di Simone ANDREONI
- Premessa.
Perché scrivere ancora un altro piccolo saggio su un pittore minore?
Perché destinarlo per giunta a un pubblico ampio, che magari vorrebbe leggere tutt’altro? Perché, insomma, sforzarsi, partendo da poche opere, di delineare la personalità di un altro minuscolo maestro; in questo caso forse non del tutto indipendente?
C’è un valido motivo, ed è una constatazione: tra Cinque e Settecento, i nobili europei hanno acquistato tanti dipinti – anche pregevoli – da maestri che oggi sono assolutamente e irrimediabilmente anonimi. A volte si trattava di errori, senza dubbio; altre volte essi ritenevano tali “maestri minimi” degni di accompagnare con le loro opere i capolavori di quei pittori che ancor oggi consideriamo massimi.
Tutte le famiglie aristocratiche apprezzavano l’opera di questi maestri minimi: anche i Corsini e i Farnese, per fare un esempio[1].
Perché ciò accadesse, lo ricorda Federico Zeri: durante l’età moderna, gli artisti attivi nelle città europee erano tanti.
Noi, però, conosciamo solo quelli che suscitarono l’interesse dei letterati, o che le ricerche d’archivio hanno permesso di recuperare. Si tratta di una minima percentuale, al fianco della quale esiste <<un enorme territorio confuso, da esplorare, da cui emergono testimonianze lacunose, … opere fra le quali riusciamo a identificare soltanto una piccola porzione>>.
Eppure, del tutto meritevoli, anche nelle prove minori, perché ebbero un impatto importante sulla società italiana del periodo: non tutti infatti si potevano permettersi i capolavori, non tutti volevano permetterseli, ma le invenzioni più innovative e interessanti che essi contenevano venivano trasmesse al più ampio pubblico – inclusi i colleghi più giovani – proprio da questi “maestri minimi”[2].
Le loro opere, in altre parole, erano dei mezzi di divulgazione, diffusi nella società quasi quanto le incisioni.
Proporre la ricostruzione di un altro piccolissimo maestro anonimo è dunque utile perché fornisce un criterio quantitativo, non qualitativo, per valutare il successo dei pittori che ancor oggi riteniamo maggiori e per ritrovare una visione concreta della vivacità del mercato dell’arte nei centri italiani tra Cinque e Settecento.
- Gli Italiani e l’arte fiamminga.
Quanto afferma Federico Zeri sulla circolazione dei temi e dei motivi nell’arte italiana attraverso i “maestri minimi” diventa ancor più veridico se consideriamo come si diffusero in Italia le iconografie e le tecniche della pittura fiamminga.
I mercanti italiani a Bruges, Bruxelles e Anversa acquistavano infatti i capolavori di Jan van Eyck e Jan Gossaert, ma non disdegnavano anche il Maestro della Leggenda di Santa Lucia, per fare un esempio. O i tanti divulgatori dello stile dei maggiori rimasti invece del tutto anonimi.
In fondo, alcune iconografie brevettate dalle botteghe delle Fiandre erano proprio avvincenti: su questo non c’è dubbio. E lo erano talmente tanto, a volte, che rendevano ininfluente la qualità della loro resa formale. Ciò accade anche oggi: di solito è l’empatia con la composizione o con il suo messaggio a fare da guida nell’acquisto e nell’esposizione di un’opera.
- Il collaboratore “intenso” di Joos van Cleve e il San Girolamo nello Studio.
Ebbene, attorno al primo quarto del Cinquecento i mercanti di Anversa empatizzavano molto con un soggetto: san Girolamo nel suo studio, che interrompe la sua attività di traduzione della Bibbia poiché colto da un improvviso momento di meditazione malinconica sulla morte.
Esso fu sviluppato da Joos van Cleve (c. 1485-1540/1541) in due versioni, di cui quella iconograficamente più significativa si trova ad Harvard (fig. 1):
come tanti ad Anversa, anche lui ammirava le incisioni di Albrecht Dürer; e quando quest’ultimo, durante il suo soggiorno sulle rive della Schelda, realizzò un dipinto raffigurante san Girolamo nel suo studio, così innovativo eppure così tradizionale, volle emularlo[3].
La sua interpretazione funzionava bene a tal punto che fu ripresa e adattata anche dal suo amico Pieter Coecke van Aelst: i due erano davvero legati, tant’è vero che Joos lo volle come testimone all’atto di redazione del suo testamento[4].
Poiché l’iconografia di questo duplice tributo al Dürer piacque, se possibile, anche più dell’originale, van Cleve e Coecke – ma non solo! – e i loro atelier furono obbligati a replicarla molte volte, con esiti qualitativi assai … diversificati.
La lettura delle pratiche di bottega degli artisti fiamminghi attivi nel Cinquecento, che Karel van Mander riporta, induce a ipotizzare addirittura che in quelle botteghe fossero dei collaboratori deputati esclusivamente alla riproduzione continua dei prototipi di maggior successo. Ma identificarli e quantificarli è un’impresa ai limiti dell’impossibilità, se non dell’inutilità, trattandosi proprio una produzione intensiva e, come si diceva, spesso con grossi limiti qualitativi.
Ma c’è un’eccezione, data dalla qualità e dal suo compratore.
Esiste infatti, in una collezione privata, una derivazione dal prototipo di Harvard di Joos van Cleve che appare più raffinata e avvincente (fig. 2):
qui infatti san Girolamo guarda verso l’osservatore con occhi ampi e un’espressione cogitabonda. Con il dito indica poi un teschio sulla sua scrivania, posto fra i libri della sua Vulgata e il suo galero cardinalizio, affiancato da un Crocifisso con le ossa di Adamo ai piedi. Dietro di lui, un cartiglio con su scritto: “cogita mori et non morieris in eternum”, e un motto erasmiano: “homo bulla”[5]. A sinistra, visibile attraverso la finestra, si trova lo stesso santo penitente, immerso in un paesaggio patiniriano.
Chi dipinse quest’opera non lo sapeva, ma le neuroscienze hanno dimostrato che per il cervello umano non fa differenza guardare una persona che a sua volta ci guarda, oppure un dipinto o una foto se l’effigiato fa lo stesso. Proprio gli occhi in un quadro sono la parte che ci attrae di più e alla quale dedichiamo più tempo, soprattutto se sono diretti verso di noi[6].
Per la cronaca, un’altra persona che fu consapevole del potere degli occhi nelle fotografie fu madame Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica (fig. 3): anche per lei, si trattava evidentemente di un mezzo per comunicare la propria intensa, magnetica spiritualità.
Tornando al dipinto, come si vede è accompagnato da una sontuosa cornice in legno e oro, chiaramente toscana: lo comprova il confronto con la Madonna col Bambino, sant’Elisabetta e san Giovannino della Pinacoteca Nazionale di Siena, copia da Raffaello attribuita a Girolamo Siciolante (inv. 538 – fig. 4). Ciò testimonia, pertanto, che a un certo punto della sua storia il quadro ha lasciato Anversa ed è passato per la Toscana.
Si tratta di un dato molto interessante: lo straordinario proliferare di repliche del San Girolamo nel suo studio di Joos van Cleve, e non solo, è stato interpretato alla luce della immensa popolarità di cui godette questo santo fra gli umanisti e quanti erano alla ricerca di una religiosità più intensa. A partire soprattutto dal 1516, quando Erasmo da Rotterdam pubblicò la prima edizione dell’opera completa del santo dalmata, curata da lui, arricchita dalla sua biografia e da un invito conclusivo a tornare alla sua opera.
Nell’ambito della generale avversione umanistica nei confronti della Scolastica, la riscoperta di san Girolamo da parte di Erasmo aveva stimolato gli intellettuali dell’Europa settentrionale a guardare con sempre maggiore interesse ai Padri della Chiesa. Leggendo direttamente le loro opere, ritenevano di approcciare la tradizione cattolica nella sua purezza: senza cioè le superfetazioni medievali e le superstizioni di matrice popolare. Per di più, in un momento di grande secolarizzazione come la prima metà del Cinquecento, la melancolia di san Girolamo (conseguenza della sconvolgente visione del Giudizio Universale) divenne una potente esortazione per mercanti e devoti a vivere tenendo sempre a mente la morte e ciò che avviene dopo[7].
Nello stesso periodo, anche la Toscana era attraversata da simili turbamenti. Soprattutto a Lucca, Siena e Firenze: oltre agli ultimi savonaroliani come fra’ Serafino Razzi, si ricordano le figure radicali di Pietro Carnesecchi, Bernardino Ochino, Fausto e Lelio Sozzini. Per non parlare poi della massiccia emigrazione di mercanti lucchesi verso Ginevra, patria del calvinismo.
Ci si domanda perciò se quel San Girolamo oggi in collezione privata possa essere stato acquistato da un mercante di quei luoghi magari a sua volta sensibile a tali istanze, o semplicemente desideroso di vivere la sua vita all’insegna di una maggiore spiritualità. In fondo, la complessità della cornice lascia intendere che per lui quel quadro significasse davvero molto.
Venendo ora al versante attributivo, questo dipinto è una variante di un quadro già in collezione Leegenhoek a Parigi, che Georges Marlier attribuisce a Pieter Coecke (fig. 5)[8]. In entrambe le opere, però, le caratteristiche stilistiche sono piuttosto lontane da questo maestro: il fine del loro autore è infatti enfatizzare il volto di san Girolamo a ogni costo, arrivando a semplificare fino al linearismo la resa dei panneggi, forse anche per imitare al meglio lo stile di Dürer. Egli mostra inoltre una naturale predisposizione alla resa dei riflessi di luce e a un moderato chiaroscuro, con i quali costruisce la tridimensionalità degli oggetti, mentre assai meno felice è il trattamento delle mani di san Girolamo.
Queste caratteristiche stilistiche risultano coerenti proprio con le repliche del prototipo di Harvard uscite dalla bottega di Joos van Cleve.
Il creatore del presente dipinto, tuttavia, non fu un semplice copista di basso rango, ma uno specialista dalla personalità ben definita: non solo per la qualità comunque alta del suo lavoro, ma pure perché ne realizzò diverse varianti, connotate tutte dal suo personale stile; segno evidente che la sua clientela lo apprezzava. Tant’è vero che se ne può rintracciare una ulteriore, passata da Christie’s e che diverge da quella già Leegenhoek solo per le dimensioni (fig. 6)[9].
Ecco, dunque, in somma sintesi una ragione ulteriore per studiare anche questi “maestri minimi”: le loro opere possono testimoniare, in maniera immediata e viscerale, certi contesti storici. Non nelle loro aspirazioni più alte, ma in quelle più profonde e inconfessabili, più intime, più tormentate.
Ecco, probabilmente, perché furono ritenuti degni di accompagnare così disinvoltamente (per noi) i capolavori nelle quadrerie aristocratiche.
Simone ANDREONI Roma 20 giugno 2021
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