di Claudio LISTANTI
Al Teatro dell’Opera un deludente Don Giovanni
Contestata la realizzazione scenica di Graham Vick accompagnata dalla poco brillante direzione di Jérémie Rhorer, ma con una interessante compagnia di canto
Recentemente è andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma un nuovo allestimento del Don Giovanni di Mozart affidato alla direzione d’orchestra di Jérémie Rhorer ed alla regia di Graham Vick.
Prima di passare alla disamina di quanto visto ed ascoltato ci piace mettere in risalto ciò che avvenuto proprio in quei giorni a Roma, ovviamente dal punto di vista storico e musicologico. Infatti, in concomitanza, al Teatro di Villa Torlonia, è stata eseguita l’opera di Alessandro Melani L’Empio Punito.
Queste due opere, L’Empio Punito e Don Giovanni, hanno un denominatore comune, il fatto che in ognuna di esse si racconta ciò che nella Storia dell’Opera è la rappresentazione del cosiddetto ‘Mito di Don Giovanni’. La prima, quella di Melani, del 1669, è ispirata al El burlador de Sevilla y Convidado de piedra, testo teatrale tradizionalmente attribuito a Tirso de Molina dove appare questo poliedrico personaggio, le cui gesta confluiranno nell’Empio Punito, basato su un testo che Filippo Acciaiuoli ricavò dall’originale di Tirso, poi sviluppato da Giovanni Filippo Apolloni per la stesura del libretto. Melani, quindi, per primo mise in musica questo soggetto mentre Mozart nel 1787, a distanza di quasi 120 anni, ne concluse in un certo senso il cammino musicando un libretto di Lorenzo Da Ponte che si ispirò al dramma di Molière Dom Juan ou Le Festin de pierre testo anch’esso frutto dell’evoluzione del mito. (Cfr https://www.aboutartonline.com/lempio-punito-di-melani-grande-successo-per-lapertura-del-reate-festival/)
Ci piace porre in evidenza che questa coincidenza di poter operare, de visu, un raffronto tra le due opere e capire più da vicino la maturazione che il mito di Don Giovanni ha subito con gli anni. Certo tra i due soggetti ci sono circostanze analoghe come l’attrazione verso le donne, lo scambio di abiti, il delitto che porta i rispettivi protagonisti alla loro giusta punizione. Come ne L’Empio Punito tutto sembra, in un certo senso, lineare, dove le gesta di Acrimante (Don Giovanni) sembrano dare un volto univoco a quelle del protagonista, nel Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart tutto è ambiguo, misterioso, indefinibile, con ogni probabilità il protagonista, assieme al servo Leporello, possono sembrare lo specchio delle personalità dei due autori (Mozart e Da Ponte) e del loro modo di intendere i rapporti con l’altro sesso. In Mozart tutto procede come in un gigantesco equivoco; quello che a volte sembra comico si scopre essere semplicemente drammatico. Lo spettatore a prima vista non si rende conto se Don Giovanni è un semplice libertino impunito e giocherellone o se è un individuo incapace di legarsi ad una persona ed in continua, spasmodica ricerca del nuovo, del vario, per considerare le donne come una sorta di ‘usa e getta’. Ogni volta che ascoltiamo questo capolavoro ci rendiamo conto che, in definitiva, sta all’ascoltatore/spettatore dare una spiegazione personale; Mozart, da grande musicista ed artista, gli dona questa grande possibilità.
Veniamo ora allo spettacolo del Teatro dell’Opera. Come accade ormai da qualche decennio moltissime produzioni operistiche sono divenute ostaggio dei capricci e delle smanie dei registi sempre alla ricerca della novità o della rilettura geniale dimenticando che quasi sempre si trovano di fronte a capolavori assoluti prodotti da incontrastati geni musicali che, nel caso dell’opera lirica, avevano anche il ‘teatro’ nelle vene. Uno di questi è senza dubbio Graham Vick che solitamente affronta la messa in scena con il non troppo celato desiderio di giungere a tutti i costi ad una innovazione e che questa sia determinante per la sopravvivenza dell’opera interpretata. Ed essendo, come abbiamo già detto, capolavori assoluti, fortunatamente, vivono di luce propria e la sopravvivenza se la sono già guadagnata come, ad esempio, il Don Giovanni, sulla cresta dell’onda da più di duecentotrenta anni.
Ma la cosa che più colpisce e appare evidente è che Graham Vick si può considerare un validissimo uomo di teatro; basti pensare a certi movimenti d’insieme che si possono ammirare anche qui in Don Giovanni, ben studiati, precisi e incisivi, dove nulla è di troppo.
Nello specifico il don Giovanni era immerso nel grigiore. Una scena spesso incolore, al limite del bianco e nero, dominata da un albero senza foglie (Fig. 4), usato come una sorta di ‘attaccapanni’ ai piedi del quale si verificavano dei cambi di abito a vista o duetti tra personaggi seduti su anacronistiche sedie ma, anche, come strumento ginnico per alcune evoluzioni equilibriste di Don Giovanni.
In scena tutto è semplice ma fastidiosamente scarno in un’opera che per lo più si svolge in un ambiente aristocratico. Anche Don Giovanni era un aristocratico e in quanto tale stride che si sieda al tavolo con Leporello e che, addirittura, mangi un piatto di spaghetti con le mani, in una scena che sembra ricordare la famosa gag della scarpettiana Miseria e Nobiltà. Non si capisce poi perché Don Giovanni e Leporello hanno lo stesso abito; un elemento che rende grottesco, ed incomprensibile per chi magari vedeva il Don Giovanni per la prima volta, vanificando scenicamente l’effetto di quel cambio d’abito tra i due personaggi.
Molto forti sono state le immagini di ognuno dei due finali di atto, entrambi caratterizzati dall’ossessione del sesso. Nel primo durante il matrimonio tra Zerlina e Masetto si assiste sullo sfondo ad una sorta di orgia caratterizzata da rapporti sessuali di ogni tipo che penalizzavano oltre misura uno dei punti, musicalmente, tra i più straordinari della partitura. Stessa cosa per il finale secondo che chiude l’opera dove non è presa in considerazione la morte di Don Giovanni che appare in scena sormontato da un enorme braccio proteso ispirato alla scena michelangiolesca della Creazione di Adamo raffigurata nella volta della Sistina con il dito indice della mano di Dio che si protrae verso Adamo.
Don Giovanni tronca quel dito che subito dopo diviene un fallo in erezione togliendo alla scena tutta la poesia del momento evocata dalla musica che vuole sottolineare il ritorno alla vita normale di tutti i personaggi dopo che il ‘dissoluto’ è finalmente annientato.
Vick poi ha optato per una ambientazione praticamente contemporanea, per certi versi anni ’50, concretizzatasi con gli splendidi costumi di Anna Bonomelli mentre l’essenziale impianto scenico è stato realizzato da Samal Blak e completato dalle luci di Giuseppe Di Iorio.
Per quanto riguarda la parte musicale è stata affidata a Jérémie Rhorer, direttore dal curriculum importante nel quale sono presenti numerose interpretazioni di opere mozartiane soprattutto di quelle fondamentali del compositore austriaco. Purtroppo la sua provata esperienza non è riuscita a sollevare l’esecuzione da quel grigiore al quale abbiamo poco prima accennato. La sua direzione, seppur piacevolmente corretta, manca di quei lampi necessari a far decollare la rappresentazione anche se dobbiamo riconoscere che ha fatto un buon lavoro sia con l’Orchestra del Teatro dell’Opera e con il Coro guidato da Roberto Gabbiani, sia con i cantanti.
Concludiamo con la compagnia di canto evidenziando che abbiamo ascoltato la recita del 2 ottobre nella quale era impegnato il cosiddetto ‘secondo cast’, la cui caratteristica principale era quella di essere formata da giovani cantanti tutti molto bravi scenicamente, frutto certo del lavoro registico di Graham Vick, mostrando però qualche immaturità per l’interpretazione vocale di un’opera come Don Giovanni.
Nelle principali parti maschili c’erano Riccardo Fassi (Don Giovanni) e Guido Loconsolo (Leporello) entrambi in possesso di un interessante impianto vocale che ha consentito loro di offrirci personaggi piuttosto credibili nell’ambito di questa particolare rappresentazione. Gioia Crepaldi è stata una Donna Elvira interessante ma da considerare in via di maturazione così come il Don Ottavio di Anicio Zorzi Giustiniani. Corretto il Commendatore di Antonio Di Matteo.
Abbiamo volutamente lasciato per ultimi gli altri tre personaggi perché tutti provenienti dal progetto ‘Fabbrica’ Young Artist Programm del Teatro dell’Opera, iniziativa che riteniamo molto utile per la valorizzazione dei giovani e che può produrre quel ‘teatro di repertorio’ necessario alla diffusione del teatro d’opera. In questo progetto si è diplomata Valentina Varriale, Donna Anna della serata. La cantante che già ha affrontato con sicurezza molti importanti ruoli dimostrando di poter sostenere il ‘peso’ vocale di questo personaggio. Gli altri due, Andrii Ganchuk e Rafaela Albuquerque, rispettivamente Masetto e Zerlina, ci hanno regalato una piacevole coppia di giovani contadini un po’ penalizzati, soprattutto la seconda, dall’esuberanza della regia.
La recita alla quale abbiamo assistito (2 ottobre) ha subito delle contestazioni alla fine di ognuno dei due atti molto evidentemente rivolti alla realizzazione scenica. Tutti gli altri interpreti sono stati applauditi a lungo al termine dello spettacolo.
Claudio LISTANTI Roma 12 orrobre 2019