di Nica FIORI
FERONIA, la dea arcaica che ha dato il nome a Lucus Feroniae, un ricco sito archeologico a pochi km da Roma
La visita di un sito archeologico della media valle del Tevere, come Lucus Feroniae (nel comune di Capena), potrebbe essere una valida alternativa, rispetto ad altri luoghi più noti, per scoprire gratuitamente e in tutta tranquillità un’interessante città romana. Una città piccola, non paragonabile a Pompei o ad Ostia antica, ma indubbiamente ricca, come attestano i numerosi reperti artistici conservati nell’Antiquarium, e con una storia interessante (foto 1).
La città deve il nome a Feronia, una divinità arcaica che godeva di grande prestigio nell’Italia centrale, quando era invocata come protettrice della natura e della fertilità. Il termine lucus indica un bosco sacro e, in effetti, come per altre divinità e ninfe legate alla natura, i boschi e le fonti dovevano avere un ruolo importante nel culto della dea, che proteggeva allo stesso tempo anche i campi e le messi, perché metteva le forze incolte della natura “al servizio degli uomini, della loro alimentazione, della loro salute e della loro fecondità”, come afferma George Dumézil nel suo saggio “La religione romana arcaica. Miti, leggende, realtà della vita religiosa romana” (ed. italiana 1977). Il suo nome potrebbe forse derivare da ferus, che significa selvaggio, non addomesticato dall’uomo, o forse da far (farro), come suggerisce l’archeologo Andrea Carandini, in quanto tutela la forza germinativa del seme, diversamente da Cerere che fa crescere le messi. L’etruscologo Giovanni Colonna, invece, ipotizza l’associazione con il termine feralis (funesto, funereo, collegato con le divinità infere), che sottolinea la valenza palustre e ctonia della Feronia Palostica (che sta presso la palude), identificabile con Giunone Palostica, le cui qualità vaticinanti erano espresse a Prenestae (oggi Palestrina) prima del culto di Fortuna Primigenia.
Varrone ci fa sapere che la dea era di origini sabine, notizia che sembra confermata dalle indagini archeologiche. Feronia era venerata, in effetti, in diverse località della Sabina, come Amiternum (presso San Vittorino, a pochi km dall’Aquila), Reate (oggi Rieti), Trebula Mutuesca (oggi Monteleone Sabino), come pure in altre città del Lazio (Terracina e Praeneste), e di altre regioni centrali come le Marche, l’Abruzzo e l’Umbria: ricordiamo in particolare Narni, in provincia di Terni, dove è ancora visibile la Fonte Feronia, del IV secolo a.C. (foto 2).
Sempre da Varrone apprendiamo che il suo culto venne introdotto anche a Roma nel III secolo a.C., a seguito della conquista della Sabina da parte di Manio Curio Dentato, celebre per aver prosciugato nel 271 a.C. la zona paludosa della piana di Rieti, chiamata lacus Velinus, con la costruzione del canale noto come Cavo Curiano. A Roma la dea aveva un proprio luogo di culto nell’area sacra di Largo Argentina, il cosiddetto Tempio C, il più antico di quelli presenti nell’area. Dal calendario degli Arvales apprendiamo che la sua festa era celebrata il 13 novembre.
Secondo Dionigi di Alicarnasso la dea sarebbe stata portata in Italia da un gruppo di coloni spartani, sbarcati a Terracina, ma il suo culto non è attestato in nessuna località greca, né magnogreca, pertanto è da ritenere che egli volesse con questa affermazione aumentare l’importanza della sua terra d’origine.
Molte sono, invece, le testimonianze che legano Feronia alla Sabina, e in particolare l’unica moneta che riproduce il profilo della dea, emessa tra il 20 e il 18 a.C. da P. Petronius Turpilianus, un magistrato sabino che vantava tra i suoi avi quel Petronius Sabinus che aveva ricopiato i Libri Sibillini al tempo di Tarquinio il Superbo. L’iconografia della dea ricorda in alcuni tratti quella di Giunone e forse non a caso Servio (scoliasta dell’Eneide di Virgilio) ricorda che era chiamata anche Iuno Virgo (foto 3).
Il santuario principale della dea, Lucus Feroniae, sorgeva alla confluenza delle vie Tiberina e Capenate. Le fonti antiche affermano che il luogo era frequentato dai popoli dei territori circostanti (sabini, etruschi, falisci, latini, capenati) per l’importanza del culto e per il mercato che vi si svolgeva periodicamente.
Tra i riti che vi si celebravano ci colpisce, in particolare, quello riferito da Strabone, quando parla dell’assemblea religiosa annuale, durante la quale alcuni sacerdoti camminavano su carboni ardenti senza sentire alcun dolore. Si tratta di rituali abbastanza diffusi un tempo nell’area mediterranea come manifestazione di culti estatici, e che Plinio attribuisce agli Hirpi (gli uomini lupo) del Soratte, una sorta di casta sacerdotale locale. Del resto Feronia è consideratala paredra del dio Soranus (del monte Soratte), una divinità a metà tra Dite, dio romano del mondo sotterraneo, Apollo, nella sua accezione di dio solare infero, e Giove fanciullo (foto 4).
Un altro aspetto importante di Feronia è che era particolarmente legata al mondo femminile, tanto che nella colonia capenate di Lucus vi erano dei collegi di Mulieres Feronienses, come pure a Praeneste e in altre località. Di queste donne non si conosce lo stato sociale, ma forse erano liberte, perché Livio ci racconta che nel 217 a.C., alla vigilia della sconfitta dei romani da parte di Annibale presso il Trasimeno, il senato romano decretò che le matrone dovessero far voto a Giunone e le liberte a Feronia, come se la seconda fosse una sorta di Giunone di serie B, più adatta agli strati più bassi della popolazione.
Del resto il legame con i liberti è attestato più volte da fonti epigrafiche e letterarie. A Terracina, secondo quanto scrive Servio, gli schiavi meritevoli si sedevano su un sedile nel tempio della dea e, quando si alzavano, erano diventati liberi, ovvero liberti. Questo cambiamento di stato, cui la divinità presiedeva, può essere spiegato dal suo privilegiare il confine “tra la natura allo stato originario e la cultura sociale dell’insediamento urbano, tra la terra non arata e quella seminata, tra la silva e l’ager, in una parola il punto in cui inizia l’azione ordinatrice dell’uomo sulla vitalità spontanea della natura”, come scrive Maria Concetta Nicolai in “Femina in fabula. Dee, sacerdotesse, maghe e sacre meretrici nell’Abruzzo italico” (2020). Sono tali attributi a renderla adatta a presiedere ai riti di passaggio e quindi anche all’affrancamento degli schiavi. Funzione questa che l’avvicina a Diana Nemorense, nel cui bosco (presso il lago di Nemi) lo schiavo fuggitivo, che fosse riuscito ad uccidere il “re del bosco”, ne assumeva lo status sacerdotale e le prerogative.
La liberazione dallo stato di schiavitù nel tempio di Feronia, con l’imposizione del pileus sul capo rasato dello schiavo, che diveniva così liberto, è raffigurata nel sipario del Teatro Feronia di San Severino Marche, realizzato da Raffaele Fogliardi su disegno di Filippo Bigioli (XIX secolo). L’introduzione del rito dell’affrancamento, chiamato dai romani “manumissio”, è attribuita al re Servio Tullio, che era nato da una schiava della moglie di Tarquinio Prisco, ma in realtà cominciò a essere celebrato in età repubblicana, intorno alla prima metà del III secolo a.C. (foto 5).
L’area sacra di Lucus Feroniae venne depredata da Annibale nel 211 a.C. per la sua fama di ricchezza (pensiamo a tutti gli ex voto in oro che venivano donati al santuario); venne risistemata tra il 130 e il 110 a.C. per volere del pretore Gneo Egnazio con l’edificazione di un grande tempio, distrutto in seguito alla sconfitta dei popoli italici nell’89-88 a.C. ad opera di Silla. Sulle rovine dell’area venne poi edificata la colonia romana (forse nel 59 a.C.), con l’assegnazione delle terre ai veterani che avevano combattuto con Cesare, la cui gens è ricordata nel titolo di età imperiale di Colonia Iulia Felix Lucus Feroniae. L’ex area sacra venne però delimitata da un muro, pertanto risulta separata dalla città romana, e appare come una spianata (foto 6).
Nel sito, individuato nel 1952 e aperto al pubblico dopo gli scavi nel 1964, troviamo, come in ogni città romana, il Foro (lungo 150 m e largo 40 m), fulcro della vita pubblica, che aveva il suo ingresso principale nel lato meridionale, mentre a nord la Basilica, con i retrostanti edifici del tempio della Salus frugifera e del sacello degli Augustali costituivano la quinta monumentale del complesso. Ricordiamo che gli Augustali erano gli addetti al culto di Augusto e della famiglia imperiale, che comparvero in età augustea in tutti i municipia italiani e nelle città delle province occidentali (foto 7).
L’insediamento della città romana è ancora per buona parte da scavare (gli ultimi scavi risalgono agli anni ‘90 del secolo scorso, mentre dal 2000 sono cominciati gli scavi nell’area del santuario rasa al suolo da Silla), ma quanto è stato riportato alla luce consente di farci un’idea della vita quotidiana dell’epoca. Quello che si vede è il quartiere del Foro con alcune botteghe commerciali e punti di ristoro (thermopolia), con i caratteristici banconi ancora conservati e i dolia interrati per la conservazione di alimenti e bevande; un quartiere abitativo con alcune domus di un certo livello con pavimenti di marmo o a mosaico (in particolare quella di Polifemo e Galatea), come pure le terme del Foro (o di Menandro) con le vasche per le abluzioni e il sistema di riscaldamento ancora perfettamente visibili. Si è in parte conservata anche una latrina pubblica, collocata presso il bivio tra la via Tiberina e la diramazione della via Capenate, caratterizzato da due miliari del II secolo a. C. (foto 8, 9, 10).
Proseguendo per una piccola strada in mezzo alla campagna si raggiunge il piccolo anfiteatro dalla caratteristica forma circolare (35 m di diametro), ancora in parte interrato, che doveva ospitare al suo interno, per un pubblico di circa 1500 persone, i combattimenti tra gladiatori. Proprio i gladiatori sono i protagonisti di un grande rilievo di un monumento funerario esposto all’interno dell’Antiquarium. L’opera è stata recuperata, salvandola da uno scavo clandestino, nel 2006 dal Comando Carabinieri TPC (Tutela Patrimonio Culturale) e dalla Guardia di Finanza T.P.A. (Tutela Patrimonio Artistico) nei pressi di Fiano Romano. La scena figurata in marmo, costituita da più lastroni, rappresenta il combattimento di sei coppie di gladiatori inframmezzate da altri personaggi, tra cui suonatori di trombe: si tratta di un soggetto abbastanza diffuso nelle decorazioni antiche, sia marmoree che pittoriche e musive, dato il grande gradimento da parte dei romani dei ludi gladiatori. Risale al 2018 l’inserimento di un ulteriore pezzo, che è stato recuperato dal TPC in Olanda, a seguito della riconsegna da parte di un collezionista, dopo l’individuazione della provenienza da parte dei carabinieri (foto 11, 12).
Fino a qualche anno fa l’area versava in uno stato di quasi totale abbandono, ma un progetto attuato dall’allora Soprintendenza per i beni archeologici dell’Etruria Meridionale e dalla Società Arcus ha permesso di ampliare nel 2016 l’Antiquarium con una quantità impressionante di manufatti che erano celati nei magazzini e di collegare l’area di Lucus Feroniae, che è compresa nel comune di Capena, con quella della vicinissima Villa dei Volusii Saturnini, appartenente al comune di Fiano Romano. L’accesso alla villa, che prima si effettuava solo dal casello autostradale di Fiano Romano, è ora possibile grazie a un ponte pedonale, munito di ascensore per i disabili, che scavalca la via Tiberina.
La Villa dei Volusii venne alla luce nel 1961, proprio costruendo l’autostrada del Sole, ed è il naturale proseguimento della visita della città di Lucus Feroniae, dal momento che si tratta di una ricca dimora suburbana (con splendidi mosaici pavimentali, in parte anche a colori), relativa a un’importante famiglia vicina all’imperatore Augusto, sotto il quale il sito ebbe il massimo splendore (foto 13, 14, 15).
In precedenza la villa era appartenuta agli Egnazii, discendenti di quell’Egnazio che aveva edificato il tempio poi distrutto da Silla. Poiché gli Egnazii si erano schierati contro Augusto nell’ultima guerra civile del periodo repubblicano, furono da lui “dannati” e i loro beni confiscati. Inoltre ciò che era rimasto del santuario egnaziano venne utilizzato come base per la costruzione della Basilica nel Foro. In un certo senso anche Feronia subì una sorta di damnatio, visto che non le venne più dedicato alcun tempio e venne sostituita con la divinità similare Salus Frugifera.
L’Antiquarium permette di ripercorrere con un accattivante allestimento la storia del sito attraverso l’esposizione di numerosi reperti suddivisi per aree tematiche.
Si è puntato, nella sua realizzazione, a un’immersione nell’antico con diverse ambientazioni e postazioni multimediali, a partire dalla dea Feronia che accoglie i visitatori presentandosi con immagini e parole suggestive.
Il posto conserva molti reperti degni di un museo nazionale, come la testa-ritratto di Augusto e il gruppo delle otto sculture in marmo, purtroppo acefale, rinvenute nel sacello degli Augustali ed esposte al pubblico nella stessa posizione in cui dovevano trovarsi nell’antichità. Raffigurano personaggi legati alla famiglia imperiale, quattro maschili e quattro femminili. Tra di essi si riconoscono con certezza Agrippa, luogotenente e genero di Augusto, l’unico cui è stato possibile attribuire la testa. Una seconda testa potrebbe essere attribuita ad Antonia Minore, figlia di Ottavia (sorella di Augusto) (foto 16).
Tra i pezzi che colpiscono la nostra attenzione vi sono altre statue, tra cui una in nudità eroica proveniente dal Foro, un’ara a base circolare con bucrani e festoni, un raffinato ritratto di Vespasiano, un graziosissimo satirello, un trapezoforo (sostegno di tavolo) a protome leonina in serpentina moschinata egiziana, proveniente dalla Villa dei Volusii, un pannello di vetro mosaicato, che è un unicum per dimensioni e qualità esecutiva, tantissimi elementi scultorei minori di bella fattura e terrecotte architettoniche. Rocchi di colonne scanalati e pregevoli capitelli corinzi sono ricollegabili al grandioso tempio eretto da Egnazio nel II secolo a.C., che doveva sorgere su un alto podio e doveva avere otto colonne sul fronte e dodici per lato, mentre il fondo era chiuso (foto 17, 18, 19, 20).
I materiali provenienti dalle sepolture della necropoli ai margini della città attestano la comparsa anche in Etruria meridionale, nell’età del bronzo recente avanzato (fine del XIII secolo a.C.), della pratica della cremazione dei defunti, le cui ceneri venivano conservate in urne di ceramica chiuse da tazze con il manico spezzato ritualmente. Il sito, in effetti, era frequentato già in età protostorica, quando è cominciato un primitivo culto delle acque, e quindi della fertilità agricola.
Poco si conosce del culto più antico di Feronia, praticato probabilmente all’aperto, presso una grotta o una sorgente del bosco sacro. Le prime tracce di un edificio sacro, forse ligneo e decorato da terrecotte, risalgono alla fine del VI secolo a.C. Sono invece più numerosi gli oggetti dedicati alla dea, tra cui pregevoli bronzetti (sfuggiti al saccheggio di Annibale, che aveva fuso i metalli del tesoro del tempio per ricavarne armi), ceramica prodotta in Attica, portaprofumi orientali, oggetti miniaturizzati ed ex voto riproducenti parti anatomiche.
Un bronzetto che riproduce un Augure (sacerdote che interpreta la volontà divina osservando il volo degli uccelli) potrebbe ricordare i riti eseguiti nel santuario, quando si riteneva che cielo e terra (ovvero mondo divino e mondo umano) fossero intimamente connessi tra loro secondo un principio di partecipazione mistica, assai vicino alla mentalità dei popoli primitivi (foto 21, 22).
Nica FIORI 31 maggio 2020
Area archeologica e Antiquarium di Lucus Feroniae
Via Tiberina km 18,500 – Capena (Roma)