare a un attributo del lutto ma che non può essere inteso come tale poichè nel momento in cui Leonardo si accingeva a dipingere quella donna, Francesco Del Giocondo era ancora vivo (egli morirà nel 1538) ? Nè quel particolare può essere inteso come attributo della castità, nè come pia devozione agli obblighi maritali. Per quale motivo il tratto finale del paesaggio a sinistra della Gioconda si ammanta di un colore rosso intenso che prosegue dalla parte opposta in forma più consistente al punto da occultare completamente il corso del fiume che le scorre dietro, particolare mai preso in considerazione dagli studiosi leonardeschi, mentre chi scrive ha ritenuto essere un attributo simbolico e allusivo dell’ elemento del fuoco, per cui associato alle altre componenti del quadro fa ritenere che la donna domini sullo sfondo i quattro elementi corrispondenti nella filosofia aristotelica e neo platonica ai principi costituenti la vita e in base alle quali Leonardo aveva intrapreso le sue ricerche per tutta una vita? Per Leonardo -come rivelano i suoi scritti- la pittura costituiva l’emblema della filosofia, era la filosofia stessa.

E poi ancora perché la donna sorride, caso unico quanto mai raro nella tipologia ritrattistica femminile del Rinascimento? Quando Leonardo la avrebbe dovuta ritrarre intorno al 1503 Lisa aveva 24 anni e questo corrisponde all’età dell’ effigiata o essa appare di una diversa età? Come si spiega che il sorriso della Gioconda se sovrapposto a quello del San Giovanni Battista corrisponde perfettamente nei tratti fisionomici? E infine se quella immagine fosse stata Lisa del Giocondo perché una volta che il dipinto era finito (e l’opera appariva “perfettissima” secondo il parere di Antonio De Beatis che la vide nel 1517) Leonardo non  lo consegnò legittimamente al suo committente, come la logica imponeva, ma se lo portava sempre con sé fino all’ultima dimora in Francia nel castello di Cloux?

E infine un altro aspetto non considerato è la mancata spiegazione riguardante la versione della cosiddetta Gioconda nuda che vede la donna ritratta a seni nudi a partire dal cartone di Chantilly. Non sono comprensibili le ragioni di questa traslazione iconografica (di cui sono note numerose derivazioni, una delle quali conservata all’Ermitage di San Pietroburgo), per le quali un ritratto femminile di destinazione esclusivamente privata con la posa di un’ onesta e fedele moglie di un probo mercante fiorentino, si trasformasse in una femmina dall’aspetto alquanto mascolino dalle braccia nerborute, con forti connotazioni erotico-sessuali, effigie muliebre déshabilée, imbarazzante stimolatrice delle delizie della carne e dei sensi. Una immagine di natura erotica che certamente il marito Francesco del Giocondo non avrebbe certo acconsentito di rendere pubblica. E non è neppure spiegabile, a mio avviso, come quella composizione risquè sia giustificata dall’influenza che potrebbe essere derivata a Leonardo dalla visione dalla Fornarina di Raffaello (p. 174) presa come modello di paragone come stancamente si è ripetuto fino alla nausea. Evidentemente la traslazione nascondeva ben altri motivi e il soggetto (sulla cui ideazione credo che Leonardo non abbia avuto alcun ruolo, contrariamente al giudizio di taluni studiosi) si trasformò in un’immagine parodistica, una traduzione riduttiva e de-qualificante, anche da un punto di vista compositivo, che, non cogliendo il senso e il contenuto profondo dell’immagine, la elevava a icona dal sapore sarcastico e per certi versi ironica.

Come è possibile spiegare poi come Leonardo trasformasse un preciso dipinto nato come effigie di destinazione privata in un’opera che «signifies great things» al punto da diventare una «universal picture»? Cosa erano queste grandi cose? Non è sufficiente spiegare tale complessa dinamica alla luce della poetica petrarchesca sulla bellezza delle donne, che risale a Dante (cap. VIII), né tanto meno rifarsi, con generici accostamenti, agli studi sulla natura che Leonardo conduceva nel corso della sua esistenza (cap. X) dal momento che, come è noto e come ricordava Cesare Luporini il Leonardo artista non si spiega, sia nella forma, sia nel contenuto poetico, senza Leonardo scienziato. Nonostante le citazione dai  manoscritti di Leonardo e dal Libro della Pittura riguardanti le formulazioni tecniche circa il modo di osservazione e sulla costruzione della pittura tonale, niente ci aiuta a comprendere in profondità i motivi che hanno spinto Leonardo a realizzare quel paesaggio che risulta del tutto illusorio e astratto. Esso non costituisce solamente il «background» della figura posta in primo piano o quest’ultimo rappresenta «the body of the earth» come ritengono i due autori, ma costituendo esso parte essenziale e funzionale atta a comprendere l’intera composizione, rispecchia, insieme alla donna, il pensiero filosofico del suo autore.  Ed è questo l’aspetto che va compreso fino in fondo.

Sussistono dunque molti dubbi e dunque validi motivi per mettere in discussione la tesi sostenuta dagli autori del libro. E suona come stonatura quella che ha spinto i due scrittori ad affermare, alla fine della loro fatica e con una buona dose di saccenteria (p. 227), che “the central current of the documentation leaves doubt about the identity of the picture in the Louvre only for those who avidly wish there to be doubt”.

La Gioconda è stata al centro di numerosi equivoci, spesso alimentati da errate interpretazioni fornite dalle fonti e le cattive percezioni- come ricordava Marc Bloch– si propagano e si affermano solo a condizione che le menti siano già preparate ad accettarle come vere. In realtà quella donna non rappresenta Lisa Gherardini e anche se il Vespucci sosteneva che nel 1503 Leonardo aveva iniziato a dipingerla e il Vasari affermò che la lasciò incompiuta («quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto») non è assolutamente certo e dimostrato che sia da identificare con il dipinto francese. E l’dea che con questo ritratto Leonardo avesse avuto in Firenze la possibilità “to grant to him immortality” o che Giuliano de’ Medici fu colui “who encouraged Leonardo to finish Mona Lisa in Rome” (p. 152 e p.171) suonano come affermazioni retoriche, prive di alcun fondamento e per certi versi iperboliche. Il maestro di Vinci non aveva certo bisogno di incoraggiamenti né di aiuti di uomini potenti per procedere nel suo lungo e complesso percorso di ricerca.

Come ho avuto già la possibilità di sviluppare in altre circostanze (F. Paliaga, L’equivoco della Gioconda. La presunta Monna Lisa di Leonardo, Pisa 2006) e ora in un libro di prossima pubblicazione (La Gioconda e il San Giovanni Battista del Louvre e il pensiero del Beato Amadeo, Pisa, Campano ed. 2018) la donna ritratta nella tavola del Louvre non è la rappresentazione encomiastica di una donna fiorentina. Ad una attenta analisi del dipinto, risulta infatti che il paesaggio impresso da Leonardo sullo fondo della tavola si configura come una rappresentazione simbolica dei quattro elementi, (Aria/Acqua/Terra/Fuoco), corrispondenti, nel pensiero leonardesco e all’ambiente culturale e pseudo-scientifico di natura aristotelica e neo-platonica (sul quale il maestro di Vinci aveva condotto la sua formazione), ai princìpi essenziali costituenti la base e le fondamenta della vita. La figura, complice l’abbigliamento umile e dimesso, che non trova alcuna corrispondenza nell’iconografia femminile cinquecentesca, e l’emblematico sorriso, anch’esso anomalo nella ritrattistica cinquecentesca, non può certo riferirsi ad una donna comune, ma assurge a personaggio femminile immaginario, una entità astratta, accostabile all’ immagine classica e simbolica di Sophia [dal greco Σοφία ], simbolo di eccellenza, per la filosofia gnostica cristiana, della sapienza e della conoscenza, madre da cui hanno origine tutte le cose, dalla natura al genere umano. Sophia costituisce l’elemento femminile della comprensione cosmologica dell’universo fondato sui quattro elementi che costituiscono l’essenza vitale delle concezioni pseudo scientifiche elaborate da Leonardo e che sono documentate attraverso i suoi scritti.

Tale pensiero filosofico che vede accostata Sophia alla figura di Maria Vergine era stata in parte diffusa dalla teologia del beato Amadeo da Silva, il monaco francescano di origine spagnola che morì a Milano in odore di santità nello stesso anno in cui Leonardo approdò nella città lombarda (dal quale avranno origine i cosidetti amadeiti) e di cui il maestro di Vinci conosceva il pensiero, particolarmente evidente nella prima versione della Vergine delle rocce (Louvre), come hanno rilevato le numerose ricerche e studi condotti da Gabriella Ferri Piccaluga. Un’opera questa che – come è noto – suscitò numerose e accese dispute negli ambienti religiosi milanesi per via dei contenuti eterodossi e per certi versi eretici del soggetto.

Un pensiero, quello amadeita, mai citato dagli autori del libro, che influenzò il maestro di Vinci (egli possedeva anche un libro riguardante la vita del monaco spagnolo) anche perciò che riguarda l’esecuzione di un’altra famosa opera, il San Giovanni Battista anch’essa al Louvre, dipinto che si accompagnava simbolicamente alla Gioconda. Il libro dove erano enunciate le teorie amadeite e che influenzarono in parte la visione e il pensiero di Leonardo per ciò che riguarda i dogmi relativi al mistero della fede e della scienza, era soprattutto contenuto in un codice manoscritto di impronta profetica dal titolo Apocalipsys Nova, testo che fu aperto a Roma nel 1503 e il cui contenuto ebbe una enorme diffusione in ambienti laici e religiosi del Rinascimento come hanno rilevato gli approfonditi studi di Anna Morisi e Cesare Vasoli, al punto da influenzare artisti come Pedro Fernàndez da Murcia (lo Pseudo Bramantino), Raffaello e Sebastiano del Piombo, ma soprattutto gli stretti seguaci di Leonardo a partire da Marco d’Oggiono.

Per buona pace degli autori che si sono sforzati di confermare che quella donna era Lisa Gherardini, ebbene la signorina che si espone in maniera serena, sorridente e gioconda sul balcone è un’altra cosa, dai significati più profondi e più seri rispetto all’effigie di una comune donna, moglie di un sia pur affermato mercante arricchito di Firenze.

Franco PALIAGA       Pisa marzo 2018