di Carla ROSSI (Università di Zurigo)
Il quadrato magico del Bronzino ed un’effigie di don GarzÍa mai consegnata a Cosimo I
Dal 1904, la Gemäldegalerie di Berlino ospita una tavola del Bronzino[1] inventariata, sotto la sigla S 2, semplicemente come Bildnis eines Jünglings (Ritratto di un giovane).
Realizzato su legno di pioppo di piccole dimensioni (58 x 47cm), il dipinto (fig.1) raffigura un adolescente: l’incarnato del viso e delle mani affusolate è chiarissimo, appena tinto dallo smunto rosato delle guance, gli occhi grigio-verdi appaiono, grazie alla luce diretta sul volto, lievemente infossati e segnati da rughe precoci, le labbra esangui sono strettamente serrate, il naso piccolo e dritto è ben modellato dal chiaroscuro. Il giovane, sebbene guardi nella direzione di chi lo osserva, è sfingeo, mentre stringe tra le mani un taccuino su cui è tracciato un quadrato magico di ordine 3×3.
In virtù dell’inafferrabilità di quello sguardo e dell’aspetto malaticcio del ragazzo, il dialogo tra effigiato e spettatore risulta ipnotico per chiunque voglia sondare l’enigma dell’adolescente che emerge dallo sfondo scuro con la stessa leggerezza e secondo la stessa tipologia (che si distingue per il taglio del busto «a volte precisato fino a includere una o ambo le mani e per la spiccata frontalità»)[2] espressamente elaborata dal pittore per i duchi di Firenze, a partire dagli anni Cinquanta, col Ritratto di Eleonora di Toledo,[3] ripresa in tutte le effigi dei giovani Medici.
In egual modo, le particolari dimensioni della tavola richiamano quelle scelte dal Bronzino per i ritratti medicei ufficiali, tutti in media sui 58 x 46 cm.
Nel Bildnis eines Jünglings, come nel ritratto di Luca Martini, in quello del Lenzi, del Martelli, della Panciatichi o di Pierino da Vinci, l’inserimento di un dettaglio è finalizzato ad evocare l’identità dell’effigiato. Qui l’anomalia del quadrato magico, data dalla presenza di numeri romani anziché arabi, si configura come un palese segnale distintivo.
Al riscontro delle tavole cabalistiche dell’epoca, il quadrato riprodotto dal Bronzino di ordine 3 (il più piccolo possibile), si riferisce a Saturno, sesto pianeta del sistema solare (sommando i numeri della costante magica 15, si ha infatti 6), connesso al ciclo della vita, alla morte e alla rinascita. Se lo si esamina attentamente (fig. 2), si nota poi come i numeri romani siano scritti in maniera piuttosto singolare: il quattro, sia da solo, sia a comporre il numero nove (VIIII), è contraddistinto sempre da altrettante linee verticali: IIII. Sebbene il Bronzino fosse solito scrivere il numero in questa foggia, come attesta anche il Ritratto di Stefano Colonna, la serie che appare nel quadrato della tavola berlinese risulta particolare:
In più, trascritte fuori dai singoli quadrati che le contengono, le prime due serie numeriche, a livello grafico, sono identiche, ossia VIIVIII | VIIVIII. Sempre graficamente, si nota come il segno V appaia tre volte diagonalmente, a sinistra e a destra:
Non sarà peregrino osservare come la tripla V, nelle sigle latine, stia per Vale, vale, vale!: il saluto rivolto dai vivi ai morti. Il dettaglio potrebbe forse spiegare il motivo per il quale anziché i numeri arabi, come nei consueti quadrati magici,[4] il Bronzino utilizzi i numeri romani.
Evidentemente, questi minimi elementi bastavano ai contemporanei per riconoscere l’identità dell’adolescente. Un’identificazione che, a distanza di secoli, non risulta altrettanto immediata.
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La provenienza della tavola berlinese
La storia del dipinto può essere documentata ufficialmente solo dalla fine dell’Ottocento: già di proprietà del mercante fiorentino Stefano Bardini, che nel 1889 aveva tentato di venderlo, attraverso Wilhelm Bode, alla pinacoteca berlinese, ottenendo il rifiuto della Sachverständigen-Kommission (la commissione tecnica di esperti, solitamente restìa a nuove acquisizioni), il quadro venne acquistato dall’imprenditore tessile e collezionista berlinese James Simon, insieme con una predella di Antoniazzo Romano raffigurante Salomé che mostra a Erode la testa del Battista.
Ricco mecenate dei musei berlinesi, nel 1896 Simon partecipò alla fondazione del Kaiser Friedrich-Museums-Verein, per l’inaugurazione del quale, nel 1904, donò un importante complesso di opere d’arte: ben 450 pezzi (tra cui la tavola bronziniana), esposti in un vano a lui intitolato, il Simon-Kabinett.
Com’è noto, nel 1878 la pinacoteca berlinese aveva acquisito, tramite la mediazione dello stesso Bardini, dalla collezione Strozzi di Firenze, il Ritratto di Ugolino Martelli del Bronzino. La provenienza delle tavole procurate da Bardini non è, però, sempre limpida: dal carteggio superstite del mercante d’arte[5] emerge il frequente tentativo di cancellare ogni sorta di traccia che potesse rivelare il vero luogo di origine dei pezzi, forse per evitare trattative private tra proprietari ed acquirenti.
Poco o nulla ci aiuta sapere che il cugino di James Simon, Eduard, per la sua villa berlinese sulla Viktoriastrasse, avesse acquistato da un collaboratore di Bardini, Elia Volpi, un altro quadro del Bronzino, il Ritratto di gentiluomo, oggi ad Ottawa, proveniente da Palazzo Giugni.
Come testimoniano vari componimenti in versi (italiani e latini) e missive private, il Varchi, il Lasca e Luca Martini, in differenti periodi della propria esistenza, si invaghirono di alcuni adolescenti (di Lorenzo Lenzi e Giulio della Stufa il Varchi, di Filippo Peruzzi il Lasca e di Antonio Lapi il Martini): giovanissimi di cui il Bronzino e il suo allievo Alessandro Allori eseguirono altrettanti ritratti.
Più indizi, però, lasciano supporre che l’effigiato della tavola berlinese non sia stato uno dei giovani amori di questi letterati.
2) Il quadrato magico intagliato nei quadranti orari
Sul tema dei quadrati magici esiste un’assai ampia letteratura, che esamina soprattutto la cultura magica rinascimentale, quando si torna a collegare strettamente la matematica alla magia e all’astronomia.
Questi furono associati all’influenza celeste, esercitata dalle stelle e dai pianeti.
Va segnalato inoltre come, presso il Museo Galilei di Firenze, siano conservati alcuni quadrati magici di epoca cosimiana, provenienti dalle collezioni medicee, intagliati su strumenti astronomici, ossia su quadranti orari (chiamati quadranti proprio per via della forma a quarto di cerchio: sorta di astrolabio ripiegato due volte su se stesso).
I quadranti orari servivano principalmente ad orientarsi in mare, in quanto, al pari di quello realizzato da Giovanni Battista Giusti per Cosimo I, ospitato presso lo stesso Museo Galilei, contenevano bussole, complete di ago magnetico, orologi solari, scala dei gradi, linee orarie per le ore italiche, la Rota medii motus et quantitas diei, che indicava i segni zodiacali, i mesi e gli otto venti principali.
Può apparire singolare che, tra i tanti strumenti utili in marina presenti in questi quadranti orari medicei, figurino dei quadrati magici 3×3, come quello del Bronzino (ma con numeri arabi, figg. 3-14).
La funzione dei quadrati magici non era pratica: la presenza di quella precisa serie di numeri 3×3 valeva come talismano per i navigatori, in quanto quelle cifre erano considerate espressione dell’ordine cosmico.
Va altresì evidenziato come più di un poeta, tra cui il Bronzino stesso, avesse elaborato in versi più di un gioco onomastico tra il nome del Duca, più volte apostrofato come il gran Cosmo, e l’universo.
Chi è, dunque, il giovane effigiato nella tavola berlinese?
3. Gli occhi chiari del giovane della Gemäldegalerie e Don Garzía de’ Medici
Se, all’inizio di questo articolo, abbiamo notato come sia le proporzioni del dipinto, sia la posa scelta dal Bronzino per il giovane col quadrato magico intrattengano stretti legami con i ritratti medicei, non possiamo fare a meno di sottolineare ora come un ulteriore dettaglio paia condurci in casa del Duca: gli occhi chiari del ragazzo dal pallido incarnato.
Due erano i figli maschi di Cosimo I con gli occhi chiari: Ferdinando, nato nel 1549, e Garzía, nato nel ’47, per quale il padre aveva previsto una carriera militare in marina, ma il giovane morì a 15 anni, di malaria, nel 1562.
A Firenze imperversava la tubercolosi, da cui tutti i giovani Medici erano stati colpiti, insieme con la loro madre;
il morbo richiedeva soggiorni frequenti nelle zone costiere, dove si contraeva facilmente la malaria. Nel 1562 morirono precocemente prima Giovanni, destinato alla carriera ecclesiastica (investito cardinale, infatti, a soli diciassette anni), poi Garzía che, adolescente, era già comandante onorario delle galee pontificie e comandante supremo di quelle toscane; infine, consunta dal morbo e dal dolore per la perdita dei figli, la Duchessa Eleonora. Ferdinando (che non guarì mai completamente dalla tubercolosi) fu l’unico a sopravvivere e fu fatto cardinale nel 1562 all’età di 14 anni, subito dopo la morte del fratello Giovanni.
Una differente versione della storia della scomparsa dei due principi, alla quale non furono estranei i fuoriusciti fiorentini, racconta che durante una battuta di caccia, un colpo di archibugio sparato da Garzía uccise il fratello e che, in un accesso d’ira per l’accaduto, Cosimo pugnalò a morte il figlio cadetto.[6]
Dal Vasari apprendiamo che il Bronzino:
«ritrasse, sì come piacque a lei [Eleonora di Toledo], un’altra volta la detta signora Duchessa, in vario modo dal primo, col signor don Giovanni suo figliuolo appresso. Ritrasse anche la Bia fanciulletta e figliuola naturale del Duca; e dopo, alcuni di nuovo et altri la seconda volta, tutti i figliuoli del Duca, la signora donna Maria, grandissima fanciulla, bellissima veramente, il prencipe don Francesco, il signor don Giovanni, don Garzía e don Arnaldo in più quadri, che tutti sono in guardaroba di sua eccellenzia insieme con ritratto di don Francesco di Tolledo, della signora Maria madre del Duca e d’Ercole Secondo, duca di Ferrara con altri molti».[7]
Effettivamente, nell’Inventario di Palazzo Vecchio,[8] risulta, collocato nella Guardaroba di Cosimo I de’ Medici, il Ritratto di Garzía de’ Medici bambino: «Uno ritratto dell’Illustrissimo Signor Don Garzía, quando era piccolo, di mano del Bronzino».
Del nostro (che ne realizzò in doppia copia) sono giunti sino a noi almeno due ritratti dell’ottavo figlio di Cosimo: quello cui si accenna nell’Inventario lo raffigura sui due/tre anni, mentre stringe tra le mani un amuleto, l’altro sui cinque anni (oggi presso la pinacoteca comunale di Lucca, in deposito dalle Gallerie di Firenze e da cui venne tratta l’immagine per la serie delle miniature medicee su stagno).
Del piccolo duca esiste anche un dipinto del Vasari, che lo ritrae sui sei anni insieme al fratello Giovanni.
Dal momento che il piccolo, sebbene fosse nato il primo luglio del 1547, ebbe il battesimo tre anni più tardi, il 29 giugno del 1550, al fonte di San Giovanni, con una sontuosa cerimonia cui accennano più cronache, non mi pare azzardato proporre che il primo dipinto bronziniano fosse stato realizzato in quell’occasione.
Attraverso queste opere, apprendiamo che Garzía era di carnagione chiara, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurro-verdi. Ma non sono esclusivamente motivi fisionomici a spingermi ad ipotizzare che il ragazzo con il quadrato magico di Berlino sia Don Garzía: è soprattutto, la testimonianza in versi del Bronzino stesso.
Negli ultimi mesi del 1562 (del calendario fiorentino, secondo il quale l’anno s’iniziava il 25 marzo), dopo essere stato colpito anch’egli da grave infermità, il pittore,[9] in risposta alla sollecitazione poetica del Varchi (Esser morto più tosto che guarito), scrisse dodici sonetti in morte dei tre esponenti delle famiglia de’ Medici, tra cui il seguente, che nell’idiografo bronziniano viene dopo quello in morte di Giovanni (Quand’io penso fra me) ed è espressamente dedicato a Don Garzía, definito Angioletto, oltre che nuovo Giasone, in virtù della carriera navale scelta per lui da Cosimo:
E perch’io più m’impetre e ‘l cor condenso/ Per gli occhi versi, eterno rio, l’eletto/ Frate, nuovo Giason, puro Angioletto,/ Volato è seco a seguitarlo intenso:/ Quello, ond’il gran Tirren, da tante offenso/ Voraci forche e depredato e ‘nfetto/ Sperava aiuta, e’ n cui tutte ricetto/ L’armi e le muse avien di par consenso./ Or l’empio Scita incoronato il messo/ D’oliva attende e già rapir gli è avviso/ Quanto gli ha il caso orrendo nostro offerto./ Pietà, Signore, omai, sebben l’eccesso/ Nostro il contende e baste al nostro merto/ Quant’or ne ‘mpetra il cor ne riga il viso.
Quel che mi sembra interessante, è che in un altro sonetto della stessa silloge, il Bronzino alluda espressamente ad un suo ritratto di Garzía, definito ancora una volta Angel.[10]
Da quanto traspare da questi versi, l’effigie era stata realizzata quando il ragazzo era ancora vivo, al contrario di quanto accadde per il quadro postumo della piccola Bia (con cui il giovane di Berlino pare condividere alcune caratteristiche somatiche), figlia primogenita e illegittima del Duca, realizzato dal Bronzino utilizzando una maschera funeraria. In seguito (probabilmente a causa della malattia del pittore – nella finzione poetica, infatti, il Varchi gli annuncia la morte dei tre, di cui il pittore non era a conoscenza per via della propria infermità) il dipinto, forse non ultimato, come parrebbe suggerire il v. 8, dovette restare come in attesa, presso il pittore, che nel sonetto si interroga, rivolgendosi al ritratto stesso, su come potrà egli consegnarlo a Cosimo, senza esacerbare il dolore per la perdita degli amati congiunti:
O del più bello e più nobile e santo/ Angel più che mortal, sebben da umile/ Dipinta mano, imagine gentile,/ Che sì tosto ogni gioia ha volta in pianto,/ Come fia mai, ch’al mio Signor, cui tanto/ Caldo sacrai i color, l’arte e lo stile/Ti porga? Or troppo al ver forse simile,/ Ch’io tenea poco e Dio, non me, ne vanto;/ Né mi spavente rinnovarli il duolo/ Del tuo stinto esemplare e del buon frate/ Morto e della sua spenta alma consorte?/ Nol farò, dunque, ancor ch’io sappia solo/ Egli aver tanto al Ciel l’ali innalzate/ Che qui nol cangia o buona o trista sorte
[Immagine gentile, del più bello, nobile e santo Angelo così mortale, che tanto presto ogni gioia si è trasformata in pianto, sebbene tu sia dipinta da umile mano, come potrà mai avvenire che io ti porga al mio Duca, al quale ho consacrato i colori, l’arte e lo stile? Io ti consideravo di poco valore, ma se ora appari troppo simile al vero, è per merito di Dio, non mio. Non mi spaventa rinnovare in lui il lutto per il tuo modello defunto, per il buon fratello di questi, e per l’anima estinta della sua consorte? Non lo farò, dunque, benché io sappia che Cosimo ha tanto innalzato le sue ali al Cielo che qui sulla terra non lo muta buona né cattiva sorte]
Interessante ancora come Don Garzía sia definito Angelo da Cosimo stesso, nella lettera inviata al figlio Francesco, che si trovava in Spagna al momento della morte dei familiari:
«El caso è questo, che doppo l’esser quel agnolo di don Garzia, tuo fratello, stato malato 20 giorni, con dir li medici che qualche volta pareva lor netto; e stando per uscir di letto, li cominciò una febbre veemente e assai ardente. […] Crebbe sempre il male sino al settimo [giorno] e nell’ottavo, come fu voluntà di Dio, andò al Cielo. Dico che andò al Cielo, perché con un animo constantissimo non sol ricevé la morte, ma come un San Paulino due dì innanzi chiese la confessione e comunione e predicava la gloria di Dio alli circustanti e un giorno innanzi che morissi, chiese l’estrema unzione, con parole che ogni padre doverrìa desiderare d’aver di questi agnoli nella vita eterna quando Dio è servito […] Di Pisa, li 18 di dicembre 1562.
Amorevol padre el Duca di Firenze».[11]
Ora, giacché il Bronzino, nel sonetto, parla d’un ritratto di Garzía verosimilmente mai consegnato a Cosimo, dal momento che non ve n’è traccia nelle collezioni medicee, mi pare sia lecito chiedersi se quegli elementi distintivi della tavola berlinese (la costante magica 15, che potrebbe alludere all’età dell’effigiato, il quadrato magico, talismano dei naviganti, la scelta dei numeri romani disposti a richiamare il saluto rivolto, in latino, dai vivi ai morti) non alludano tutti allo sfortunato principe, morto quindicenne, destinato ad una carriera in mare, il cui cadavere riesumato nel 1857, venne così descritto:
«Il cadavere dell’infelice giovanetto [Garzía] trovammo ridotto in ossa, con un berretto di velluto nero sul teschio».[12]
Anche il giovane della tavola di Berlino indossa il classico berretto di velluto nero dei giovani fiorentini.
Nel maggio del 2004 sono state condotte ulteriori indagini paleopatologiche sui resti dei Medici, che hanno confermato la causa di morte per malaria di Don Garzía.[13]
Interessante la testimonianza in versi di Francesco de’ Medici, maggiore di Giovanni e Garzía e ventunenne all’epoca del lutto, che rimase fortemente turbato dalla perdita del giovane Garzía:
Occhi, deh, quanti ha il Cielo io tanti havessi/ Et quanti ha fiori Aprile , Che mio Frate gentile/ Morto, come io vorrei, pianger potessi.
(Madrigale I)[14]
L’angoscia che il Frate gentile potesse esser morto a causa di una pugnalata di Cosimo parrebbe testimoniata dal terzo madrigale:
Tu per adra mortale onda sanguigna/ Passi a porto di vita/ Ove tranquillo posi ogni maligna/ Tempesta aura serena hora schernita./ Et di mia sbigottita/ Navicella ben (credo) ancor sovvienti./ Ella dietro pur tienti et di te guarda / Et giugnerti s’ingegna./ Et odia et sdegna ciò che la ritarda.
Ad oggi non sono state condotte indagini radioscopiche sulla tavola berlinese, ma non stupirebbe se si scoprisse che le mani e il taccuino sono stati elaborati dal pittore in un secondo momento, con l’inserimento di quei pochi dettagli tanto caratterizzanti
Carla ROSSI Zurigo 27 maggio 2020
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